Alla base di ogni storia c’è un tradimento: una dichiarazione apre l’ultimo film di Noah Baumbach, Mistress America (arrivato tardivamente sugli schermi italiani, dopo la presentazione al Sundance nel 2015), ancora una volta sorretto dalla presenza carismatica e solare di Greta Gerwig. Proprio alla sua voce è affidato il commento in voce off in esergo al film che ci permette di aprire una digressione sul senso del raccontare storie nella vita, che sia per mestiere o per diletto.
I personaggi del mondo di Baumbach apparentemente amano le storie, ma sembrano intrappolati nell’arte dello storytelling: i genitori de Il calamaro e la balena sono non a caso due scrittori, la cui fine della loro famiglia è sancita dal riscontro che i loro libri hanno sul pubblico (la madre diventa improvvisamente famosa scrivendo un bestseller, distante dai romanzi cervellotici del marito); la nevrotica Margot, in Il matrimonio di mia sorella, è una romanziera di successo che ha infranto il rapporto con l’eccentrica Pauline proprio a causa di un racconto troppo crudo; la spensierata Frances in Frances Ha passa le sue giornate nell’arte della chiacchiera confusa e diffusa che la allontana progressivamente da ciò che le interessa veramente; lo stralunato Josh in Giovani si diventa è un documentarista che non riesce a porre una fine al suo discorso filmico alla ricerca di un’impossibile verità. È quindi evidente che la giovane Tracy Fishko di Mistress America, studentessa con velleità letterarie, che metterà in crisi Brooke, futura sorellastra, con uno scritto tanto realista quanto amaro, è soltanto l’ultima di una serie di personaggi intrappolati nell’arte del racconto, vero movente di queste commedie esili e amare a cui Noah Baumbach ci ha abituato.
Se a lungo si è parlato e scritto dei personaggi che sorreggono i suoi film, più raramente si è andati a fondo, esaminando quanto “il tradimento” informi tutto il suo cinema, perché per Baumbach la dichiarazione di cui sopra, che ci fa subito pensare a Hemingway (“ogni volta che racconti una storia la tradisci”), assume tutt’altro significato. Il tradimento di una storia non sta nel suo essere storia, nel suo passaggio dalla mente alla parola, dalla parola alla pagina, ma nel tradimento del reale operato da ogni racconto affinché esso si faccia storia; per questo la creazione è spietata (come sottolinea uno dei pochi mentori “bastardi” dei film di Baumbach, il maestro del documentario Leslie Breitbart di Giovani si diventa), soprattutto se essa spinge il narratore a tradire se stesso, come accade a quasi tutti i personaggi dei suoi ultimi film. Frances passa le ore a parlare male dell’amica Sophie ma è prima di tutto dal suo io profondo che, così facendo, si allontana. Lo stesso avveniva, con molti isterismi in più, alla cerebrale Margot persa in sovrastrutture del sé e incapace di raggiungere la pienezza della vita reclamata dal rigore delle sue pagine. E cosa dire dello sventurato Josh che mentre ricerca la verità della classe operaia si lascia irretire dall’inseguimento di una giovinezza ormai persa per sempre? Tradimenti, quelli che riaffiorano anche nelle pagine della giovane Tracy, che per provare la propria stoffa di scrittrice sa soltanto tratteggiare in veste di fallita la trentenne Brooke, con i suoi sogni da imprenditrice.
Ma questo tradimento è operato su più piani, nei film di Baumbach: non sono soltanto i personaggi a tradire all’interno della diegesi, ma l’autore stesso si diverte a mettere alla berlina i suoi protagonisti in scene cardine in cui l’empatia nei loro confronti viene più o meno duramente messa alla prova, rivelandoci il lato più sgradevole, superficiale o egoista. Succede persino nel suo film più evidentemente fatto per piacere, pieno di strizzatine d’occhio agli stereotipi delle Nouvelle Vague, quando Frances dichiara a un amico, durante una cena: “Non mi piace andare in moto, non posso neppure sentire la musica!” e quello gli ribatte esterrefatto: “Ma sei in moto!”. Lei è impacciata e piacevole, lui la ascolta incantato durante una cena a lume di candela, eppure questa boutade ce la rende dichiaratamente “impresentabile”, parola scherzosa attorno al quale ruoterà la sua non integrazione sociale. Il tradimento di Baumbach sta proprio nella perenne insoddisfazione riversata sulle spalle dei suoi personaggi: donne e uomini incapaci di scendere a patti con il limite del tempo, esibizione di un male contemporaneo su cui il regista sembra però incapace di sviluppare un vero e proprio discorso. Le sue commedie fanno esplodere il conflitto troppo avanti nella narrazione per imbastire una reale riconversione, così che la “riammissione nella società” appare più uno stratagemma conclusivo, calato dall’alto e non generato da un cambiamento nel personaggio o dai rapporti tra i diversi protagonisti. Spesso, l’unica differenza è portata dal compiersi del progetto che la società ha per gli individui, che sia la realizzazione di uno spettacolo o la formazione di una famiglia. Unica a sottrarsi a queste risoluzioni è Brooke che, imperterrita, insegue il suo sogno senza capo né coda, vicina a un delirio solipsistico che ci comunica qualcosa di più dell’adozione (e dello sguardo sulle nuove generazioni native digitali) che chiude il precedente Giovani si diventa.
