Particolarmente arduo racchiudere in una classifica arbitraria i lavori più rilevanti prodotti negli ultimi dodici mesi. Personalmente, trovo che il termine avant-garde, da sempre vago e flessibile, rimanga una categoria del tutto soggettiva. Può un documentario essere avant-garde? E un cortometraggio? L’uso di tecniche ormai ampiamente diffuse può essere considerato avant-garde? La risposta è assolutamente sì. Seguendo questo principio, nello stilare la lista che leggerete non ho rispettato alcuna restrizione a parte quella di limitare la mia scelta a otto lavori, un numero che non trova nessuna ragione precisa se non quella di essere comparso in più occasioni quando ho cominciato a selezionare i titoli.
Non considero alcuna lista come definitiva, ma posso dire che non ho mai guardato così tanti film d’avant-garde come nell’ultimo anno: praticamente tutto ciò che è passato da Crossroad, Wavelenghts e Projections, insieme a una selezione di lavori da Images e Ann Arbor e dalle più insolite programmazioni regionali. Ciò significa che ho dovuto inevitabilmente escludere un numero significativo di lavori straordinari. Prima di cominciare voglio quindi ricordare brevemente Scott Stark (Traces/Legacy), Eric Stewart (Wake), Mary Elena Clark (Palms), Ben Russel (Greetings to the Ancestors), Jonathan Schwartz (3 Miniatures), Lewis Klhar (Mars Garden), Blake Williams (Something Horizontal), Björn Kämmerer (Navigator), Mathieu Kleyebe Abonnenc (Sector IX B), Laida Lertxundi (Viva para Vivir), Margaret Honda (Color Correction) e Madison Brookshire (About 11 Minutes).
8. PARK LANES / Kevin Jerome Everson (Rotterdam: Signals 24/7; Images Festival; MoMA; Documentary Fortnight)
Dopo una breve serie di ricerche marginali, Kevin Jerome Everson inaugura il 2015 con qualcosa di molto più ambizioso: Park Lanes riprende per otto ore un gruppo di operai di un’industria cittadina con l’intento di restituire l’esperienza e le dinamiche di un’intera giornata di lavoro. Il film si apre con alcuni operai, afroamericani e di origine vietnamita, che arrivano all’alba e cominciano immediatamente ad assemblare le componenti di quella che alla fine scopriremo essere una pista di bowling. Girando con una tecnica che ricorda i pionieri Frederick Wieseman e Robert Gardner, Everson segue le diverse attività dei lavoratori – dai compiti più ripetitivi e insignificanti a quelli più complessi e che richiedono uno sforzo fisico intenso -, soffermandosi sulle pause pranzo e sulle conversazioni dello staff con una cura particolare per le sfumature del linguaggio, per i gesti e per l’identità culturale – ovvero ciò che caratterizza l’approccio sociologico di questo straordinario regista dotato di grande sensibilità. Per ragioni che vanno oltre le qualità immediatamente riconoscibili (l’intento del film e la sua struttura rigorosa raccontano solo una parte della storia), questo può essere considerato, a oggi, il ritratto più accurato e completo della società americana realizzato da Everson.
7. NEITHER GOD NOR SANTA MARIA / Samuel M. Delgrado e Helena Giròn (Toronto: Wavelenghts; New York: Projections)
Questo meraviglioso e suggestivo ritratto di Yè, un remoto villaggio sull’isola di Lanzarote, è un lavoro paradossalmente oscuro che offre allo spettatore un piacere “tattile”, combinando l’approccio etnografico con uno sguardo mistico e visionario. Girato su pellicola scaduta 16mm, il film fa del suo supporto degradato un punto di forza, conferendo alle immagini della flora e della fauna, del paesaggio costiero e dei profili delle montagne, l’aspetto di un impervio diario di viaggio segnato da graffi e imperfezioni udibili nella traccia audio come accompagnamento d’ambiente per le vette smisurate che si fanno spazio nell’atmosfera nebbiosa. Allo stesso tempo, le registrazioni audio realizzate negli anni Sessanta dall’etnografo Luis Diego Cuscoy fanno da inquietante colonna sonora: le voci raccontano storie di stregoneria e di forze occulte che nel corso dei secoli sono divenute leggende locali. Grazie a uno sguardo e a un orecchio sensibile ai dettagli naturali e alle congetture storiche, Samuel M. Delgado e Helena Giròn hanno costruito al contempo un diario orale e un resoconto archeologico di una terra lontana, che risulta tanto più vivida per il fatto di non essere mai del tutto messa a fuoco.
