Eighteen Springs
Voto: ** Da vedere
Regia: Ann Hui
Sceneggiatura: John Chan
Con Leon Lai, Wu Chien-lien, Anita Mui, Ge You, Annie Wu, Huang Lei.
Non so cosa pensare esattamente del dodicesimo film di Ann Hui, in programmazione due volte questo fine settimana al Film Center. Al momento non ritengo che sia un capolavoro, ma questo non significa necessariamente che non dovreste andare a vederlo. Giungere a queste due conclusioni è una specie di necessità professionale per me, perché ogni volta che scrivo una lunga recensione per questo giornale devo assegnare al film un certo numero di stelline. Se guardate nella casella chiamata “voto”, questo varia da “capolavoro” (quattro stelline) a “inutile” (nessuna). Ma, a volte, tale necessità è accompagnata da un dilemma, perché il mio istinto mi dice che spesso è impossibile sapere, immediatamente dopo aver visto un film, se si tratti di un capolavoro o meno. E già che ci sono lasciatemi confessare un altro dubbio, collegato al generale “gonfiarsi” delle valutazioni che affligge la mia professione, sia che i critici stiano recensendo un blockbuster hollywoodiano sia che si tratti di un film d’autore hongkonghese: temo che se dico alla gente che Eighteen Springs di Ann Hui (o Il grande Lebowski dei fratelli Coen) è soltanto “da vedere”, un sacco di gente non si prenderà il disturbo di andare a vederlo – anche se alcuni di loro dovrebbero farlo, nel loro interesse, non nel mio. Questo per dire che la mia recensione rischia di essere colma di contraddizioni, perciò non dite che non vi avevo avvertiti.
Eighteen Springs è uscito un anno fa ad Hong Kong, dove pare abbia fatto incassi abbastanza miseri, ma di questi tempi quasi tutto ad Hong Kong fa incassi risibili, ad eccezione di Titanic e pochi altri kolossal hollywoodiani. Qualche anno fa, un film come questo ci avrebbe messo due o tre anni a raggiungere Chicago, e se fosse uscito negli anni ’60 probabilmente un quarto di secolo. Invece ha raggiunto Chicago così in fretta non per via di un qualche distributore (che tuttora non ha), bensì grazie a Barbara Scharres, la direttrice del Film Center (ed essendo in programmazione al Film Center, vedrà solo due proiezioni).
Perché i film continuano a cambiare – nel modo in cui vengono prodotti e girati, in quello in cui sono distribuiti, nel modo in cui vengono fruiti e considerati? Eighteen Springs non ha trovato distribuzione perché non è un capolavoro, ma Scharres ci tiene a proiettarlo perché pensa che lo sia? Tutti a Hong Kong pensano che Titanic sia un film migliore? Queste sono domande senza senso, ma la cultura cinematografica corrente le fa sembrare quasi logiche, perché il concetto di fondo, oggi, è che non vale la pena pagare una babysitter o guidare 30 km se non per un film assolutamente imperdibile. Il fatto è che se quello che cerchi è un’esperienza assolutamente imperdibile, sia che tu vada in una multisala o in un cinema d’essai, resterai comunque deluso.
Molti esercenti cinematografici – produttori e distributori – sostengono di stare semplicemente dando al pubblico ciò che vuole. Ma questa è, nel migliore dei casi, una mezza verità. Se un uomo sta morendo di sete e tu gli offri di scegliere tra del sapone liquido e del lucido da scarpe, sarebbe davvero onesto sostenere che la sua scelta cadrà su quello che gli “piace”? Quando, di recente, sono tornato nella città dove sono cresciuto in Alabama, che ha nove multisale in centri commerciali, ho scoperto che chiunque volesse vedere Lama tagliente doveva farsi un’ora e mezza di macchina – anche se uno degli attori a quanto pare proviene da quella stessa città e molti abitanti hanno chiamato i distributori chiedendo di noleggiare la pellicola. Sono certo che ogni comunità americana ha storie analoghe da raccontare. Big One di Michael Moore mostra gli stessi principi delle multinazionali applicati al lavoro, ai servizi e ai finanziamenti governativi. E i media continuano a ripetere anche loro di stare semplicemente dando al pubblico ciò che vuole, e anche se il pubblico continua a ripetere che, ad esempio, non gli può importare di meno di chi abbia fatto un pompino a Clinton, troverete quello stesso lucido per scarpe in offerta ogni sera della settimana. Come se non bastasse, e per quel che vale, la maggior parte della critica cinematografica continua a prendersela con il pubblico e non con le corporazioni per i film che continuano a propinarci.
