1. Dall’incipit di un pezzo in prima pagina del 24 agosto su Variety: “La convention nazionale repubblicana della scorsa settimana ha ottenuto gli indici di ascolto peggiori mai registrati da una convention nella storia della televisione.” Un’informazione interessante, che non mi pare sia stata adeguatamente riportata da quotidiani, riviste settimanali o telegiornali. Perché uno dovrebbe rivolgersi a Variety per venire a conoscenza di un dato così rilevante della storia recente? Il motivo, forse, è da ricercarsi nel suo statuto di rivista di settore. La stampa mainstream e il giornalismo televisivo potranno anche far parte del business dello spettacolo, ma generalmente non si occupano di intrattenimento nel senso in cui lo fa Variety.
L’articolo prosegue riportando che durante entrambe le convention politiche di quest’estate il noleggio di videocassette ha subito un significativo aumento; un paio di grossi videonoleggi ha addirittura riportato un incremento negli incassi tra il 30 e il 57%. Dovremmo interpretare questa coincidenza come una preferenza a favore dell’intrattenimento a discapito dell’informazione giornalistica, o piuttosto come la preferenza a favore di un certo tipo di intrattenimento a scapito di un altro? La dobbiamo leggere come il segno di un disperato cinismo o piuttosto come il sintomo di una salutare liberazione? E inoltre, se optiamo per la seconda opzione: si tratta di una liberazione soltanto dalla baracconata televisiva che stanno diventando le convention?
Secondo la vulgata contemporanea, è offensivo considerare una campagna presidenziale semplice intrattenimento, mentre si può elogiare un film assegnandogli la medesima definizione. Essendo lo show business implicato in entrambe le sfere, sarebbe un errore operare distinzioni così rigide tra le due. Tanto i film quanto i candidati alla presidenza sono fatti per dirci ciò che vogliamo sentirci dire – un compito che può essere eseguito più o meno bene. Come osserva Richard Dyer nel suo saggio “Entertainment and Utopia”, “Due delle ormai banali definizioni del concetto di intrattenimento, inteso come escapismo o come soddisfazione dei desideri dello spettatore, fanno riferimento al nocciolo dell’intrattenimento, ovvero al suo utopismo”. Questo utopismo, aggiunge Dyer, “fa riferimento, in modo molto esplicito, a come l’utopia dovrebbe farci sentire, piuttosto che al modo in cui essa dovrebbe essere organizzata”.
2. Potrebbe essere legato all’eredità dell’etica protestante del lavoro, se la nostra società non considera il guadagnare denaro come una forma di fuga dalla realtà. Al punto che ogni attività della nostra vita percepita come divertente – mangiare, leggere, pensare, dormire, farsi un bagno, fare sesso, fare sport, andare al cinema, ubriacarsi o prendere droghe – è considerata una fuga, una “diversione” dal fare soldi e tutto ciò che esso comporta. Alcune di queste attività “secondarie” sono trattate con più rispetto di altre, ma sono tutte comunque intese come una sorta di attività di secondo livello rispetto a quella che ciascuno considera l’attività principale del proprio quotidiano: andare a lavoro.
3. Tendiamo a definire l’intrattenimento in base a ciò che esso non è. “La vita di Gesù non è intrattenimento” (o qualcosa di simile) recava scritto uno dei manifesti di fronte al Biograph qualche settimana fa, in segno di protesta contro L’ultima tentazione di Cristo. Un altro striscione recitava: “A Dio non piace questo film”. Significa che Dio non lo trovava divertente?
Roger Ebert, in TV, ha recentemente criticato la scena di Betrayed – Tradita in cui un uomo di colore viene inseguito da un gruppo di razzisti bianchi che inscenano una battuta di caccia. Citando il disagio provato dalla scena come uno dei fattori che non gli ha permesso di apprezzare il film, Ebert ha affermato – cito ancora a memoria – che non si trattava di una scena adatta a un film di intrattenimento hollywoodiano.