6. THE TWO SIGHTS / Katherine McInnis (New York: Projections)
Ispirato al Libro di ottica scritto nell’undicesimo secolo dallo scienziato islamico Ibn al-Haytham – un testo sulla vista umana e sul suo rapporto con il mondo fisico – questo breve ma solido lavoro di Katherine McInnis è, stando alle stesse parole della regista, una “falsa traduzione” del testo originale. Costituito dalle immagini d’epoca tratte dalla rivista Life Magazine, The Two Sights ha una struttura formale apparentemente semplice che utilizza gli effetti piuttosto elementari del flicker per conferire movimento alle nature morte, approdando di volta in volta a un’analisi dialettica degli effetti percettivi generati dall’interazione tra le singole inquadrature. Probabilmente McInnis elabora il proprio immaginario estetico a partire da un classico della contemporaneità, The Realistic di Scott Stark. Ma piuttosto che rianimare gli oggetti con esuberanza, il montaggio di McInnis li espone a un destino malinconico, in linea l’ossessione esplosa nell’America degli anni Cinquanta per le immagini distaccate e neutre degli esperimenti sociali e scientifici, il cui aspetto, audace e naif al contempo, si allontanava in maniera decisiva da qualsiasi gioco di luce o effetto prospettico.
5. THE EXQUISITE CORPUS / Peter Tscherkassky (Cannes: Directors’ Fortnight; Toronto: Wavelenghts; New York: Projections)
L’avant-garde è ingiustamente accusata di prendersi troppo sul serio. In realtà questa scena produce anche film divertenti, di cui ne è un esempio emblematico il primo film dopo cinque anni di silenzio di un veterano, l’austriaco Peter Tscherkassky. Si tratta di un giocoso amalgama di immagini erotiche d’epoca che si aprono all’illusione onirica di in un passato cinematografico meno raffinato. L’umorismo di The Exquisite Corpus è, in un certo senso, intrinsecamente connesso al materiale che utilizza: volti in preda all’estasi e al piacere, approcci privi di ironia accompagnati da un tono di voce distaccato – è la classica roba soft-core trasmessa in TV a notte inoltrata, tutta pizzi neri e ambienti squallidi e trasandati. In mano a Tscherkassky, queste immagini acquistano un’atmosfera da spettacolo burlesque: l’inquadratura della ragazza morta viene eviscerata da un montaggio iperattivo – ottenuto utilizzando tecniche differenti, effetti di sovrapposizione e di re-photography – e da una magniloquenza orchestrale, per cui la stessa consistenza tattile della pellicola si dissolve sotto l’effetto della tensione sensoriale. Il film formerebbe un ottimo dittico con The Forbidden Room di Guy Maddin ed Evan Johnson che ricrea l’immaginario di un tempo andato mettendo in scena il dramma come se fosse un’esotica casa degli specchi.
4. SOMETHING BETWEEN US / Jodie Mack (New York: Projections)
All’interno della nostra classifica del 2013, Jodie Mack si è piazzata in vetta con il trionfale Let Your Light Shine. Da allora la regista ha realizzato pochi film, a ciascuno dei quali sono molto affezionato nonostante mi appaiano come la contenuta reiterazione di qualità già consolidate. Something Between Us appare come una naturale prosecuzione, nonché un vero e proprio passo in avanti all’interno della produzione sempre stimolante di questa cineasta. La scena iniziale del film, una sorta di pastorale bucolica sulle sponde di un lago, è per Mack un nuovo territorio di esplorazione, anche se l’incursione saltuaria di braccialetti elastici e di altri sgargianti gioielli interrompono bruscamente il sogno a occhi aperti e ci riportano fermamente al mondo artigianale della regista. Mack riesce a tenere insieme brillantemente questi due processi, quello naturale e quello industriale; la bigiotteria luccicante crea prismi di luce come se ruotassero nel fascio di una fonte di luce artificiale, come quando i raggi del sole penetrano la nebbia del mattino generando un arcobaleno di nuance naturali. Alla fine i due ambienti si fondono in un solo spettro di iridescenze e luci acquatiche, accompagnate dal suono crescente di campane e carillon, a loro volta raccolte in un vivace music box. Complessivamente si tratta, fino ad adesso, del film più bello di un’artista dotata di impressionanti capacità visionarie.
