Ephraim è un bambino etiope di nove anni, vive col padre e con l’agnello Chuni in un piccolo villaggio di campagna. La madre è morta a causa della siccità e della seguente carestia che ha colpito quelle terre. Il padre, dovendo quindi recarsi nella lontana Addis Abeba per cercare lavoro, lascia Ephraim e l’agnello presso la famiglia di un cugino.
Fin dai primissimi fotogrammi si possono riconoscere le due nervature su cui si regge l’opera prima di Yared Zeleke, regista etiope formatosi professionalmente a New York. Dopo i titoli di testa sullo schermo nero, caratterizzati fondamentalmente dal lunghissimo elenco di finanziatori europei, compare il particolare di una mano di ragazzino accarezzare la folta pelliccia di un animale. Dopo lo stacco, un campo lunghissimo in cui si scopre il ragazzino che cammina con il suo agnello, tenuto al guinzaglio come un cagnolino, immerso nella sterminata campagna etiope. I rumori della natura, presenti sui titoli di testa, vengono lentamente sostituiti da una musica di sottofondo che, in brevissimo tempo, letteralmente occupa quell’immensa distesa di terra. Una musica di pianoforte ingombrante, leziosa, che sminuisce la natura immacolata di quel territorio che affianca e il silenzio che le appartiene. Una sonorità rumorosa che subito ci porta in una dimensione filmica molto vicina a quello che Jean Rouch avrebbe definito come cinema esotico. Lo spazio infinito dell’Etiopia non viene accompagnato dalle sonorità che lo costituiscono, ma viene farcito da risonanze prettamente occidentali e che nulla hanno da condividere con la realtà che dovrebbero contribuire a rappresentare.
Da qui il doppio binario a cui accennavo prima, che percorrerà l’intero film: da una parte una materia (luoghi, personaggi e attori africani con le loro storie, da cui inevitabilmente non si può prescindere) e dall’altra il linguaggio del mezzo e la sua pregnanza espressiva. Linguaggio trascurato nella sua pervasiva compiutezza occidentale, atta a renderci godibile e digeribile, senza particolari sforzi, una qualsiasi storiella esotica, nonostante essa rappresenti un altrove ricco di proficue contraddizioni, spesso naturalmente incomprensibili alla nostra realtà e ai nostri linguaggi. Da una parte quindi, ancora una volta, i colonizzati e dall’altra i colonizzatori.
Questa doppia direttrice rappresenta ottimamente il ribaltamento ideologico del cinema esotico di cui sopra. Se, come avvenuto in tutti i Paesi oggetti di colonialismo, il dominante declinava ideologicamente la rappresentazione del Paese dominato ovviamente a proprio favore, questo ribaltamento ideologico, che potremmo definire politically correct, passa invece attraverso la meno sanguinosa (almeno direttamente), ma certamente più subdola dominazione culturale. Per cui le esigenze della civiltà dell’Occidente vengono trasposte (o esportate, come si dice per la democrazia) in un’altra cultura, senza tenere in considerazione la struttura che sottende tale cultura. Spesso quindi questi film vengono felicemente ascritti al filone dei diritti civili o dell’emancipazione (si ricordi per certi versi La bicicletta verde), tralasciando invece ciò che socialmente sono in realtà: una sorta di nuovo colonialismo intellettuale e linguistico, un colonialismo non più militare, bensì culturale e quindi economico. Si veda, a tal proposito, la figura della cugina Tsiono, donna forte e illuminata, combattiva e insofferente alla chiusa vita di montagna, invece attratta dalla politica e dalla città: molto vicina alle esigenze di emancipazione femminile tipiche della nostra società. Oppure si veda la figura dello stesso Ephraim poco avvezzo ai duri lavori della campagna, ben più portato invece per il lavoro in cucina, luogo esclusivo della donna. O sempre lo stesso Ephraim che si affeziona ad un animale (donatogli dalla madre), la cui carne in tempo di carestia (peraltro causa della morte della madre) potrebbe essere decisiva per la sopravvivenza della famiglia in quelle zone difficili. O ancora Ephraim e la sua soggettiva rallentata in uno slow-motion, caricato d’enfasi dalla solita sonorità stucchevole, quando insieme al padre è costretto a lasciare il villaggio. Insomma un’altra faccia, ma della stessa medaglia del dominio. Non si può confondere l’oggetto guardato con la natura dello sguardo, che è la natura del cinema: in questo caso il guardato è certamente l’Etiopia e la sua sostanza, ma la natura dello sguardo, con cui si osserva tale sostanza, ha radici altrove.
Il monopolio ideologico rende onore al pubblico occidentale presentandogli questioni che non può non apprezzare, perché prive di qualsiasi contesa linguistica. Il film di Zaleke non è quindi un prodotto inguardabile, anzi appare lineare e preciso nelle struttura narrativa. Se fosse una canzonetta lo si potrebbe definire orecchiabile, pertanto, come le canzonette orecchiabili, decisamente adatto a far buona impressione nei festival. Non stupisce quindi che Lamb sia stato selezionato al Festival di Cannes, inserito nella sezione Un Certain Regard (storica prima volta di un regista etiope alla kermesse francese). E sia stato poi selezionato, nella sezione Contemporary World Cinema, dal Festival di Toronto e contemporaneamente premiato all’ultima edizione del Milano Film Festival come miglior lungometraggio: nella motivazione della giuria, a riprova di quanto fin qui sostenuto, si parla appunto di narrativa familiare.
LAMB di Yared Zaleke, Etiopia/Francia/Germania 2015, 94′. Senza distribuzione.