Eighteen Springs è il quinto film di Ann Hui che io abbia visto: mi sono piaciuti tutti, anche se non considero un capolavoro nessuno di questi. Su due piedi potrei dire che nel suo stile e nel suo lavoro con gli attori è comparabile a William Wyler, e personalmente non considero nessuno dei film di Wyler che abbia visto un capolavoro [poscritto del 2010: oggi penso che I migliori anni della nostra vita lo sia, e sospetto che ne abbia girati altri]. Potrei sbagliarmi, ovviamente. Ciò che rende un film cinese un capolavoro potrebbe includere molti elementi che non padroneggio a sufficienza, come la storia e l’estetica cinesi e la comprensione della lingua. Ma perché mai un film, per essere meritevole di essere visto, dovrebbe essere un capolavoro? I capolavori mettono parecchia pressione sullo spettatore, mentre buoni film “nella media” – merce rara di questi tempi – sono una boccata d’aria fresca. (Non ho ancora recuperato Full Monty, ma il motivo principale per cui ho voglia di farlo è che non ho ancora sentito nessuno chiamarlo un capolavoro).
Considero capolavori due altre “soap opera” cinesi degli ultimi anni, Blush di Li Shaohong, un film mandarino sul destino di due prostitute nella Cina postrivoluzione, e Centre Stage di Stanley Kwan, un biopic hongkonghese ambientato a Shanghai durante gli anni ’30. Ma mi sento anche più in sintonia con quello che cercano di fare questi due film. Non intendo che il film di Hui sia difficile da seguire – la trama è cristallina, e quasi tutti i suoi messaggi sono comunicati in modo immediato. Ma il connubio di storia, recitazione e messa in scena, che per altro ho trovato avvincente, non sembrava del tutto riuscito, ero spesso coinvolto da singoli momenti, ma meno mosso dall’impatto nel suo insieme.
È forse un crimine? Non credo. In effetti, varie cose del film mi hanno intrigato: parti della storia, la fotografia, la maggior parte degli attori e delle scenografie – persino un formato dei sottotitoli che non ho mai trovato in altri film. Il film è girato in widescreen, e le linee parallele dei dialoghi cinesi e inglesi creavano un confine inferiore del quadro insolitamente piacevole. Il quadro è sufficientemente largo da ospitare due righe di dialoghi – spesso botta e risposta tipo “Mangiamo”, “Ok” – a destra e a sinistra del bordo, con un sacco di spazio in mezzo. In effetti, quello che mi ha convinto maggiormente del film era la sua lucidità. E la forma e l’impatto di questi sottotitoli hanno giocato un ruolo in tutto ciò.
Eighteen Springs, basato su un romanzo di Eileen Chang, è una storia d’amore dolceamara ambientata principalmente a Shanghai durante gli anni ’30 e ’40. Uno dei personaggi principali è una prostituta di nome Manlu (Anita Mui) che sceglie di vendersi per mantenere la sua famiglia un tempo benestante; gli altri due sono sua sorella minore, Manjing (Wu Chien-lien), che all’inizio lavora in fabbrica, e un uomo d’affari, Shujun (Leon Lai), figlio di un ricco mercante. All’inizio del film Manjing e Shujun fanno conoscenza tramite il cugino di lui, prendono un tè, e si innamorano praticamente a prima vista. Nel corso dei diciotto anni seguenti il loro amore è costantemente ostacolato, principalmente dalla reputazione di Manlu, e il fatto che il padre di Shujun fosse un suo cliente peggiora ulteriormente le cose.
