Undicesimo lungometraggio per il cinema di Danny Boyle, Steve Jobs è soprattutto il settimo copione per il grande schermo di Aaron Sorkin. Basato sulla biografia autorizzata di Walter Isaacson, pubblicata nel 2011, quello di Sorkin non soltanto è un testo apprezzabile per il ritratto obliquo del celebre informatico e imprenditore statunitense, ma si rivela, fin dall’inizio, la chiave per approcciare il film stesso, per comprenderne le ragioni e leggerne il movimento. Instancabile sperimentatore entro i codici della drammaturgia classica, Sorkin firma una sceneggiatura che, al solito, è un bilancio di esperienze eterogenee: nel cinema si condensano le tensioni teatrali dei dialoghi e quelle strutturali della serialità televisiva, nel conflitto del personaggio prendono forma le immagini e il ritmo con cui il film arriva ai nostri occhi, nella parola, in definitiva, la regia trova il proprio tracciato.
L’ingombrante sceneggiatore intacca e modella innanzitutto la struttura filmica, disturbando la linearità narrativa con la presentazione di tre episodi a compartimento stagno, totalmente indipendenti l’uno dall’altro. Dove bisogna cercare le ragioni di questa scelta? La prima e più ovvia risposta la troviamo nell’esperienza televisiva tanto cara a Sorkin (guardare per credere i successi di West Wing e The Newsroom). Il mito non può che edificarsi nelle mancanze della propria immagine, lasciando campo aperto alla leggenda e certificando solo i colpi d’ala sospesi tra l’umano e il divino. Raccontare un mito dunque trova terreno fertile laddove la lacuna si trasforma in mancanza, dove la frustrazione per la mancata chiusura narrativa è il pane di tutti i giorni: le serie tv appunto. I tre episodi (potrebbero essere dieci, nulla cambierebbe) raccontano sì il dietro le quinte di tre launch events, illudendo quindi lo spettatore di illuminare le zone d’ombra della personalità di Jobs, ma troncando continuamente i conflitti messi in scena, il film non fa altro che alimentare la frustrazione informativa così necessaria al mito e alla sua narrazione.
La seconda risposta è in Steve Jobs stesso, o meglio nei colpi d’ala di cui accennavamo poco sopra. Non c’è dubbio che il più decisivo (e virale) successo di Jobs non sia un prodotto in particolare, o un launch event, bensì il discorso tenuto alla Stanford University nel 2005 dove coniò la formula che ispira (ahinoi!) ancora oggi uomini e donne di tutto il mondo: “Stay hungry, stay foolish” (discorso al quale, per sua stessa ammissione, Sorkin ha messo mano). Jobs apre la sua orazione dicendo: «Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie». Ecco che il miglior “prodotto” dell’informatico diventa lo scheletro della narrazione del suo mito e in questa scelta c’è tutta la consapevolezza di Sorkin. L’abbiamo già visto in The Social Network, nel quale il ritmo è infernale nonostante la sedentarietà dei suoi personaggi, poiché mima il diluvio di giudizi, polemiche e gossip (in totale assenza di continuità temporale) dove la parola annega, ovvero la bacheca di Facebook. Il racconto del mito (nordamericano) in un’epoca nella quale il dietro le quinte è diventato parte della performance deve passare forzatamente dal palco. Steve Jobs racconta il backstage senza mostrare il launch event, perché è la struttura filmica a ricalcare il prodotto stesso, che a sua volta utilizza il primo per fomentare il mito.
In questo quadro strutturale anomalo, fatto di ridondanze narrative e tensive, si inscrive tuttavia quanto di più classico Sorkin abbia dimostrato di masticare nel suo lavoro di drammaturgo: tra le pieghe della sperimentazione, il suo è un cinema di ferite. Come per il Will McAvoy di The Newsroom, in continua lotta con la paura del tradimento, così anche Steve Jobs lascia intendere forte e chiaro lo spettro dell’abbandono. Quando Jobs, in dialogo con John Sculley a metà del terzo atto, ripercorre la propria vicenda infantile fatta di adozioni plurime e plurime restituzioni, il sospetto che di questa eco risuonino gli anni di una vita intera è già piuttosto consolidato: chi avverte nel profondo l’abbandono, fa di tutto per non essere nuovamente abbandonato, e la prima strategia è il controllo distale sulle responsabilità della relazione. Tutto il film si articola dunque in due direzioni: una estroflessa e catalizzatrice, quella del marketing e dell’attesa di incontro con un pubblico indistinto; l’altra intima e a un tempo eccentrica, ossia l’avvicendarsi quasi isterico di figure prossime a Jobs, in “visita” al suo tempio per chiedere, paradossalmente, una piena legittimazione ai suoi occhi. Certo, perché il film sia centrato, Sorkin riesce nell’impresa di rendere endemica la ferita: così ai nostri occhi Chris Ann Brennan non è solo un’ex moglie in cerca di denaro, Steve Wozniak non è un moralista o un invidioso, la figlia Lisa non è affatto inconsapevole e smarrita, e Joanna Hoffmann, storica collaboratrice di Jobs, non si rivelerà la paziente e olimpica assistente che in apparenza sembrerebbe. Sono tutte figure, queste e le altre, che domandano una relazione, e di queste maschere è proprio Jobs a vestirle, per contenere, tra ironia, sprezzo e manipolazione, l’invasione al fortino della propria intimità. Non stupisce che, quando Sculley viene a sapere che Steve aveva trovato il proprio padre biologico, e gli domandi perché non gli si fosse mai rivelato, nonostante le plurime frequentazioni nel ristorante da lui gestito, Jobs risponda: «He’d probably find a reason to sue me» («Avrebbe trovato un motivo per farmi causa»). End to end: come per il sistema operativo Apple, la relazione è arginata.
