Nel ricco panorama delle opere documentarie proposte ai recenti festival di settore (e non solo), spicca un film che ha raccolto consensi dentro e fuori l’Italia (da DocLisboa fino a Rotterdam e Torino), vincendo numerosi premi e confermando le qualità messe in mostra dai registi Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis con il precedente Belva nera. Al centro del loro lavoro, ancora una volta, un territorio e una comunità che sembrano essere rimasti fuori dal tempo, lontani dall’afflato uniformante della moderna civilizzazione. Il Solengo è il ritratto sfuggente di ciò che a questa tendenza pervasiva si sottrae, frammento resistente di storia orale nell’epoca della digitalizzazione culturale, racconto corale a metà strada tra tradizione e leggenda che cerca di fare luce (o di conservare oscurità) intorno all’ombra di un uomo, celata in anfratti rurali scampati all’urbanizzazione. Un film che testimonia al contempo di una pratica di sopravvivenza tanto sociale quanto cinematografica.
Quando avete sentito parlare per la prima volta di Mario de’ Marcella, “il Solengo” del vostro film?
È stato nel corso delle riprese del nostro precedente documentario Belva nera. I pranzi alla casina di caccia sono un momento “sacro”, di gran lunga il più importante della giornata. Si mangia, si beve e si raccontano storie. Durante uno di questi pranzi Ercole, Giovanni e Ugo ci raccontarono la storia di Mario, un eremita detto “il Solengo” che viveva in una grotta e non parlava con nessuno. Ci colpì immediatamente la sua storia ma soprattutto il modo particolare che avevano i nostri commensali di raccontarla, la ricchezza dei dettagli e le contraddizioni. Il film è un tentativo di ricreare le sensazioni provate durante quel pranzo e di approfondire la riflessione sul racconto popolare e sulla campagna italiana.
Dal film emerge il ritratto di una figura sfuggente, come quella di un animale che semina il cacciatore nel bosco. Era vostra intenzione fin dal principio che “il Solengo” restasse fuori dall’inquadratura?
Parte fondamentale del mistero che avvolge la sua figura riguarda proprio la sua assenza e abbiamo voluto riportare formalmente tale sensazione nel documentario, escludendo “il Solengo” dall’inquadratura. Per questo se ne parla sempre al passato e durante la maggior parte del film non è neanche chiaro se sia vivo o meno. Ci interessava costruire questo personaggio utilizzando unicamente le voci sul suo conto e quindi la sua leggenda, lasciando che la sua figura prendesse forma attraverso le voci e i luoghi. Il film non vuole essere un documentario inchiesta bensì il nostro personale ritratto di un mondo che ci interessa e affascina. Abbiamo sempre tenuto a sottolineare che il protagonista della storia non è il personaggio ma il racconto.
Potremmo considerare anche i luoghi in cui avete girato il film alla stregua di un personaggio vero e proprio. Incombono sulla storia con aria di mistero e di cupa seduzione. La macchina da presa perlustra il territorio in cerca di qualcosa che non viene mai trovato. Forse “il Solengo” stesso, o piuttosto ciò che l’ha trasformato nell’uomo solo e isolato che era.
I luoghi rappresentano un elemento centrale nello sviluppo narrativo del film. Sottolineano l’assenza del “Solengo” ma allo stesso tempo lo rappresentano e quindi in qualche modo lo sostituiscono. Questi boschi, il fiume Mignone, la roccia di tufo, funzionano anche e soprattutto come proiezioni di una storia raccontata attorno a una tavola da pranzo. Nell’ascoltare i ricordi di questo gruppo di cacciatori, che spesso ci introducono ai luoghi ripercorrendoli fisicamente, scopriamo che racchiudono un enorme carica narrativa e una forte simbologia.
Siamo in un’epoca in cui sembra tornato d’attualità il tema della fuga dalla civiltà. È qualcosa che vi riguarda a livello biografico o a cui ambite?
Il tema può sempre essere attuale, specialmente nel mondo in cui viviamo oggi e ci ha subito coinvolti. La storia dell’eremita ci offriva la possibilità di approfondire un discorso sulla campagna laziale e ci siamo presto resi conto che ci interessava di più il modo in cui veniva raccontata la storia e in particolare chi la ricordava. Abbiamo cercato di inserire le loro storie e il loro modo di fare all’interno di un mondo di finzione, cercando di allontanarci dalla definizione classica di documentario. Il nostro è un film fatto di parole, dove sono esse a generare la narrazione e la messa in scena.
Il solengo condivide con il vostro lavoro precedente, Belva nera, una predisposizione a favore di una narrazione frammentaria che mescola storia orale, racconto corale e leggenda rurale. Come scrivete i vostri documentari, se di scrittura si può parlare?
Nella prima fase di scrittura, prima ancora di girare, lavoriamo molto sulle varie possibilità di struttura narrativa e su come dovremmo impostare il film dal punto di vista formale. Una volta sul set il lavoro è molto meno strutturato e lasciamo spazio anche all’improvvisazione, senza la quale molti momenti sarebbero impossibili da catturare. Cerchiamo comunque di seguire una logica pur dovendoci adattare a situazioni che cambiano continuamente ed evolvono. Per questo dividiamo il lavoro in diverse tappe, alternando le giornate di riprese a lunghe settimane di montaggio. In questo modo riusciamo a controllare meglio lo sviluppo della storia sfruttando gli imprevisti a nostro vantaggio.
Quello che raccontate nel film sembra essere un mondo senza donne. L’unica che compare, in maniera indiretta, è la madre del “Solengo” che peraltro dice, nei ricordi di un personaggio intervistato, “maledetto il tempo che una donna se mette li calzoni va a fuoco una nazione”. Che fine hanno fatto le donne del vostro film?
