Visione spiazzante, che pone lo spettatore davanti allo scriversi della storia, Une jeunesse allemande è un film che ricostruisce, con l’ausilio di filmati giornalistici e servendosi delle creazioni registiche dei suoi protagonisti, la parabola politico-terroristica della Rote Armee Fraktion. Viaggio nel cuore nero dell’Europa, nelle sue contraddizioni e nelle sue barbarie, il primo lungometraggio di Jean-Gabriel Périot mette in discussione prassi e meccanismi della lettura tradizionale degli accadimenti; riportando, letteralmente, in vita Ulrike Meinhof, Andreas Baader, scuotendo le sicurezze e le certezze del nostro leggere contemporaneo. Il percorso registico di Périot si è mosso attraverso tutte le forme d’uso del filmato d’archivio: dalla video-installazione al cortometraggio e all’animazione, per giungere poi al confronto con la narrazione nella sua pluralità: storica, cinematografica, documentaristica. Une jeunesse allemande smuove, con una libertà rara, tanto le coscienze quanto le certezze dell’attuale discorso politico.
Il corpus di materiale filmato che costituisce la nervatura di Une jeunesse allemande è praticamente sconfinato: si passa dai lavori da cineasta di Meins ai programmi televisivi dei quali era ospite Ulrike Meinhof. Quanto tempo è durato il lavoro di ricerca dei filmati di archivio e quanto la successiva fase di montaggio?
Dal momento in cui si intraprende un progetto di questo tipo, si è coscienti di come ci vogliano molti anni per raggiungere un prodotto compiuto; molti di più se, come regista, non si parla la lingua degli archivi nei quali si cerca…Per Une jeunesse allemande sono stati necessari circa otto anni per procedere dai primi passi del progetto al completamento della pellicola. È molto difficile misurare il tempo che è stato consacrato alla ricerca da un lato, e al montaggio dall’altro, perché le due cose si sono svolte in contemporanea. Con il recupero dei primi archivi ha preso il via il montaggio, certamente in maniera grossolana, ma tutto ciò mi ha permesso di «provare» il materiale a mia disposizione e di cercare di fissare delle linee narrative o delle ipotesi di struttura. Inoltre, il montaggio permette anche di capire se un archivio può o meno essere utilizzato – anche perché dovevo sempre usare esclusivamente estratti di archivi e, a volte, alcuni di questi archivi oppongono resistenza, tanto che non ci si può tirare fuori nulla. Grazie al montaggio ci si rende conto delle lacune della narrazione, delle piste che vengono aperte da certi archivi e tutto ciò permette di affinare o di rendere più specifiche le ricerche. Così, dall’inizio e fino al termine ultimo del lavoro sul film, la ricerca e il montaggio sono stati intrecciati.
In che modo, a livello di montaggio, ti sei relazionato con il materiale che hai trovato; e come è cambiato il tuo approccio rispetto alla dimensione del cortometraggio?
