«Non esiste una tecnica del film. A ognuno spetta di trovare la propria.
O si annega o si nuota. Così ci si ritrova a inventare con forza il proprio stile».
Jean Cocteau a proposito di Le sang d’un poète
Les Filles au Moyen Age è la dimostrazione che è ancora oggi è possibile fare cinema autenticamente, rivendicando la libertà d’autore come fondamento essenziale per affermare una serie di scelte tematiche legate a un estetica precisa. Il film non è solo un tentativo di mettere in luce un aspetto poco conosciuto del medioevo, l’importanza della donna e il ruolo decisivo rivestito da alcune figure femminili come Giovanna d’Arco, Clotilde principessa burgunda che convertì Clovis, suo sposo e futuro re dei Franchi al cattolicesimo o ancora Ildegarda di Bingen alla quale vengono attribuiti i primi studi sulla legge della gravità. Ciò che preme innanzitutto evocare è la necessità del film, necessità autentica di Hubert Viel, poiché un cinema autentico nasce unicamente da un bisogno personale, dall’impellenza di dover realizzare qualcosa costi quel che costi, sormontando ogni difficoltà finanziaria.
Fatta questa premessa è lecito affermare che, pur essendo al secondo lungometraggio, Hubert Viel dà prova di possedere già uno stile definito: un bianco e nero granuloso e contrastato, l’utilizzo della pellicola 16 mm (che ha sostituito il super8 del suo primo lungometraggio Artemis Coeur d’artichaut), le frequenti incursioni del narratore all’interno del film e un fascino evidente per la Storia. Nel film d’esordio si trattava di rileggere il mito di Artemide in chiave attuale ma senza rinunciare all’iconografia classica: la dea della caccia è una studentessa dell’università di Caen dove sta preparando una tesi sul ruolo della donna nel cinema di Howard Hawks ma durante una gita fuori porta appare magicamente su uno scoglio vestita di una tunica greca e munita di arco e freccia.
Naif, onirico e singolare, si riconferma Les Filles au Moyen Age, dove con una leggerezza che fa pensare al Colinot Trousse Chemise di Nina Companeez, Viel affida a cinque ragazzini il compito di rivivere e rimettere in scena il medievo.
La storicità delle fonti – attestata e riconosciuta peraltro da un medievalista – si carica di una verve inusitata e letteralmente stravagante: due sono le ragioni che spingono il regista ad allontanarsi dal realismo, la prima è – come spesso nel cinema autoprodotto – economica, l’altra formale. Contro una lunga tradizione cinematografica che ha tentato di ricreare un’epoca passata, ma soprattutto contro quel cinema americano che abusa in effetti speciali azzerando così tutta la forza evocatrice del pubblico, Viel risponde scegliendo un’estetica minimalista. Un susseguirsi ininterrotto di scenette triviali, divise in quattro capitoli e rinvigorite dalla spontaneità degli attori, che passano da un ruolo all’altro senza alcuna difficoltà e soprattutto senza perdere in credibilità.
L’innovazione è spesso provocatrice: Viel, più complice che burattinaio dei giovani interpreti, punta a un coinvolgimento genuino dello spettatore: sua non è la volontà di intenerire quanto piuttosto quella di sfidare il pubblico a imparare a guardare diversamente, attraverso il simbolo, l’accenno, la suggestione. Accostare allora l’aggettivo classico a Les Filles au Moyen Age non è un azzardarsi ad accoppiamenti incongrui dal momento che propri del mito sono gli espedienti cui fa ricorso il cinema di Hubert Viel.
Avvicinarsi di nuovo con autenticità a un’epoca storica significa anche appropriarsi del suo linguaggio specifico. È solo alla luce di un certo simbolismo medievale che la scena in cui Eufrosina versa il miele di loto raccolto in un recipiente si riveste di connotazioni erotiche. La riflessione sul linguaggio è di fondamentale importanza per il regista: se da un lato si tratta di cogliere delle sottigliezze simboliche dall’altro si declina più concretamente come ricerca sulla lingua parlata dagli attori. Qui entra in gioco la commistione tra un linguaggio forbito e la naturalezza del parlato proprio dell’età degli attori, mélange straniante da cui scaturisce la vivacità rocambolesca del film.
Tratto distintivo del cinema di Viel è la presenza di un narratore onnisciente e, se in Artemis, era la voce del regista stesso ad accompagnare, spesso in maniera intrusiva, il film, qui la narrazione – terzo aspetto, ma non ultimo per importanza, attorno al quale gravita il tema del linguaggio – è affidata alla voce fuori-campo di Michael Lonsdale, cui spetta di introdurre e contestualizzare storicamente le varie vicende.
« Le temps n’est pas une ligne droite mais ça fait plus comme des boucles » afferma Lonsdale, nonno e professore in pensione di storia medievale, accingendosi a introdurre alla nipote Les filles au moyen âge, libro magico e apologia della condizione femminile nel medievo. Questa concezione ciclica della storia segue l’andamento del film: il passaggio dal presente – a colori – al passato – in bianco e nero – è marcato dal cielo blu che vira delicatamente al grigio per poi ricolorarsi, e tingersi di inquietudine, con il ritorno a un presente dalle tonalità allarmanti: suggerito dalla presenza dell’invadente ipermercato dietro al complesso di villette a schiera, dove si svolge il prologo del film. Amara constatazione, stimolo alla presa di coscienza o denuncia? Ancora una sottigliezza simbolica, un varco tra passato e presente, ma soprattutto un epilogo aperto a una riflessione sulle problematiche del mondo contemporaneo.