3. NIGHT WITHOUT DISTANCE / Lois Patiño (Locarno: Fuori concorso; Toronto: Wavelenghts; New York: Projection)
L’artista galiziano Lois Patiño è a tutti gli effetti un regista di paesaggi e, nonostante abbia solo 32 anni, uno dei migliori. Se i suoi lavori precedenti come Mountain in Shadow (2012) e Coast of Death (2013) si fondavamo per lo più sulla grandiosità e sulla bellezza innata dei soggetti ripresi, l’ultimo film, Night Without Distance, mette esplicitamente in questione il rapporto tra il paesaggio naturale e il punto di vista dello spettatore. Girato sulle montagne Gerês al confine tra Portogallo e Galizia, il film è costituito prevalentemente da una serie di languide inquadrature di corpi che si mimetizzano con gli elementi del paesaggio, “personaggi” che organizzano in silenzio losche operazioni di contrabbando. Questo è ciò che fa da sfondo allo spettro di colori che caratterizza il film realizzato da Patiño tramite il viraggio della pellicola, una tecnica piuttosto nota che qui produce una bellezza aliena: il viola brillante, il verde intenso, le sfumature del grigio e le ombre radioattive del bianco. L’obiettivo di Patiño si muove attraverso il paesaggio con estrema lentezza, in maniera a tratti impercettibile, creando una calma inquietante mentre le figure, prima indistinguibili, emergono dallo sfondo roccioso. È il caso di soffermarsi, inoltre, sulla sua capacità di identificare un gruppo ristretto di elementi estetici e di parametri formali per esplorare ognuna delle potenzialità cinematografiche racchiuse in tale spazio. Da questo punto di vista, Night Without Distance è praticamente impeccabile.
2. ENGRAM OF RETURNING / Daïchi Saïto (Toronto: Wavelengths)
L’esperienza audio-video più coinvolgente dell’anno: il corroborante viaggio lungo diciotto minuti di Saito, attraverso una distesa impervia di paesaggi sconosciuti, pone una volta per tutte il suo metodo di lavoro in diretta connessione con il suo oggetto di indagine, facendo a meno sia del contesto che di qualsiasi riferimento immediatamente comprensibile. Da dove vengono queste immagini? Come è riuscito Saito a metterle insieme in un opera piena di vitalità, nonostante il materiale utilizzato possa facilmente essere soggetto all’effetto di frammentazione dovuto all’impossibilità di rintracciare la provenienza stessa delle immagini? Piuttosto che utilizzare il metodo strutturalista per costruire le sue immagini – come in molti dei suoi lavori più recenti -, Saito fa in modo che la topografia del paesaggio mostrato reagisca organicamente agli effetti fotochimici – creati attraverso un procedimento manuale – e al re-photography. In questo modo ogni inquadratura racchiude il peso tangibile e l’intensa gamma di colori saturi creati dall’inchiostro a pigmento (ovvero ciò che, a caldo, nel mio report su Wavelenghts, avevo descritto come un uso del colore non esageratamente invasivo). Il risultato è un loco-momentum trasformato in un incubo inquietante dal sassofono di Jason Sharp, la cui tecnica di respirazione circolare genera una reazione respiratoria acusticamente percettibile, che Saïto utilizza per astrarre le qualità fisiche degli elementi geografici. Questo film gioca sulle nostre capacità cognitive elementari, rendendo obsoleto qualsiasi appiglio o riferimento al senso di realtà.
1. 88:88 / Isiah Medina (Locarno: Signs of Life; Toronto: Wavelengths; New York: Projections)
Per le sue qualità estetiche e formali, 88:88 avrebbe il diritto di occupare la prima posizione di qualunque classifica annuale di questo genere. L’atto stesso di promuovere e supportare la filosofia di questo lavoro, che offre già prova del suo stile unico ponendosi al di fuori dei confini strettamente cinematografici, rappresenta una rara occasione per prendere le difese di qualcosa di incontestabilmente innovativo – se non completamente inedito – all’interno del panorama cinematografico. Sicuramente, negli ultimi tempi, nessun film è riuscito ad animare il dibattito in campo sperimentale quanto l’opera prima di Medina, che, se volessimo tentare di classificare, potremmo descrivere come un lavoro di sessantacinque minuti che assembla tutti quei luoghi di Montreal che la famiglia e gli amici del regista considerano casa. Quello ciò che Medina ha fatto è tradurre lo stesso atto del filmare – cosa in cui, come possiamo vedere, crede fermamente – in una irrequietezza politica e cinematografica, grazie alla quale ogni inquadratura e ogni scelta di montaggio mostrano una possibilità espressiva precedentemente inesplorata. In certi casi è difficile perfino stare dietro all’invasione totalizzante di voci e immagini che esprimono le dinamiche implicate nel rapporto tra identità culturale e libertà civile racchiuse nelle fugaci richieste dei diseredati; immagini che fissano la bellezza e la banalità del quotidiano. Le innovazioni del film sono dunque strettamente legate ai suoi mezzi espressivi, ai risultati dello straordinario lavoro di intuizione di Medina. La forza dirompente e indisciplinata di 88:88 è dunque assolutamente appropriata – si tratta di uno di quei rari casi di opere inesauribili.
(testo originariamente pubblicato su Fandor; traduzione di Clio Nicastro)