Nell’introduzione a Goodbye Cinema, Hello Cinephilia, un libro che è stato di grande importanza per l’ideazione di questa rivista, afferma: “C’è uno strano paradosso, per cui metà dei miei amici e colleghi pensano che ci stiamo approssimando alla fine del cinema come forma artistica e della critica cinematografica come pratica seria, mentre l’altra metà ritiene che stiamo attraversando una fase di eccitante rivitalizzazione in entrambi i settori”. Che cosa ha prodotto tale manicheismo, con pessimisti da una parte ed entusiasti dall’altra? E dove si situa lei in questo panorama?
Credo si tratti di una divergenza generazionale. Quanto ai pessimisti, il problema sta nel fatto che si sentono tagliati fuori, perché le loro concezioni e pratiche derivano dalla convinzione che la cultura cinematografica si elabori a partire da un gruppo di persone che guarda un determinato film in un luogo specifico più o meno in contemporanea, e che la risposta a tale esperienza debba avere luogo sulla carta – una convinzione evidentemente radicata nel passato, più che nel presente o nel futuro. Una parte di me condivide questa convinzione (e le abitudini a essa legate), e quella parte si lamenta del fatto che i miei libri o le altre pubblicazioni con le quali collaboro non vendano abbastanza. Ma un’altra parte di me, più gioiosa e, direi, dominante, gode dell’emergere di una nuova comunità, meno legata a una base geografica o nazionale, e più alle opzioni offerte dalla rete. Questa nuova comunità non ha ancora trovato un sostegno economico, il ché rappresenta allo stesso tempo un vantaggio e uno svantaggio: poche persone, tra quelle che scrivono di cinema in rete, sono in grado di mantenersi economicamente con quello che fanno, ed è un peccato, ma chi scrive di cinema in questi contesti è anche meno sottoposto alle pressioni dell’industria cui erano soggetti i critici “di professione” nella cosiddetta “epoca d’oro della critica cinematografica”. Una situazione simile a quella in cui mi sono trovato quando ho cominciato a muovere i primi passi in quest’ambiente, tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, prima che fenomeni come il culto dell’autore e la critica di stampo accademico si aprissero al discorso mainstream. All’epoca, la maggior parte di coloro che scrivevano di cinema lo faceva per passione, e in linea di massima la stessa situazione riguarda quelli che scrivono di cinema oggi in rete.
Nei numeri precedenti della nostra rivista abbiamo tradotto testi di Pauline Kael e Andrew Sarris, e contiamo di fare lo stesso per Manny Farber. Lei li ha conosciuti: quale eredità pensa abbiano lasciato come critici e come pensa si sarebbero adattati a questo scenario totalmente rinnovato?
Per quanto ne so, nessuno dei tre ha avuto grande dimistichezza con Internet e lo scrivere in rete. Ma va fatta una distinzione importante riguardo il loro lascito: Farber e Kael erano critici “letterati” – e questo spiega come mai i loro scritti siano stati raccolti dalla Library of America – mentre Sarris, anche al suo meglio, era un giornalista. Nelle mie ambizioni letterarie mi considero più vicino a Farber che a Kael o Sarris. Credo che l’eredità di Kael vada rintracciata nella qualità della sua prosa e nell’entusiasmo che la muoveva, piuttosto che nel suo gusto o nel suo pensiero. Trovo che il gusto e il pensiero di Sarris abbiano ben altro peso, ma non la qualità della sua prosa. Il gusto, il pensiero e la qualità della scrittura di Farber sono tutti aspetti molto importanti della sua scrittura critica, per quanto mi riguarda.
Tutti e tre esibivano nei loro scritti una cultura molto ampia e affatto limitata all’ambito cinematografico. Oserei dire che ciò che rende culturalmente rilevanti i loro testi è proprio la capacità di mettere in relazione arti differenti (penso in particolare a Farber) e connettere estetico e sociale. Quando scrive che “Susan Sontag non valeva granché come critica cinematografica” aggiunge anche che “era l’unica [degli intellettuali newyorkesi comunemente associati alla Partisan Review] che comprendeva e apprezzava il cinema in una maniera pienamente cosmopolita, partecipe di un’arte, di una cultura e di un’epoca”. Non crede che tali qualità manchino a gran parte della critica cinematografica contemporanea, spesso ombelicalmente concentrata sul cinema come mondo a sé, disconnesso dalla realtà?
