Se si dovesse spiegare a un ventenne, ancora a digiuno di visioni per ragioni anagrafiche, in cosa consista la grandezza di Jacques Rivette, la soluzione migliore sarebbe, probabilmente, dirgli pressappoco questo: “Hai presente il cinema di Alejandro Gonzalez Iñárritu? Ecco, se lo si capovolge di 180°, e si va a vedere dietro, c’è il cinema di Rivette”.
Il presupposto da cui partivano Rivette e gli altri “giovani turchi” dei Cahiers du Cinéma negli anni Cinquanta, era l’essere rimasti orfani del romanzo realista ottocentesco. A proseguire la linea di Balzac (via Flaubert) era la Hollywood classica, la quale però era, allo stesso tempo, il sigillo apposto alla certezza che i tempi di Balzac erano passati, e che al cinema, che pure rimaneva prolungamento diretto del romanzo, non poteva più spettare il compito che fu del romanzo, cioè quello di ricostruire la totalità sociale del mondo capitalista in via di consolidamento attraverso l’intreccio di spazio e tempo, descrizione e azione. La politique des auteurs perseguita su quella rivista, e più tardi la Nouvelle Vague stessa, possono essere definite come tentativi di portare avanti con altri mezzi la medesima ambizione della Hollywood classica: trovare un modo di proseguire Balzac senza Balzac, perché in un mondo dal capitalismo già troppo galoppante come quello non poteva più esserci spazio per il romanzo realista tradizionalmente inteso. Quest’ultimo, tuttavia, rimaneva esteticamente necessario, perché anche se di diverso grado di sviluppo si trattava, era sempre all’interno del capitalismo che ci si trovava. Come fare Balzac senza Balzac? Come perseguire la ricostruzione della totalità partendo dal presupposto che la totalità non può essere ricostruita?
L’ipotesi rohmeriana fu quella per cui il cinema rimediava a quest’orfananza tornando al classico. Più moderna di qualsiasi modernità era, per Rohmer, la vecchia cesura che informava e caratterizzava le forme della tragedia classica, e che in quella che secondo lui era la Hollywood migliore si innestava su quel tessuto romanzesco che costituiva le fondamenta stesse della pratica gloriosamente standardizzata degli studios “tappando” il buco della totalità con un altro buco. Rivette preferiva invece, già negli anni in cui faceva il critico, il classico “rimasticato” e reinventato dal suo adorato Corneille, e infatti rimarrà sempre più aperto a forme e soluzioni che si lasciano volentieri classificare come moderne, e che tuttavia affiancano il classico e vi si sovrappongono, più che sostituirlo. Tant’è che già nel suo primo Paris nous appartient (1960) l’impianto narrativo è assai letteralmente mutuato dalla tragedia classica; di tardo-moderno ci sono non solo le forme visive impiegate, ma soprattutto l’idea di base per cui la forma contemporanea di ricostruzione di una totalità che non si lascia ricostruire è quella del complotto, della inafferrabile cospirazione. La quale è anche, naturalmente, la forma che più di tutte rispecchia un’età tardo-capitalistica in via di repentina globalizzazione.
La cospirazione continuerà a essere il tema principe di tutto il cinema rivettiano. Anche quando (già dal film successivo – e ricorrendo appunto a Diderot con La religiosa, 1966) il regista si libererà dell’architrave tragica, il perno rimarrà sempre la totalità non ricostruibile, e dunque in eterna (ri)costruzione. Così lo spazio e il tempo rinviano eternamente la loro articolazione, e il tempo, sganciato dai cardini spaziali, dilaga emorragicamente anche per ore e ore (Rivette è famoso per la durata spesso abnorme di parecchi suoi film). A rinviare e rincorrere eternamente (“Senza fine”, è la canzone su cui (non) si chiude Va savoir, 2001) la loro articolazione sono la vita stessa e il suo doppio teatrale: a fare da cerniera tra la prima e il secondo, insieme al “piano-sequenza” e a varie altre scelte di mise en scène volte a spazializzare la durata e ad abitare l’asintoto abissale tra la spontaneità del presente davanti alla macchina da presa e la sua inesauribile teatralizzazione, c’è l’improvvisazione – a cui Rivette farà ripetutamente ricorso lungo gran parte della sua carriera.