Se è vero che spesso definiamo l’intrattenimento in base a ciò che esso non è, questa lista in negativo potrebbe essere tanto lunga quanto quella delle nostre vie di fuga dal dover lavorare e guadagnare. L’intrattenimento non è arte. (L’arte ti mette a disagio, di solito richiede di essere vestiti bene e, quanto è peggio, ce la insegnano a scuola ed è un modo piuttosto rischioso di guadagnarsi da vivere). L’intrattenimento non è religione. L’intrattenimento non è filosofia. L’intrattenimento non è politica. Sicuramente non è lavoro. E, per alcune persone, intrattenimento vuol dire sicuramente non pensare. “Vado al cinema per rilassarmi e divertirmi”, ha detto un’ascoltatrice durante una telefonata alla trasmissione radio Extension 720 lo scorso mese. “Se sono in vena di pensare, ascolto il vostro show” (salvo ammettere sotto insistenze che anche Extension 720 è rilassante).
4. I francesi amano utilizzare il concetto di “piacere” più o meno come noi americani usiamo la parola “intrattenimento”. Il vantaggio di “piacere” è che sembra implicare impegno più che distrazione, e non crea una dicotomia di valori tra arte (seriosa) e intrattenimento (non serio). Quando si definisce l’intrattenimento come una forma di relax, o perlomeno lo si associa a tale tipo di esperienza, si implica che l’assenza di eccitazione o di sensazioni e sentimenti appassionati sia fondamentale all’esperienza quanto l’assenza di riflessione (in questo senso Ronald Reagan è intrattenimento e non arte).
5. Qual è il tipico desiderio del capitalista che lavora sodo quando torna a casa dopo una lunga giornata di lavoro, tagliando la strada ai suoi vicini e agognando un po’ di pace e tranquillità? Quello di staccare, rilassarsi, prendersela comoda. Farsi un bagno, leggere il giornale, guardare la TV. Dimenticare il mondo e il bagno di sangue che si è lasciato alle spalle e pensare a qualcos’altro, tanto per cambiare.
Il problema è che ciascuno di noi, persino i capitalisti più assetati di sangue, non tengono fede a questo presupposto. La gente non fa la coda per vedere film come Chi ha incastrato Roger Rabbit, Un pesce di nome Wanda, Nightmare 4 – Il non risveglio o Trappola di cristallo con lo scopo di addormentarsi guardandoli. Una cosa che accomuna questi quattro campioni d’incassi è che sono frenetici, l’azione è segnata da catastrofi e a popolarli sono quasi esclusivamente personaggi maniacali. Chiamarli utopici non sarebbe del tutto inappropriato, ma la definizione non ci dice granché sull’esperienza di guardarli. Tutti questi personaggi si trovano in una situazione infernale da cui si salvano per il rotto della cuffia. L’unica utopia rimastaci è, dunque, la fuga per un soffio dalla morte o dalla distruzione – forse perché siamo troppo esausti per credere in qualcosa di meglio? Si tratterebbe di un trend commerciale che è con noi, in ogni caso, almeno dai tempi di Terminator (1984) – un film che postula l’apocalisse come prerequisito per un lieto fine.
6. “Movies are your best form of entertainment” [“I film sono la migliore forma di intrattenimento” n.d.t.] diceva un vecchio slogan pubblicitario. Si può stare certi che nessuno direbbe mai che “Films are your best form of entertainment” [“Il Cinema è la migliore forma di intrattenimento” n.d.t.] perché quando si parla di “Cinema” e non di “film” si intende di solito il cinema come arte, un’arte che richiede un certo sforzo allo spettatore – documentari su questioni importanti, opere straniere sottotitolate e così via: un tipo di esperienza più elevata e impegnativa.
Il nuovo lungometraggio di Errol Morris, La sottile linea blu, in programmazione questa settimana al Music Box, è un esempio utile da citare perché riesce a stare a cavallo tra le due categorie meglio di altre produzioni indipendenti. Sebbene si occupi di persone ed eventi reali – quelli riguardanti l’omicidio di un poliziotto di Dallas nel 1976 – e di varie ipotesi a essi legate, la distribuzione si è preoccupata di definirlo “non fiction” piuttosto che “documentario”, probabilmente per non spaventare coloro che volevano vedere un “film” e non del “Cinema”. Secondo il pressbook, l’opera “istituisce un nuovo genere nella tradizione di A sangue freddo di Truman Capote”, un buon esempio di film che combina – o confonde – le categorie di serio e non serio al fine di offrire qualcosa a tutti i tipi di pubblico (come si diceva negli anni ’60, “different strokes for different folks” [ognuno ha i suoi gusti!, n.d.t. ]).