Un altro aspetto riuscito del film è il modo in cui è narrato alternativamente da Manjing e Shujun. Diversamente dagli svariati narratori esterni utilizzati dal regista hongkonghese Wong Kar-wai, che tende a passare la storia di mano in mano come in una staffetta, Manjing e Shujun si dividono la storia come se stessero giocando a ping-pong. Consci di entrambi i punti di vista, esperiamo le varie fasi della loro relazione molto più profondamente e comprendiamo alcuni dei loro problemi meglio di loro stessi. (Il titolo del film in cinese si traduce letteralmente come “Destino di una vita a metà”, che suppongo faccia riferimento in parte a questa insolita struttura narrativa).
Verso la fine del film, i due si incontrano per caso dopo molti anni e vanno in un caffè poco illuminato, e che il loro improvviso abbraccio sia girato attraverso una finestra sporca e che ci appaiano stretti attraverso una porta socchiusa è tanto potente quanto appropriato. È tipico del melodramma asiatico, in cui il climax emotivo è spesso filmato in campo lungo piuttosto che in primo piano, come se i due amanti fossero visti come parte del mondo esterno; parte della cifra stilistica originale di Hui come regista è la capacità di fare sembrare questo mondo esterno squallido e decoroso al tempo stesso. Immagino che suonerà un complimento ambiguo, ma non ho visto un altro film quest’anno con migliori tonalità di giallo. E anche se la gran parte dei momenti più importanti sono girati in campo lungo, la bellissima Wu Chien-lien gestisce ogni suo primo piano per mezzo di sfumature emotive delicate, che Hui riesce a orchestrare alla perfezione. Uno di questi primi piani ricorda L’orgoglio degli Amberson: Manjing si sta nascondendo in una stanza al piano superiore mentre si vede Shujun, a cui è stato detto che lei non si trova lì, allontanarsi nel prato attraverso una finestra alle sue spalle.
Di questi tempi continuiamo a sentirci ripetere che viviamo in un’epoca sterile per il cinema, in confronto agli anni ’60 e ’70, in cui non potevamo vedere nessun film cinese, quindi non immagino che l’arrivo di questo film magistralmente girato e intelligentemente diretto dall’altra parte del mondo verrà salutato come un motivo per festeggiare. È molto più à la page lamentare la morte del cinema come arte e della cinefilia come attività appassionata, come fa David Denby nel numero del 6 Aprile del New Yorker.
L’articolo “Mourning the Movies” [In lutto per il cinema n.d.t.] è l’epitome del rifiuto contemporaneo di affrontare coerentemente – cioè storicamente o politicamente – il contesto che fa sì che andare al cinema negli anni ’60 e ’70 fosse un esperienza diversa dall’andarci oggi. Si occupa con criterio dell’hype riguardo ai film sempre maggiore dagli anni ’60, ma questa è l’unica cosa su cui ci prende. Certamente non ha bisogno di avere ragione, perché sta dicendo quello che la gente vuole sentire (immaginate quanto avrebbe voglia il New Yorker di pubblicare un pezzo che annunci che stiamo vivendo in un momento ordinario per il cinema o un articolo che celebri uno qualunque dei film fatti oggi in altri paesi). Il suo è un lamento analogo a molti altri nel mainstream odierno che si riferiscono nostalgicamente alla “età dell’oro” degli anni ’60 e ’70: un altro è stato scritto da Susan Sontag sul New York Times, uno da James Wolcott su Vanity Fair e un altro ancora da David Thomson su Esquire. Ma sia loro che Denby fingono di ignorare alcuni fatti basilari.
