Al desiderio di dare un senso alla propria vita, c’è chi risponde consacrandosi anima e corpo a una causa, c’è chi sceglie l’arte, chi la politica, chi la famiglia, chi la fede. Maria, la protagonista di Kreuzweg, non ha ambizioni di poco conto: durante il percorso che la prepara spiritualmente a ricevere la cresima, l’adolescente decide di perseguire la salvezza della propria anima votando ogni suo impegno all’olocausto di sé.
Appartenente a una rigida famiglia cattolica di osservanza preconciliare (facente parte di una di quelle comunità, come i lefebvriani, guidate da sacerdoti ossessionati dall’inferno che celebrano messa in latino dando le spalle ai fedeli e porgono l’ostia direttamente nella bocca dei comunicandi) la ragazza ha un fratellino malato che all’età di quattro anni ancora non parla. Quando a catechismo il fervido padre Weber insegna ai cresimandi che il sacramento che stanno per ricevere rappresenta una conferma dell’impegno a praticare e a difendere la fede come veri e propri “soldati di Gesù Cristo” pronti al sacrificio, anche della vita, Maria decide di rinunciare alla propria in cambio della guarigione del fratello e per questo intraprende un cammino irto di pene e mortificazioni.
Il film di Dietrich Brüggemann, vincitore dell’Orso d’argento a Berlino 2014 per la migliore sceneggiatura (firmata dalla sorella Anna), racconta il percorso religioso ed esistenziale della giovane Maria come una salita al calvario suddivisa in quattordici quadri, tanti quante le stazioni della via crucis che effettivamente danno il titolo alle didascalie poste in apertura di ogni capitolo. Ogni stazione è un piano sequenza, un long take a camera fissa la cui costruzione visiva ricorda per la spoglia freddezza dei colori, degli ambienti o delle atmosfere alcuni film di Ulrich Seidl (soprattutto i capitoli Faith e Hope della trilogia del Paradise). I movimenti di macchina si contano sulle dita di una mano e ciascuno di essi sottolinea un momento apicale nella tensione narrativa che porta Maria a sacrificarsi come Cristo.
Analogamente all’austriaco Seidl, anche il tedesco Brüggemann veleggia in territori in cui il tragico confina con il grottesco e l’orrore si tinge di assurdo: si pensi alla scena in cui la protagonista si rifiuta di partecipare all’ora di ginnastica ritmata dalle note pop dei Roxette, perché, dice, “è musica satanica”. Oppure quando, prostrata in un letto di ospedale dopo giorni di digiuno, l’esangue Maria riceve l’eucaristia ma, essendo ormai incapace di inghiottire cibi solidi, soffoca mentre l’infermiera le estrae di bocca l’ostia e la restituisce al prete. L’irrompere dell’ironia non è però sufficiente a rendere particolarmente originale il ritratto di questa comunità di cattolici ultraortodossi in cui la povera protagonista matura il suo progetto sacrificale.
Resta comunque apprezzabile il fatto che, al di là della denuncia di un certo estremismo religioso, Kreuzweg è capace, in modo più ampio e trasversale, di raccontare la devastante forma di abuso psicologico che può avere luogo in alcune famiglie. In effetti, prima ancora di essere la storia di un’oblazione spirituale, quella di Maria è la parabola di un’adolescente sola e abbandonata alle violenze morali di una madre fanatica e squilibrata, ai silenzi e alle inerzie di un padre succube e assente. Non sapendo (paradossalmente) a che santi votarsi, la ragazza decide dunque di percorrere la via dell’eroismo e del sacrificio urlando alla famiglia e al mondo la propria domanda d’amore e di riconoscimento. Maria è infatti un personaggio travagliato da conflitti profondissimi e oppresso da una vita che, ridotta ai rigori di casa e chiesa, non le offre alcuna via di scampo.
In questo quadro, la figura di Bernadette, ragazza alla pari che vive con la famiglia di Maria e unica a offrire alla ragazza un po’ di tenerezza, è un tiepido balsamo, una preghiera che consola ma non salva quando la sofferenza si fa più inesorabile.
Kreuzweg di Dietrich Brüggemann, Germania 2014, 107′. In sala dal 29 ottobre 2015 (Satine Film).