Nella storia di Mario, la figura femminile riveste un ruolo di fondamentale importanza, ed era per noi essenziale doverne evidenziare la mancanza. In questo luogo abbiamo trovato una comunità di uomini basata sulla forza, sulla caccia, spazi nei quali ritirarsi per stare lontani dalle proprie mogli, un ambiente forse maschilista ma caratterizzato da forti influenze matriarcali. Mario veniva chiamato “de’ Marcella” per essere distinto dagli altri Mario del paese perché sua madre, Marcella, era una figura forte e controversa, considerata da molti una strega. Lei lo ha cresciuto nel carcere femminile di Civitavecchia cercando di proteggerlo da quel mondo ostile e avverso che si era lasciata dietro, fatto di uomini violenti e leggi della terra. Dal film emerge l’eventualità che lei possa essere stata una vittima addossandosi una colpa non sua per salvare l’unico uomo rimasto in vita dei suoi familiari, il padre, probabile autore dell’omicidio e l’unico in grado di provvedere alle esigenze di un’intera famiglia in un periodo di guerra e crisi dove, a citare le parole di Giovanni, “se non seminavi non mangiavi”. Mario racconta, con la sua flebile voce, un mondo dove la natura è ancora indomabile e selvaggia, dove il destino sentimentale è brutalmente stroncato dal luogo impervio e dalle sue creature così come avviene per Eugenia, unica altra donna della sua vita.
Dal film affiora la nostalgia per un’epoca lontana, segnata da leggi private e rudi violenze, ma anche caratterizzata da una vita più semplice, dove “la gente si voleva più bene”, come sottolinea uno dei personaggi. Era vostra intenzione dare l’idea di un luogo fuori dal tempo, atavico ma in qualche modo desiderabile?
Il racconto in quanto memoria del passato crea sempre un mondo che sembra lentamente scomparire come i personaggi e la loro epoca, segnata da momenti durissimi e da risorse umane semplici e a volte primitive. Questa campagna romana è rimasta ancora antica, così abbiamo cercato di mettere in scena qualcosa che abbiamo visto e che ci ha colpiti, scegliendo di omettere alcuni elementi di modernizzazione, ma non più di quanto vengano già esclusi dai personaggi stessi.
Il commento musicale è estremamente evocativo e ricercato. Chi l’ha composto? Che tipo di atmosfere intendevate ricreare con il sonoro?
La musica è stata scritta e composta da Vittorio Giampietro e suonata al sax da Fabrizio Magliocca. Con Vittorio abbiamo avuto diverse collaborazioni, e per questo nuovo film siamo partiti dall’idea di qualcosa di frammentario che accompagnasse man mano la narrazione per arrivare ad avere tutti gli elementi insieme nel commento finale, quando anche il puzzle della storia si fa più completo. Siamo giunti a scegliere un fiato e a destrutturalizzare la sua natura usando i suoni dei tasti piuttosto che la sua melodia come principale elemento. La musica è ambigua e misteriosa, non vuole indirizzare lo spettatore verso un’emozione piuttosto che un’altra. Dopo aver fatto molte prove, abbiamo registrato il tema due volte, una volta in casa e una in studio, preferendo la prima per via di un riverbero naturale che lo studio non aveva.
Volete raccontarci come lavorate insieme? Condividete ogni decisione riguardante il film o vi attribuite mansioni specifiche?
Condividiamo gran parte delle decisioni, ma c’è un lungo lavoro di preparazione. Vivendo entrambi all’estero, strutturiamo il film sulla base di una prima ricerca e utilizziamo il periodo di distanza a nostro favore, riorganizzando quello che abbiamo scoperto in una sorta di lunga sinossi. Discutiamo insieme la messa in scena, ma quando siamo sul set ci dividiamo i compiti. Scegliamo chi dei due dirigerà una certa scena in base alle nostre capacità o ai nostri interessi, come nel caso delle singole interviste, che ci siamo divisi secondo le relazioni personali instaurate con i singoli personaggi.
Come avete sviluppato il progetto sul piano produttivo?
La Ring Film di Tommaso Bertani ha prodotto Il Solengo seguendo il progetto dalla sua fase embrionale. Abbiamo sviluppato il film con totale libertà e senza mai perdere di vista le difficoltà produttive, anzi, sfruttandole a nostro favore. Il nostro documentario non ha ottenuto il fondo ministeriale e per trovare parte del budget abbiamo fatto ricorso a una campagna di crowd-funding, attraverso la piattaforma online di Indiegogo. La stessa Ring film ha completato il budget e siamo riusciti a raggiungere il nostro obiettivo, finanziando il documentario in maniera completamente indipendente e mantenendo costi molto bassi rispetto agli standard del cinema italiano. Non saremmo pero riusciti a realizzare il film senza l’aiuto di professionisti eccellenti come Simone D’Arcangelo, il direttore della fotografia, o Vittorio Giampietro, che ci hanno accompagnati durante tutto il processo del film.
Chi pronuncia le ultime parole del film?
La storia de Il Solengo si basa tutta su una realtà possibile, o probabile, sulla consapevolezza del non sapere. Le ultime parole dovrebbero appartenere a Mario de’ Marcella e risolvere quindi il mistero che avvolge questo personaggio ma ormai è il racconto a essere protagonista della storia e la verità non è più importante. Mario ha scelto di vivere nel silenzio in un mondo che è ancora più selvaggio e indomabile di lui, un luogo antico e prezioso che sopravvive grazie alle sue storie e ai suoi segreti.