Durante gli anni ’20, ’30, ’40 e ’50 la gente in America e in molti altri paesi andava al cinema come oggi si guarda la televisione: non alla ricerca di capolavori o eventi speciali ma solo per avere qualcosa da fare. Era un’attività quotidiana e non eccezionale. Sospetto che vedere La bionda e l’avventuriero, con James Cagney, quando uscì nel 1931 non fosse niente di speciale se non per il fatto che lo era Cagney. Oggi ci sono altri attori che a loro volta rappresentano qualcosa di speciale – John Travolta, ad esempio, o Anita Mui (la cui popolarità ad Hong Kong, almeno fino all’uscita di Titanic da quelle parti, deve essere paragonabile a quella di Cagney nel proprio paese negli anni ’30). Potremmo lamentarci del fatto che Travolta non ha tanto talento quanto Cagney, ma sembra più rilevante lamentarsi del fatto che dobbiamo farci chilometri nel fango (e tra i trailer, e la pubblicità e il materiale di “infotainment” che ci arriva fino al collo) per raggiungere un luogo in cui goderci Travolta come negli anni ’30 si poteva fare con Cagney (o negli anni ’80 con Mui ad Hong Kong). Prendere in considerazione di andare a vedere un film con Travolta oggi è una questione complicata: per cominciare, devi preoccuparti di scoprire se si tratti di un buon film o meno ancora prima di iniziare a pensare di andarci. Il pubblico degli anni ’30 sarebbe andato a cuor leggero.
Alcuni barlumi di questa attitudine erano ancora vivi negli anni ’60, quando il prezzo forfettario offerto era controbilanciato da segnali di rinnovamento e rinvigorimento. La maggior parte di questi segnali giungeva sotto forma di eccitanti novità dall’estero – molte delle quali ricevevano un supporto minimo dalla stampa mainstream. E questo non solo se vivevi in una grande città con sale d’essai – che alla fine degli anni ’60 erano più di 1000 in tutta la nazione, senza contare le cineteche e i cineforum. Ma un decennio più tardi arrivò il video, e poi l’amministrazione Reagan iniziò a indebolire le leggi antitrust. La sopravvivenza di quasi tutte le sale indipendenti divenne impossibile, e la sopravvivenza del cinema come settore commerciale iniziò a dipendere non dalle persone che si recavano a una normale attività quotidiana, ma dall’andare al cinema come evento speciale. E questo fu il momento in cui il meccanismo dell’hype, ovvero la necessità di promuovere smisuratamente un film per incoraggiare i possibili avventori, iniziò a prendere piede. Ora, praticamente, ogni pubblicità che un distributore può permettersi di pagare è costretta a insistere che il film che sta promuovendo sia imperdibile. Giornali e riviste, editori e critici, sembrano contenti di accodarsi alle ovazioni, e solo il pubblico finisce col sentirsi preso in giro.
Pauline Kael, mentore di Denby, è stata la prima a cavalcare questo nuovo trend. Kael era adorata da tanta gente proprio perché “sapeva” se un film era buono o meno nel momento stesso dell’uscita e non si è mai degnata di rivedere un suo giudizio in seguito. Il problema di questa posizione, anche quando riesce a veicolare letture brillanti – come è accaduto spesso nel caso di Kael – è che tutto ciò che sappiamo del cinema e sul mondo è in un costante stato di fluttuazione e revisione. Ciò che c’era di grande nel neorealismo italiano o nella nouvelle vague era contingente al fatto che vedevamo quei film nel periodo in cui erano girati. Ciò che era grande del cinema giapponese degli anni ’30, però, ha dovuto attendere 40 anni per venire scoperto, fino a che To the Distant Observer: Form and Meaning in the Japanese Cinema di Noel Burch non è stato pubblicato nel 1979, perché fino agli anni ’50 non circolavano film giapponesi in occidente, e da allora solo qualche titolo contemporaneo. Di conseguenza, ciò che era ed è grande in Figlio unico di Yazujiro Ozu [vedi sotto] o in Zangiku mongatari di Kenji Mizoguchi è tuttora sconosciuto ai più, fatta eccezione per pochi addetti ai lavori; la maggior parte della gente non ha mai avuto l’opportunità di vedere un film di Mizoguchi fino agli anni ’80, e di solito solo in video rovinati, e il film di Ozu è ancora introvabile qui in America. Lo stesso si potrebbe dire di tanti altri film prodotti un po’ in tutto il mondo nel corso della storia del cinema. Il gusto del pubblico ha poco o nulla a che fare con questa impasse. È semplicemente una questione di circolazione del prodotto: ciò che circola e si riesce a vedere, e ciò che non ha la stessa sorte.