Per quanto mi riguarda, ho trovato La sottile linea blu un buon prodotto di intrattenimento – sia come film che come esempio di “Cinema” – nonostante la tanta carne messa sul fuoco (sia metafisicamente che giornalisticamente, a livello di intrattenimento che di “impegno”) dia l’impressione di un film in lotta con se stesso.
Nel materiale per la stampa distribuito con il film c’è un articolo di Morris riguardante gli aspetti del soggetto che ha scelto di non includere nel lungometraggio, e in un certo senso questo materiale aggiuntivo finisce con l’essere tanto interessante quanto quello che il film effettivamente mostra. Il problema è che la parte di intrattenimento del film – la messa in scena fantasiosa del crimine, le musiche di Philip Glass, la splendida composizione minimalista, i riferimenti al noir, l’accento texano imbarazzante di cui siamo invitati a ridere sentendoci superiori – rema a intermittenza contro il tentativo del film stesso di essere percepito come seria opera di denuncia.
Questo non vuol dire che arte (o intrattenimento) e impegno siano sempre contrapposti (si pensi a Chaplin o a Tati): semplicemente che Morris non è riuscito del tutto a piegare entrambi gli aspetti al suo volere. Speculazioni metafisiche su come gli innocenti possano essere accusati di crimini che non hanno commesso e la specifica vicenda di un personaggio sfortunato condannato alla pena di morte – alla fine mutuata in ergastolo – sono senz’altro temi collegati. Ma il generale dovrebbe emergere dal particolare piuttosto che viceversa, e troppi fili nell’arazzo di Morris fanno emergere altre questioni al pari di motivi che il film non tocca mai, senza riuscire tuttavia ad estrometterli.
Non essendo la trama un fait accompli, come lo era ad esempio quella di Il ladro di Hitchcock (Randall Adams, apparentemente una vittima innocente, è ancora in prigione per il delitto), l’accorato discorso del film sul destino ignora troppe questioni pratiche, buttate lì semplicemente per passare oltre. Si capisce il problema tecnico: la necessità di rendere trasparente e interessante un guazzabuglio di fatti finisce col tradirne l’oscura ambiguità. Risolvere la questione con la poetica è comprensibile, ma pericoloso. Nell’opera di Werner Herzog, mentore e principale influenza di Morris, ciò ha condotto ai peggiori eccessi di romanticismo tedesco mascherati da documentario e/o “realismo poetico” – si pensi al più recente film di Herzog Cobra verde (per alcuni critici un’apologia della tratta degli schiavi).
7. Per citare un film più importante de La sottile linea blu che non cade nelle stesse contraddizioni, ho trovato anche Shoah in un certo senso un ottimo esempio di “intrattenimento”. Può sembrare sacrilego definire un film di non fiction di 503 minuti sull’olocausto un’opera di “intrattenimento”; certamente non sto dicendo che il film non sia pieno di dolore e tragedia, ma immaginiamo una situazione ipotetica: un ebreo che ha perso tutta la sua famiglia nei campi di concentramento nazisti che guardi Shoah. Credo nessuno si sentirebbe di definirla una forma di “escapismo”. Ma è certamente possibile che costui, guardando il film, si trovi così coinvolto da dimenticare tutto ciò che solitamente lo preoccupa: la sua febbre da fieno, i suoi problemi in ufficio, la sua irritazione verso George Bush, sua moglie malata. Shoah, sicuramente, invita lo spettatore a riflettere; in quanto opera complessa che mette in scena un incontro dialettico tra esistenzialismo ed ebraismo, passato e presente, spinge a interrogarsi sull’olocausto in un modo inedito per molti di noi.