Credo si tratti di una qualità mancante non solo in gran parte della critica cinematografica contemporanea ma nella maggior parte di qualunque scrittura contemporanea, perlomeno in lingua inglese. E tale lacuna purtroppo limita la capacità di molti critici quando si occupano di opere che chiamano in causa argomenti di una certa portata. Ho notato di recente che i critici più eminenti e capaci tra quelli con base a New York – Manohla Dargis, David Edelstein, J. Hoberman, A.O. Scott – sembrano avere qualche problema con la rilevanza del discorso proposto da Il figlio di Saul, anche dopo aver preso atto di tale rilevanza e della qualità tecnica del film. Il loro disagio si manifesta in forme differenti a seconda del caso, ma tutti sembrano sottendere che un film non dovrebbe esigere dallo spettatore quello che esige Il figlio di Saul. Dargis lo trova intellettualmente repellente; Edelstein interpreta la scena finale in maniera discutibile e accusa il film di tirarsi indietro a fronte di essa; Hoberman ne raccomanda la visione con molta cautela, e Scott sembra mettere in dubbio la possibilità che il film sia di intrattenimento (termine che immagino sia da intendere come “non noioso”). Il fatto che il regista ci obblighi a confrontarci con tematiche a cui normalmente non penseremmo (quantomeno non in sede di “intrattenimento”) sembra essere l’ostacolo contro il quale tutti loro combattono, lasciando intendere – inconsapevolmente, credo – che Il figlio di Saul sia un film più serio di quello che dovrebbe essere.
In “Appunti per la svalutazione di Woody Allen” si è chiesto “come mai gli intellettuali americani sono così critici nei confronti di Jerry Lewis e idolatrano Woody Allen? Al di là di ovvie differenze, come il fatto che Allen cita Kierkegaard e Lewis no…”. L’ha scritto nel 1990, dopo l’uscita di un’opera ampiamente apprezzata come Crimini e misfatti, sostenendo che “dopo diciannove film, Allen resta un regista stranamente non realizzato, incapace di dare vita a forme proprie o a uno stile personale, indipendenti dai modelli a cui guarda”. I film che ha realizzato in seguito le hanno fatto cambiare idea?
No.
Ha liquidato anche i Coen, nei primi anni ’90. Come valuta quello che hanno fatto in seguito?
Ne riconosco l’abilità ma non sono un loro estimatore. Fargo e Il grande Lebowski sono i loro film che apprezzo maggiormente, nonostante le pecche in entrambi. Ma ammetto di non aver visto tutti i loro film, mentre ho visto tutti quelli di Allen…
Le è mai capitato di cambiare idea su un film o su un regista?
Certo. Alcuni tra quelli che oggi considero i miei film preferiti alla prima visione non mi avevano colpito. Ordet di Dreyer, ad esempio, che avevo detestato, o Stalker. Non ho mai condiviso quell’atteggiamento á la Pauline Kael, secondo il quale la reazione immediata a un film e il suo giudizio devono rimanere immutati per l’eternità. In qualche modo ciò viola l’essenza stessa della personalità umana. Come esseri umani cambiamo, e tutto cambia intorno a noi, e ciò che rende certi film del passato più interessanti nel presente è la loro relazione con le mutazioni proprie del cinema della contemporaneità.
Ha visto The Hateful Eight? Cosa ne pensa del film e della scelta di Tarantino di girarlo in 70mm?
L’ho visto e l’ho trovato rivoltante. Il fatto che faccia un pessimo uso del 70mm è totalmente secondario e di scarsa rilevanza, a fronte della sua visione dell’umanità in generale e del pubblico in particolare.
Venendo da una famiglia che ha gestito a lungo sale cinematografiche, qual è oggi la sua relazione con il grande schermo? È dogmatico riguardo il vedere i film in una determinata maniera?