Kael diventò un’autorità nei tardi anni ’60, primi ’70, quando c’era un enorme bisogno di riconfigurare la storia e l’estetica del cinema in termini consumistici, ovvero nei termini di ciò che era disponibile: cosa stava succedendo qui, e non altrove. Andrew Sarris, che stava proponendo critica d’autore al pubblico americano attorno allo stesso periodo, offrì un’alternativa al modello consumistico, facilitata dal numero di vecchi film di Hollywood allora disponibili in TV. Ma contemporaneamente, chi intendeva scoprire cosa stesse succedendo senza semplici classificazioni consumistiche, leggendo recensioni che ti insegnassero a pensare invece che fornirti indicazioni su cosa vedere, avrebbe fatto meglio a seguire Manny Farber. L’edizione espansa della sua collezione Negative Space, che è appena uscita, include otto pezzi inediti degli anni ’70, e non ci troverete nessuna dichiarazione su cosa sia un capolavoro e cosa no, solo un’ eccitante esplorazione di nuove scoperte in un processo senza fine.
Nel momento stesso in cui inizi a decidere cos’è incontrovertibilmente di valore o privo di esso in un film o nel cinema nazionale o in una fase della storia del cinema, non sei più un esploratore bensì un informatore – qualcuno che conosce le probabilità, i dati, ma non ciò che conta. E gli informatori sembrano essere tutto ciò che è richiesto nei e dai media mainstream di oggi. Dico “sembrano” perché Farber, che ha smesso di scrivere negli anni ’70, non ha rappresentato la fine della cinefilia e della critica basata sul piacere della scoperta: questo spirito permane, nonostante la riluttanza dei media mainstream a riconoscerlo sia cresciuta astronomicamente dagli anni ’80. Denby ad esempio sembra sostenere che questo spirito non esiste più, ma sospetto che sia solo perché ha frequentato la gente sbagliata.
Qualche giorno fa una studiosa di film studies mi ha detto di essere stata “fregata” perché era andata a vedere su mia segnalazione Newton Boys – ma aveva letto solo lo specchietto riassuntivo della mia recensione e mi stava usando solo come un informatore. Sapendo che lei è interessata al cinema come arte, più o meno come io lo sono allo stesso in termini di semplice intrattenimento, ho ammesso che il mio apprezzamento del film aveva poco a che fare con la trama, cosa che l’ha indotta a concludere che pensavo si trattasse di un film d’avanguardia. È questo genere di categorie reciprocamente escludentesi – predominanti allo stesso modo tanto nell’accademia quanto sul New Yorker – che impediscono oggigiorno alle persone di godersi il piacere quotidiano in film che non hanno a che fare né con la trama né con la sperimentazione, e talvolta finiscono con il rendere critici come me delle “macchine da hype”. In effetti, ciò che vorrei scrivere spesso è “Ehi, qui c’è da divertirsi”, sia che si tratti del Grande Lebowski che di Newton Boys, o persino di Eighteen Springs. Ma visto che mi sento come se dovessi essere in competizione con recensori che amano chiamare le cose “le migliori di sempre” – gettando alle ortiche il futuro indefinito, il passato, e il resto del globo al fine di giustificare il loro gusto per il lucido da scarpe o per il sapone liquido – spesso sono altrettanto prono a suonare strillante e esagerato come il resto di loro.