Out1 (1971), leggendario serial di ben undici ore la cui struttura venne ispirata soprattutto dalle sperimentazioni della musica post-seriale di quegli anni, utilizzava, al posto della sceneggiatura, uno scarno schema preliminare come canovaccio in base al quale il cast veniva sguinzagliato in vari luoghi di Parigi (e altrove) e lasciato libero di improvvisare e di sviluppare lo spunto iniziale sfruttando l’alea del momento. Prima di ritornare a questa “forma aperta” (e, in un certo senso, di liquidarla) con Merry Go Round (1978), Rivette l’ha incrociata con il genere fantastico, dando vita al ciclo di film Scènes de la vie parallèle (Céline et Julie vont en bateau, 1974; Duelle, 1976; Noroit, 1976; Histoire de Marie et Julien, 2003). Il che, tutto sommato, è naturale e quasi fisiologico: dopo un esperimento come Out1, il crinale vita/teatro non può che andare stretto: bisogna cercare una diversa controparte dialettica della realtà, e Rivette l’ha trovata con profitto nel soprannaturale. Quest’ultimo, nelle mani del cineasta, si è dimostrato utilissimo supporto per lo sperimentalismo a ruota libera (Noroit) e per una chiosa mirabilmente astratta (Duelle) sulla dialettica in quanto tale, vecchio rovello rivettiano già nei suoi anni da critico ai Cahiers.
Da mediocre apologeta del postmoderno e della globalizzazione ormai compiuta (e probabilmente pure superata), Iñárritu prende la frattura del tardo moderno che Rivette ha cercato per tutta la sua carriera di tenere divaricata, e la ricuce con piatta, pedestre facilità. L’impossibilità di essere Balzac la risolve con i giochini da demiurgo della mutua di Arriaga. Ad esempio in Babel, che infatti rappresenta una troppo facile ri-totalizzazione del caos globale per puro partito preso di sceneggiatura – ma anche in Biutiful, dove Arriaga non c’è, e dove, per congiungere locale e globale, ci si tiene sempre prudentemente al di qua dell’afterlife con cui Rivette ha chiuso le sue Scènes de la vie parallèle (con Histoire de Marie et Julien). E infatti Birdman è l’approdo al sovrannaturale come risoluzione della spaccatura tra realtà e finzione, giocata nel modo più banale e antirivettiano possibile, cioè col pianosequenza (marchio di fabbrica rivettiano doc) usato proprio per esasperare, al contrario del cineasta francese, la continuità liscia da una dimensione all’altra.
Questo cofanetto appena uscito, contenente Out1, Duelle, Noroit e Merry Go Round, è dunque un’ottima occasione non solo per riscoprire il cinema di Rivette, ma anche per confermare che innanzi alla catastrofe permanente innescata, e irrefrenabilmente alimentata, dal tardo capitalismo globalizzato, nel quale lo spazio sopravanza e fagocita costantemente il tempo, la troppo facile “ri-chiusura” postmoderna non è l’unica reazione possibile. Laddove un Iñárritu, con o senza Arriaga (ma il primo ha di fatto “introiettato” irreparabilmente il secondo nel proprio cinema anche dopo la sua partenza), oggi che tutti abbiamo la scrittura a portata di mano grazie all’espansione totale della mediasfera e della “comunicazione”, ci illude in maniera meschinamente consolatoria con i suoi giochini di sceneggiatura che in fondo con la scrittura possiamo, da piccoli demiurghetti, addomesticare docilmente il tempo e lo spazio e ricucirli insieme a nostro piccolo vantaggio, Rivette si mantiene dalla parte dell’immagine, ovvero di un modo di articolare lo spazio e il tempo che tenga conto e che testimoni del loro originario e reciproco uscire dai cardini senza sacrificarlo in nome di un’esigenza di rassicurazione, facendo quadrare per forza i conti.