La questione di come uno si appropria di un materiale pre-esistente è una domanda difficile perché prevede più risposte. Per Une jeunesse allemande, sin dall’inizio ho preso decisioni che hanno influenzato il mio rapporto con il materiale d’archivio. La narrazione, che doveva sposare il progetto, era chiara: il film doveva essere cronologico, utilizzando solo, o principalmente, immagini girate all’epoca dei fatti, privilegiando, in prima istanza, gli archivi dei futuri fondatori della RAF e in un secondo momento i politici; infine, il film doveva essere costruito senza alcuna voce esplicativa. Inoltre una storia del genere contiene date o elementi chiave che è impossibile omettere e che quindi funzionano come colonne portanti del film. Avere una struttura narrativa già predisposta in un certo modo determina tanto la ricerca quanto il mio interesse per ciascuno degli archivi. Ma bisogna anche considerare che, al di là di una certa ratio narrativa, è necessario lasciare spazio all’emozione che si può provare di fronte al materiale d’archivio. Durante la mia ricerca ho trovato immagini che, per ragioni che potevano essere molto diverse tra loro, mi hanno toccato e commosso. Ed è importante che la scelta finale dei filmati e degli estratti tenga conto di tale emozione. Un film si costruisce anche in maniera poetica o sensitiva. La differenza principale con i miei cortometraggi è, probabilmente, questa linea narrativa molto forte, presente dall’inizio del progetto. I miei cortometraggi, anche se molto rispettosi della veridicità storica degli avvenimenti che trattano, mi lasciavano una grande libertà di montaggio. Dovevo seguire linee più metaforiche, alternare, per esempio, un movimento di calma a uno scoppio di violenza, ma non avevo bisogno che gli estratti si corrispondessero cronologicamente. Con Une jeunesse allemande, invece, è stato imperativo rispettare le date degli archivi, cosa che ha reso il montaggio necessariamente più complesso. Un altra grande differenza con i corti, e che fa sì che Une jeunesse allemande non potesse essere altro che un lungometraggio, è lo spazio essenziale lasciato ai linguaggi – tanto alle lingue parlate come ai linguaggi visivi.
Mi sembra che la tua filmografia sia attraversata dalla riflessione sulla nascita della violenza. Une jeunesse allemande, in particolare, interroga lo spettatore su come sia possibile passare da un lato all’altro della barricata, da vittima a carnefice. Credi che tale riflessione possa trascendere i confini storici del terrorismo in Germania e parlare dell’attualità in toto?
Direi di sì, senza esitazione. C’è qualcosa di atemporale nei fenomeni di violenza, semplicemente perché la violenza è costitutiva delle società umane, sia che queste violenze provengano dall’interno delle società, sia che queste ultime se ne debbano difendere. Il giudizio morale che possiamo dare sulla violenza non bandisce la sua esistenza. Solo delle risposte politiche, volte alla creazione di una società più giusta e egualitaria, potrebbero forse attenuare questa violenza congenita. Di conseguenza, vedo in ogni atto di violenza, che sia positivo – ci sono atti di violenza che impediscono che altri atti ancora più violenti vengano commessi – o negativo, come una metafora di tutti gli atti violenti, indipendentemente dal loro contesto di origine. Ad esempio, mi sembra che la questione sul limite di tolleranza a ciò che ci distrugge – con cui si confrontano [nei documenti del film] gli studenti della Germania occidentale della fine degli anni Sessanta – rimane valida tutt’oggi. Lo stesso discorso è legittimo per la violenza di stato, sia che essa si abbatta su qualsiasi forma di contestazione dell’ordine stabilito, sia che usi un qualche spauracchio per tenere insieme la società. Su questo soggetto in particolare, è sconcertante – anche se affatto sorprendente, nonostante l’epoca sia cambiata radicalmente – che i discorsi degli uomini politici francesi di oggi (ma si potrebbe dire degli uomini politici tout court) siano dei copiés-collés di quelli degli anni ’60-‘70 in Germania occidentale. La maniera in cui si servono del terrorismo per modellare/controllare intere società è esattamente la stessa. Lo spettatore, davanti a un film cosi, si ritrova nella mia posizione di regista davanti a questa storia: ciascuno può vedere i legami tra l’epoca del film e quella odierna. Intravediamo alcuni eco, alcune corrispondenze, ma percepiamo anche quello che è definitivamente cambiato, e ciò ci fa conoscere meglio il nostro tempo.