Tutto questo gridare al capolavoro è certamente un problema, ma non dovrebbe costringerci all’alternativa tra guardare solo film pazzeschi o niente. Confondere questo stato delle cose con lo stato generale di salute dell’arte è una grande tentazione per i critici, perché, chiaramente, il fatto che non ci sia niente di degno di una visione se non una manciata di prodotti già famosi facilita il loro lavoro. A volte finiscono col biasimare il pubblico, come fa Denby: “Forse è troppo tardi per lamentare la scomparsa di film stranieri da gran parte della nostra offerta culturale. A seguito di varie conversazioni deprimenti ho scoperto che i giovani spettatori, cresciuti a pochissimo oltre ai film americani, immaginano che coloro che compiangono il cinema straniero stiano parlando di qualche paradiso perduto per intellettualoidi da strapazzo, fatto di banconi da bar e cappuccino, un rifugio pretenzioso per perdenti con la barba e donne solennemente vestite di nero. “Cinefili”, non è così che li chiamavano? È peggio che inutile cercare di spiegare a questo pubblico che Bergman e Kurosawa, Antonioni e Fellini, Godard e Truffaut – solo per fare i nomi più ovvi – hanno definito il nostro modo di essere e sentire nella tarda adolescenza, affinato il nostro gusto per il romanticismo, per la malinconia e per la libertà, così come le possibilità espressive del cinema, e che la loro influenza è stata così pervasiva che Gangster Story, come le carriere di Woody Allen, Paul Mazursky, Robert Altman e un bel po’ di altri registi non sarebbero stati possibili senza di loro.
“Va aggiunto, en passant, che il cinema francese, italiano, tedesco e giapponese di oggi non è che un’ombra di ciò che era, e che i nuovi film dalla Cina, dalla Russia, dalla Finlandia e dall’Iran, per quanto affascinanti, non possono rimpiazzare gli antichi capolavori quanto a eccitazione e glamour. “Dove sarebbero i grandi film esteri oggi?” mi ha chiesto un amico, e con ciò intendeva dire che non si sente in colpa per il fatto di non andare a vedere film esteri, visto che non sono capolavori. Non ha tutti i torti, ma anche quando c’è la première di un buon film francese qui (come nel caso di Il buio nella mente di Chabrol, del 1996) è difficile racimolargli un pubblico”.
Proprio accanto alla stroncatura di Denby di Il sapore della ciliegia – il primo film di Abbas Kiarostami che mi sia mai preoccupato di vedere – apparsa sul New York Magazine lo stesso giorno del suo saggio sul New Yorker, si può trovare una copia di quasi tutte le sue recensioni del New York Magazine dei film di Antonioni, Bergman, Fellini, Godard, Kurosawa e Truffaut quando uscirono negli anni 60, in cui mostrava lo stesso scetticismo e il medesimo scarso entusiasmo. Come potrebbe essere altrimenti, quando i “nuovi” capolavori sono costretti per definizione a ricordare/conformarsi a quelli vecchi? Quando Denby si lamenta del fatto che nel caso di Il buio nella mente “è stato difficile racimolare un pubblico” nel 1996, sembra implicare che il pubblico negli anni ’60 accalcava le sale per vedere L’avventura, Non sparate sul pianista, La vergogna, Satyricon, Anatomia di un rapimento o La cinese, cosa evidentemente falsa (alla sua prima uscita a New York, La cinese durò soltanto una settimana). Perciò è semplicemente logico che Denby debba paragonare Kiarostami, che ha fatto film durante gli anni ’70 senza il supporto – o anche la conoscenza – di Denby, a una lettura degli anni ’60 di Vittorio De Sica o di Satyajit Ray, piuttosto che a una lettura degli anni ’90 di qualsiasi cosa.