Con il passare del tempo tendo a essere sempre meno dogmatico. Anche se a casa sento la mancanza del grande schermo, non disprezzo l’accesso e il controllo al tempo della visione permessi dai dvd e dai blu-ray, in una maniera che porta i film più vicino alla fruizione della pagina stampata. Le mie visioni, in questo senso, tendono a essere piuttosto discontinue, e ciò è dovuto al mio metodo di lavoro, perché mi capita di scrivere diversi pezzi contemporaneamente, e la possibilità di prendere un film dallo scafale, come si fa con i libri, e guardare anche solo una scena, per me è fondamentale. Questo perché mi piace pensarmi come un lettore, ancora più che uno spettatore.
Seguo con attenzione la rubrica che tiene su Cinema Scope, “Global Discoveries on DVD”. C’è qualche film – o gruppo di film – che ancora non è emerso dal regno dei tesori perduti?
Non so se i quattro film diretti da Susan Sontag possano considerarsi “tesori” ma si può facilmente rimpiangere il fatto che siano effettivamente perduti (fatta eccezione per il documentario della Sontag su Israele), almeno fino a quando una compagnia come Criterion Eclipse non deciderà di tirarli fuori. E al di là dall’assenza di importanti e misconosciute opere sperimentali, da Blue Moon di Ko I-Cheng a Circle’s Short Circuit di Caspar Stracke, mi lascia senza parole che ancora non esistano edizioni decenti (almeno in lingua inglese) di Greed di Stroheim e L’amour fou di Rivette.
Ho l’impressione che registi come Rivette o Ruiz, con la libertà del loro approccio alla forma cinematografica e al racconto siano veri predecessori degli autori sostenuti dalla “nuova cinefilia”, come Albert Serra o Miguel Gomes. Ha scritto splendide pagine sia su Ruiz che su Rivette e mi chiedevo se è d’accordo con la mia affermazione e quali film di questi autori consiglierebbe a giovani registi che potrebbero non conoscerli…
Non credo di essere la persona adatta a cui porre questa domanda: non sono particolarmente entusiasta né di Gomes né di Serra – ma ho visto solo tre film del primo e due del secondo. I miei film preferiti di Rivette sono Out 1, Celine et Julie vont en bateau, L’amour fou, Out 1: Spectre, Paris nous appartient, Noroit, Duelle, Le Pont du nord, Haut bas fragile e La belle noiseuse, più o meno in quest’ordine. Più difficile compilare una lista definitiva dei miei film preferiti di Ruiz, perché ce n’è parecchi che ancora non ho visto… Direi, in ordine sparso: Memoire des apparences, Mammame, La chouette aveugle, A TV Dante (Cantos 9-14), Colloque des chiens, De grand evenments and de gens ordinaires, On Top of the Whale, Le jeu de l’oie, Les trois couronnes du matelot, La ville des pirates, Manuel on the Isle of Wonders (una miniserie portoghese in tre parti che è tra le sue cose che preferisco) e Mysteries of Lisbon (un altro dei film che prediligo).
Recentemente ha scritto che le nuove generazioni di studenti sembrano conoscere la storia del cinema allo stesso tempo meglio e peggio di come la conosceva lei quando era uno studente negli anni ’60. E che “oggi, grazie a internet tutto sembra essere più disponibile ma tutto è anche meno accessibile se non sai come e perché cercare qualcosa”. Crede che questa considerazione possa essere estesa ai giovani cinefili, la cui tendenzialmente illimitata possibilità di accesso al cinema in rete, in tempo reale, li fa vivere in un presente continuo dimentico del passato?
Non direi “dimentichi” quanto poco curiosi, a volte per niente curiosi. Credo sia importante che i cinefili più giovani capiscano perché Stroheim conosce la gente (e credo che tale affermazione vada tenuta al presente) più di quanto facciano Scorsese o Spielberg, e anche con maggiore profondità. Bisogna essere consapevoli che per comprendere il cinema, è necessario prima comprendere il mondo.