Immagino che guardare e riguardare i filmati ti abbia portato a maturare un’idea su quale sia stata la scintilla che ha fatto passare Ulrike Meinhof dalla militanza politica a quella militare, anche se il film concede ampia libertà di giudizio allo spettatore…
Va detto che non esiste nessun archivio che documenti il passaggio all’azione. C’è un “prima”, vediamo ad esempio Ulrike Meinhof andare in TV un mese solo prima della fondazione del gruppo, e un anno dopo, la registrazione della voce di Meinhof, quando enuncia le ragioni politiche della fondazione del gruppo ad esempio. Ma non ci sarà niente sul “mentre”. In più, direi, anche se è molto contraddittorio, che ci sono molte più ragioni che spiegano questa decisione (è impossibile fornirle tutte) ma, al contempo, non è stata veramente una presa di posizione. O meglio… Diciamo che se oggi il passaggio alla lotta armata ci appare come qualcosa di radicale, non lo era a quei tempi. In quegli anni, il dibattito sulla violenza non si poneva come oggi in termini morali («la violenza è sbagliata») ma in termini politici («è utile oppure no, qui e adesso utilizzare la violenza perché avvenga una rivoluzione?»), quindi, per loro, la risposta a questa domanda è molto circostanziale: bisogna liberare o no Baader dal carcere? Non c’è ambiguità, mistero. Un giorno, la RAF è stata fondata e alcuni vi parteciparono, ed è questo ciò che racconta sobriamente il film. È unicamente perché siamo spettatori dell’oggi che vogliamo assolutamente capire quello che ci sembra un enigma, ma che non lo è stato per quelli che l’hanno sperimentato all’epoca.
Come è stato recepito il film in Germania? Credi che i 35 anni passati tra la fondazione della RAF e la premiere di Une jeunesse allemande siano stati un tempo utile a risvegliare la riflessione su tale momento storico?
I ritorni in Germania sono stati piuttosto positivi; inoltre, i tedeschi hanno ricordi più vivi rispetto a qualsiasi altro pubblico del film. Detto questo, erano sorpresi che io abbia potuto trovare tante immagini a loro ignote e che l’abbia fatto dalla Francia. Se devo evidenziare una costante nella risposta dello spettatore che ho potuto riscontrare, è che nessuno mi ha fatto osservazioni sui problemi storici o politici che avrebbe potuto sollevare il film. Spettatori di frazioni politiche molto diverse avrebbero potuto dirmi che il film forniva un ritratto unitario di questa storia. Tale reazione positiva non era scontata in partenza, perché parliamo di una storia ancora molto viva in Germania, che produce sempre dibattito. Quindi, non ritrovarmi dopo il film con una guerra di parti è stato un piccolo motivo di orgoglio personale.
Hai concluso una tua lezione all’università di Jakarta con le seguenti parole: la poesia è una forma di espressione che i media non possono integrare né, di conseguenza, distruggere. Credi che qualcosa di quello che Meins ha fatto come regista sopravviva al tempo e al giudizio della storia sui atti politici? Che, cioè, un frammento di arte possa superare nel tempo ciò che è stato del suo autore?
Direi di sì. Con il passare del tempo ci ritroviamo come spettatori davanti a opere quasi orfane, perché abbiamo perduto tutte le tracce biografiche dei loro autori o perché sono lacunose. Erano persone per bene o dei bruti, picchiavano le loro compagne, oppure erano veri rivoluzionari? Non lo possiamo sapere, se non attraverso i loro contemporanei, e anche così solo parzialmente, perché più gli anni passano più la memoria si frantuma e rimangono solo le opere. Non so cosa resterà concretamente di Holger Meins tra 10, 100 o 200 anni. Penso che tutto sarà dimenticato, semplicemente perché la sua opera, in quanto tale, rimane assai minore – lo dico senza condiscendenza e con amicizia nei suoi confronti. La forza di Meins stava nella forma in cui ha pensato il suo lavoro di regista, in una molteplicità di azioni possibili, più che nei film stessi, che non sono che tracce, testimonianze modeste delle sue riflessioni in corso. Ma nessuno dei suoi film mi sembra essenziale in quanto tale. Lo spirito di un’epoca è qualcosa che scompare con il tempo… Ma forse mi sbaglio e gli spettatori, tra molti anni, scopriranno questi film con rinnovato piacere e entusiasmo.