Quanto potremo mai sapere del cinema di un paese o di una data fase della storia del cinema, inclusa quella presente, al di là dei gusti di un nugolo di programmatori e distributori? Si potrebbe assumere, ad esempio, che date le centinaia di film e video mostrati dal Latino Film Festival di Chicago negli ultimi tre anni sarebbe possibile per un abitante di Chicago valutare ciò che sta succedendo nel cinema, poniamo, dell’America centrale. Ma il miglior film centramericano che ho mai visto, Manhattan Merengue dello scomparso Joseph P. Vasquez – un gioioso musical dominicano che ho beccato a Cannes nel 1995 – non è mai uscito da nessuna parte, qui. [2010: oggi è disponibile in DVD]. Nel corso degli anni ho visto una buona quantità di fantastici film da tutto il mondo che fino ad oggi non hanno mai solcato l’Atlantico o il Pacifico, cosa che mi suggerisce che sia presuntuoso fare finta che si possa valutare l’impatto artistico di un qualsiasi paese o periodo sulla base di una manciata di prodotti selezionati da terzi. Ma Denby, che di norma nemmeno si prende la briga di frequentare i festival, sembra trovarlo naturale come respirare. In qualità di informatore, sa che è molto più consolatorio dire semplicemente al proprio pubblico che non si sta perdendo niente che meriti.
Se si va in cerca di ricordi del passato nel presente e si vuole “rimpiazzare” vecchi capolavori con nuovi, temo si sia destinati a restare frustrati, perché i film che oggi contano sono altrettanto incategorizzabili quanto quelli degli anni 60 quando erano appena usciti – e qui includo film come Il sapore della ciliegia ma anche Eighteen Springs. Forse questo vuol dire che “non ci sono capolavori da vedere in giro”, perché serve sempre tempo ed esplorazione per definire e giudicare ogni opera. Che siano stati tutti quei “classici istantaneei” hollywoodiani degli anni ’70 spinti da Kael e Denby – Il padrino e i suoi sequel, Nashville, i film di De Palma e Allen e Scorsese e Mazursky – ad aver insegnato a Denby ad aspettarsi immediata leggibilità e gratificazione dai film e a rinunciare a tutto il resto? Se è così, peggio per lui, è lui a perdersi qualcosa. Alcuni di questi film sicuramente hanno un loro innegabile peso, ma se ciò fosse l’unica cosa di cui sono in cerca, la mia percezione e la mia conoscenza del nostro secolo e del mondo sarebbe più povera, e di molto.
Non sono nemmeno certo che Eighteen Springs sia un film buono quanto La bionda e l’avventuriero, ma penso che potrebbe giocarsela con parecchi altri di Cagney – anche se mi affretto ad aggiungere che se Denby fosse stato in cerca di un capolavoro “senza tempo” negli anni ’30 in ogni film di Cagney uscito dalla Warner sarebbe stato parecchio deluso anche allora. Il film di Hui ci dice tanto della Cina quanto uno di quei filmetti della Warner ci dicono degli anni ’30, e questo è già parecchio. Ma il motivo per cui non posso dirvi se vale la pena chiamare una babysitter – anche se siete dei cinesi che vivono a Hong Kong – è che quello che potete tirarne fuori ha molto a che fare con quanto decidete di investirci, non in termini di soldi ma di immaginazione e curiosità (e magari addirittura di desiderio di andare, semplicemente, al cinema).
Il film di Hui potrà non essere eccellente, eppure penso che mi resterà in testa più a lungo di uno qualsiasi di Mazursky. Ma forse, allora, dovrei essere più tollerante riguardo ai suoi film, e Denby più tollerante riguardo a film stranieri che non ha mai visto. Forse se imparassimo a rispettare i “non capolavori”, tanto per cambiare, alcuni dei quali sono potenziali capolavori in attesa di essere compresi, potremmo essere in grado entrambi di darci una calmata.
(testo apparso originariamente sul Chicago Reader il 17 Aprile 1998, traduzione di Elisa Cuter; pubblicato per gentile concessione dell’autore)