Nella scrittura analitica e insieme sintetica di Sorkin, la stratificazione dei luoghi e delle loro architetture si dota dunque di un doppio vincolo: il backstage è la sede dell’allestimento e della corsa contro il tempo, ma soprattutto lo spazio di una sofferta confessione: se i cavi e le luci nascosti dietro alle quinte ricordano i circuiti di un calcolatore visto dall’interno, il teatro dell’azione, continuamente franto dalla discontinuità di ricordi e proiezioni, si configura quale retroscena animico del personaggio; il palco coincide con il momento dell’acclamazione, ma quando sullo schermo del nuovo IMac compare la grafica di un “hello (again)”, scritto in font rigorosamente umanizzato, non si può non pensare alla comunicazione mediata che il personaggio stringe con il mondo esterno. Al cuore del film, ecco il flashback che segna l’aggravarsi della ferita: lo storico licenziamento a danno di Jobs da parte di Apple. Le battute del personaggio a tal proposito sono, come spesso accade in Sorkin, fortemente tematizzate: «Now I bled that night. And I don’t bleed» («Quella notte sanguinavo. E io non sanguino mai»). La risoluzione parrebbe impossibile, nel mondo distorto che Joanna Hoffmann, esausta, finisce per rimproverare a Steve: se l’uomo è davvero l’animale meno efficiente della Terra – come Jobs sostiene fin da giovane per promuovere l’indispensabilità delle sue invenzioni – è la figura della figlia a generare un principio di cambiamento. È Lisa a parlare la stessa lingua del padre (senza neppure saperlo, come per il disegno infantile del primo atto): domanda la stessa intimità degli altri, ma a differenza degli altri è figlia, cioè Steve Jobs al di fuori di Steve Jobs. Dopo la sfiducia globale dell’abbandono e la fiducia fantasticata della tecnologia, con Lisa si accende la fiducia reale della relazione: e agli applausi di un generico pubblico Jobs preferisce uno strano, e sospeso, ritorno dietro le quinte, verso di lei.
“End to end” è probabilmente il mantra che accosta e fa funzionare così bene il connubio tra l’informatico e lo sceneggiatore. Se tanto i prodotti quanto la vita privata di Jobs ne sono condizionati, altrettanto si può dire del “sistema-Sorkin”. I dialoghi al vetriolo, furiosi ma al tempo stesso chirurgici, si impossessano delle chiavi del film controllandone il ritmo e addirittura il movimento. Sorkin non solo costringe la regia a tambureggianti campo/controcampo ma suggerisce, insieme alle location, le serpentine attorno a scrivanie e persone che già caratterizzarono gli uffici di West Wing e The Newsroom. Il “sistema-Sorkin” è senza dubbio ossessionato dal controllo, poco o affatto incline a dialogare con una regia propositiva (fa eccezione The Social Network dove David Fincher è riuscito a integrare il lavoro di Sorkin senza lasciarsi portare al trotto dalla logorrea dei personaggi), proprio come iOS relega al silenzio assoluto qualsiasi interlocutore. Non può non essere un punto a sfavore per lo sceneggiatore che, per mettere in discussione il primato del regista, finisce col rimpiazzarlo. Resta tuttavia la lungimiranza nella scelta dei soggetti, nei quali potere, controllo e repellenza nei confronti dell’altro sono “l’anima della festa”, miscela ideale per lo stile dell’autore. A Danny Boyle, già discutibile per l’uso di superflui effetti visivi e grafiche a tutto schermo, non resta che monitorare le eccellenti performance degli interpreti, garantendo al montaggio la propria vocazione di flusso mentale del protagonista. Questa contrazione di tempi ed eventi abita lo sguardo di Steve Jobs: uno sguardo spesso affacciato sul vuoto. La biografia di un mito, e della sua paura.
STEVE JOBS, regia di Danny Boyle, USA, 2015, 122′.