“Are you willing to be a corporate slave?”
Il cinema di Johnnie To assomiglia sempre più a un elettrizzante percorso a ostacoli, ideato perché l’uomo/regista possa testare i propri limiti: un viaggio affrontato con la sagacia della contemporaneità e lo spirito individualista e cinefilo della Hollywood classica. L’approdo al musical – fatte queste premesse – diviene una tappa naturale, forse inevitabile. L’uso che Johnnie To fa, del musical, appartiene invece alla genialità di un cineasta che ha reso la lotta contro schemi consolidati e vetusti una ragione di vita, ancor prima che una cifra stilistica.
Nasce tutto da un’idea di Sylvia Chang, diva degli aurei Ottanta di Hong Kong e regista di discreto successo, che per la trasposizione cinematografica della sua pièce Design for Living sceglie di affidarsi a dei vecchi amici, fino a ricomporre il cast di All About Ah-long, indimenticabile mélo del 1989. Una tragica storia di amore, miseria e morte sorretta dalle musiche della popstar Lo Ta-yu, diretta da Johnnie To e interpretata, accanto alla Chang, da un Chow Yun-fat all’apice della carriera (The Killer di John Woo e God of Gamblers sono dello stesso anno). Design for Living – nessun legame con l’omonima commedia di Noël Coward – diviene così Office, un musical sulla quotidianità totalizzante di una multinazionale che annulla il privato dei propri dipendenti, la Jones & Sunn, alle prese con un’importante IPO (Offerta pubblica iniziale). Il rapporto sadomasochista tra l’Ufficio e i suoi impiegati è reso visivamente da To con una scenografia mirabile, affidata al collaboratore di fiducia di Wong Kar-wai, William Chang. In un misto di Lars Von Trier e di Tobias Rehberger, To assembla un set-mondo costituito da vetri, luci al neon e barre di metallo, un open space universe che assomiglia a un’installazione di arte contemporanea, in cui poter manipolare i suoi personaggi come altrettante pedine e in cui spaziare con la macchina da presa, senza temere di essere interrotto da ostacoli. A dominare palazzo, set e mondo è un gigantesco orologio, destinato con le sue lancette a ricordare la natura antropofaga e impietosa di Crono, ossessione delle vite dei dipendenti della Jones & Sunn.
Ma benché le sequenze iniziali, ricche di coreografie e canzoni – tra cui spicca un inno collettivo degli impiegati che ricorda da vicino le canzoni maoiste e getta un’ombra politica sulla critica di To – possano trarre in inganno, Office assume solo le sembianze del musical. Lo si arguisce dalla carenza di motivi memorabili, dalla sostanziale inadeguatezza degli interpreti canori (eccetto il divo canto-pop Eason Chan, in uno dei ruoli principali): è la macchina da presa, più che il fattore umano, al centro della coreografia, a danzare e volteggiare tra i piani del grattacielo wilderiano in cui i segreti inconfessabili dei colletti bianchi svelano il loro vero volto. Il set-mondo di Office va oltre le case di bambole ideate da Wes Anderson, rappresenta il compimento coerente di un percorso autoriale nel nome della dittatura della macchina da presa. Il piano sequenza wellesiano di Breaking News o gli omaggi a Jacques Demy di Sparrow conducono inesorabilmente a questa fusione tra Busby Berkeley e la stilizzazione di Dogville. In questo senso Office è titolo fondamentale e tutt’altro che minore nel corpus di Johnnie To, rafforzato dalla scelta tecnologica del 3D, che ha il chiaro compito di incrementare la propulsione di una macchina da presa onnipresente, capace con i suoi dolly di penetrare nelle carni come un oggetto cronenberghiano.
Sotto i panni del musical, Office svela in breve tempo un cuore pulsante mélo. Un esperimento, quello di conciliare gechang pian e wenyi pian, due dei generi cardine del cinema sino-hongkonghese, tentato anni fa da Peter Chan con Perhaps Love, e ripreso oggi, da tutt’altra angolazione, da Johnnie To. Office pizzica più che mai la linea di confine che divide audacia e azzardo, consegnando la commistione di due generi storici all’audacia del metteur en scène desideroso di riscrivere quelle regole.
Ancora una volta è la crisi economica il motore degli avvenimenti, il deus ex machina che riassesta o sconvolge gli equilibri. Se in Life Without Principle l’intreccio di episodi apparentemente diversificati era il nuovo valore del denaro e in Don’t Go Breaking My Heart la crisi si faceva arbitro del Fato in un contesto romcom, ora le malefatte di Lehmann Brothers costituiscono l’unica forma di mobilità sociale, la variabile destinata ad alterare un percorso ascendente che pareva predefinito per CEO e dirigenti della Jones & Sunn. Grazie al meteorite Lehmann i ruoli si mescolano e gli ultimi diventano (forse) i primi, mostrando di aver già assimilato la malizia sufficiente per poterne indossare i panni, come dimostra l’eloquente e agrodolce epilogo. In cui, come spesso in To, nessuno è destinato a salvarsi sul piano morale, se non abbandonando l’Ufficio, perdendo tutto per riacquisire la propria dignità di uomo.
Casa di bambole o prigione, teatro di posa o rappresentazione bonsai della Cina e del suo capital-comunismo liberticida, l’Ufficio è kafkianamente ubiquo. Ma imprevedibile. Dove ci si attenderebbe la leggerezza di una pochade, come quelle in compagnia di Wai Ka-fai a cui il To commediografo ci ha da tempo abituato, Office è invece tragico e politico insieme, sofferente, come nei migliori noir-mélo del regista, per il destino dei piccoli uomini immortalati. Ancora una volta, come fu in The Longest Nite nell’anno dell’handover (“Tu e io siamo come questa pallina di gomma. Dove rimbalzerà e quando smetterà di rimbalzare, non sta a noi deciderlo”), gli uomini sono solo pedine di un gioco più grande di loro, dettato dalle lancette di un orologio cannibale, destinato a non fermarsi mai.
OFFICE di Johnnie To, Cina 2015, 119′. Non distribuito in sala.