Ed è proprio da Mistress America che emerge una domanda (implicita nel film, ma di cui il finale reca traccia): il percorso verso la “nuda verità”, il creare irrimediabili ferite nei personaggi reali o negli spettatori presunti, è la strada più stimolante per la narrazione? O, al di là del cinismo – che a tratti si manifesta in un pessimismo un po’ reazionario (pensiamo soprattutto all’attacco alle nuove generazioni), – si può istaurare un altro modo di rielaborare la società contemporanea?
Nessuno toglie a Baumbach la rinnovata capacità di confrontarsi con la nuova classe intellettuale americana, quella che non frequenta più gli appartamenti lussuosi delle commedie di Allen. Il suo universo di scrittori in crisi, ex-studendesse bloccate nella precarietà sentimentale e lavorativa, artisti che devono ricoprire un ruolo di docenti senza passione, sognatrici che vagano nella liquidità di un mercato economico allo sbando, sono “figure”, tutt’altro che scontate nel panorama del cinema americano, di una trasformazione in atto e di una possibile riconfigurazione. Eppure, al cuore di questo processo vige la legge di un individualismo caricaturale, conseguenza del “tradimento” di Baumbach nei confronti dei suoi stessi personaggi. Ancora una volta, con Mistress America, film a suo modo istantaneo e leggero, l’incontro – dal gusto screwball – tra Tracy e Brooke non porta ad alcun cambiamento: il tradimento viene servito allo spettatore come un gesto dovuto, volto a sottolineare l’inadeguatezza dei due personaggi all’esistenza e a condannarli nel loro ruolo, sotto una ben precisa maschera di sé.
Potremmo dire che è tutta una questione di linguaggio: tale chiave ci è offerta proprio da Baumbach che, nel momento in cui fa entrare il cinema in maniera metalinguistica nei suoi film, decide di parlarci di documentario. La cifra più curiosa di Giovani si diventa è la scelta di mettere in campo tre istanze autoriali del cinema del reale, tra modernità e postmodernità. Se il già citato Leslie Breitbart è un padre del cinema diretto, come Pennebaker o Maysles, che crede nella verità dell’esperienza filmica, Josh è già consapevole della corruzione propria legata all’imparzialità della narrazione cinematografica e lavora sull’autenticità del percorso (potremmo vederlo come un Errol Morris?), mentre il giovane Jamie si fida soltanto dell’efficacia della riproduzione del reale e, da perfetto novello Micheal Moore, non teme di rimettere in scena e manipolare a suo piacimento ogni tassello. Questa giostra di istanze narrative, così ben articolate (meglio che nel noto manuale di Bill Nichols sul cinema documentario!) cosa offre a Baumbach? Accende una scintilla? Provoca un cortocircuito alla sua articolazione drammatica? Non esattamente: ancorato al personaggio di Josh – che ha tradito nella vita i propri ideali – utilizza il rimando cinefilo in maniera puramente ludica, e facendo rimuovere al suo personaggio ogni consapevolezza sul percorso verso la verità nel grottesco finale.
Nella società di piccoli artisti, coreografe underground, scrittrici di provincia la memoria sembra esistere solo per i torti subiti, le parole che non si possono dimenticare, le cause perse, ci si dimentica invece di ogni evento che investe una dimensione più ampia, non osiamo dire politica ma forse sociale. Frantumi di solidarietà sono quelli che emergono dal sorriso scambiato tra Frances e Sophie alla fine di Frances Ha: un film la cui forza sta nella fisicità, unico antidoto possibile sottratto bruscamente e sostituito dalla parola come mediazione nei confronti dell’altro. Le botte scherzose che Frances non può più scambiare con Sophie rappresentano un momento idilliaco, forse l’unico, contro il costante svilimento quotidiano a cui può opporsi soltanto il corpo dell’attore. Proprio la corporeità è protagonista assoluta di Lo stravagante mondo di Greenberg, in cui la caricatura diventa modello sprigionando una potenza eversiva virulenta che si scontra con la retorica dell’esile vicenda, e gioca un ruolo importante anche nell’incontro con un’attrice-autrice come Greta Gerwig. Il suo corpo – scomposto, fuorimisura e ammaliante – è l’unica arma contro cui la trappola di Baumbach ad opera dei suoi stessi personaggi mostra qualche cedimento. Lei sì, stravagante e stravagata, corpo offeso e senza memoria, può esserci e stare, immune a qualsiasi trama contro la sua natura, capace di farci credere a un’utopia, accendendoci di desiderio.