Ma è soltanto l’utilizzo come strumento censorio e puritano che facciamo del termine “intrattenimento” a isolare arbitrariamente l’esperienza di Shoah da quella di essere “intrattenuti” (divertiti, interessati, coinvolti) da un film al cinema. Dopotutto, Shoah non è che una versione più seria, estesa e concentrata di quello che siamo portati a pensare in film di puro “intrattenimento” come Vincitori e vinti. Perché il semplice fatto che Shoah riesca nel compito molto meglio del film di Kramer, e senza l’aiuto di Judy Garland, dovrebbe privarlo del positivo status di “film di intrattenimento”?
8. I migliori anni della nostra vita (1946) di William Wyler, è un buon esempio di come i film del secondo dopoguerra si siano assunti il non facile compito di offrire testimonianza della realtà sociale e intrattenere l’audience allo stesso tempo. Le strategie adottate non sono sempre le più adatte, e buona parte del film propone una mistificazione di ciò che accadeva ai veterani mutilati, ad esempio; ma perlomeno il pubblico degli anni ’40 era in grado di accettare l’opera come film e come “Cinema” allo stesso tempo. Nel caso più recente del film di George Romero Monkey Shines – Esperimento nel terrore, buona parte del pubblico è stata spaventata da un film di puro intrattenimento per il fatto che l’eroe è un tetraplegico. E i tetraplegici sono per (puritana) definizione incompatibili con l’intrattenimento – diversamente da quelli con due gambe rotte, come dimostra James Stewart in La finestra sul cortile. Sembra assurdo e sicuramente controproducente, ma la stessa parola “tetraplegico” fa sembrare Monkey Shines – Esperimento nel terrore un film impegnato a chi non l’ha mai visto. Nemmeno i tetraplegici sembrano averlo apprezzato, a giudicare dalla protesta contro il trailer del film a Los Angeles – il che sembra dare per scontato che tutti, a priori, concordino sul fatto che tetraplegici e intrattenimento non possano avere niente a che fare. Di conseguenza, uno dei film di intrattenimento più efficaci dell’anno è stato evitato come la peste.
9. Viceversa, un’opera di “Cinema” come Il cielo sopra Berlino è un’opera stracolma di piacere cinefilo vecchio stampo, dai voli eterei sulla città fino alla voce profonda e il fascino rozzo di Peter Falk, eppure il pubblico sembra non farci caso. Il film non richiede nemmeno di pensare molto – meno, ad esempio di L’ultimo imperatore, un altro ottimo mix tra film d’autore (“Cinema”) e opera che non spaventa il grande pubblico. Ma l’espediente migliore per un regista che voglia fare qualcosa di cinematograficamente “avventuroso” è di nascondersi dietro un pacchetto a prova di idiota, come ha fatto Renny Harlin in Nightmare 4. Fintanto che non c’è nessun sentore di “serietà”, di impegno richiesto, insomma di “Cinema”, un regista è libero di fare tutto quello che vuole – in questo caso, imbastire un film che è poco più che un flusso onirico quasi del tutto privo di narrazione.
10. Il concetto di “intrattenimento” sembra implicare che soltanto una parte del cervello venga utilizzata durante la visione. Segretamente, credo però che ognuno di noi preferirebbe essere “catturato” piuttosto che “divertito”, e scosso piuttosto che rassicurato, ma a quanto pare, come vuole tradizione, c’è qualcosa di più “sicuro” nel banale “divertimento” – anche quando questo diktat diventa una forma di oppressione. Pensate all’idea di affogare in un mare di Perry Como, ed eccoci in pieni anni ’50 con il loro gusto per i tranquillanti. O pensate a Ronald Reagan, che non è mai morto in un film e ci ha fatto addormentare in quanto spettatori, morti stecchiti, al cinema. Ma non appena riduciamo le nostre possibilità a una contrapposizione – arte o intrattenimento, intrattenimento o cultura – limitiamo le nostre capacità di esperire sia l’una che l’altro.
(testo apparso originariamente sul Chicago Reader il 23 Settembre 1988, traduzione di Elisa Cuter; pubblicato per gentile concessione dell’autore)