Dalla fine della Seconda guerra mondiale il cinema ha dovuto confrontarsi con l’impossibilità di rappresentare la Shoah e quando non l’ha fatto, per opportunismo o superficialità, gli interventi sono sempre stati perentori e tuonanti. Dell’abiezione di Jacques Rivette e Il carrello di Kapò di Serge Daney sul film di Pontecorvo, l’opera (cinematografica e scritta) di Claude Lanzmann e il suo rifiuto incondizionato dell’immagine come testimonianza della Shoah, l’idea godardiana che «l’unico vero film sui campi di sterminio – che non è mai stato girato e mai lo sarà, poiché sarebbe intollerabile – sarebbe quello in cui si filma un campo dal punto di vista dei torturatori», sono senza ombra di dubbio pilastri attorno allo statuto dell’immagine, non solo della Shoah. Quando anche ci si è voluti posizionare a difesa delle immagini sui campi di sterminio, sono solo quelle “dai campi“ e un montaggio che le coinvolga a recuperare legittimità, mentre la possibilità finzionale viene liquidata in poche righe, quanto basta a nominare la volgarità di Chomsky, Spielberg e Benigni. È dunque possibile ricostruire cinematograficamente ex novo un campo di sterminio “in funzione”?
Saul Fia (Il figlio di Saul) dell’esordiente László Nemes (in passato assistente di Béla Tarr) risponde energicamente di sì, mostrando tutta la potenza dello stile quando viene modellato sopra la necessità di ciò che si racconta. Un film sulla Shoah fa storia a sé, non può far parte della filmografia di un autore, il quale deve allontanare la tentazione di farne il “proprio” film. Grazie a un meticoloso studio dell’imponente produzione intellettuale e di quella, purtroppo non altrettanto abbondante, testimoniale, Nemes costruisce un film «di grande rigore storico». Ogni scelta formale è piegata alla possibilità di rappresentare l’impossibilità di registrare il volto dei campi di sterminio e a quella di situarsi nella feritoia tra l’impossibilità di dire e la possibilità di parlare. Sussurrare e lasciare che la propria voce sia udibile ma non riconoscibile all’interno di un discorso che non può avere autori (malgrado tutto) è l’unico modo di fare un film sulla Shoah.
Saul Ausländer è un ebreo ungherese, deportato a Auschwitz e scelto per far parte di un Sonderkommando (Squadra Speciale), ovvero «il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri» (Levi). Durante le operazioni Saul crede (il film solleva dei dubbi attraverso le parole di un altro membro del Sonderkommando) di aver trovato il cadavere di suo figlio, lo sottrae ai forni e cerca un rabbino che lo aiuti a dargli una sepoltura dignitosa.
La mdp marca strettissimo il volto o la nuca di Saul, costringendo ciò che avanza a un “infuocato fuori fuoco” (mi si perdoni il gioco di parole) dove i vivi, i morti, i sommersi e la carne perdono i propri margini, proprio come l’inquadratura (il film è girato in 35 mm e in formato 1.33:1) che perde il proprio confine col nero adiacente. Stessa sorte tocca alle voci e alle lingue, impastate in un brusio incessante che di umano ha davvero poco. Parlare d’inferno per descrivere il ritmo e i colori di Saul Fia ci sembra davvero inopportuno, poiché non c’è analogia che regga fuori dal campo di sterminio. Chi ha potuto leggere I sommersi e i salvati riconoscerà senza indugio le parole di Levi in questo breve riepilogo delle scelte registiche di Nemes. Il fuori fuoco e il fuori campo, rigettato in campo dal “rumore di fondo”, sembrano essere il resto del totale immaginabile/inimmaginabile e dunque inassegnabile a un uomo. Non si tratta solamente di relegare il campo di sterminio all’irrappresentabilità ma di rappresentare ciò che l’internato, o meglio il musulmano vede del campo. Con Agamben:
«Se vedere la Gorgona significa vedere l’impossibilità di vedere, allora la Gorgona non nomina qualcosa che sta o avviene nel campo, una cosa che il musulmano avrebbe visto e non il sopravvissuto. Essa designa, piuttosto, l’impossibilità di vedere di chi sta nel campo, di chi, nel campo, “ha toccato il fondo”, è diventato non uomo».
Saul, dandosi la missione di restituire dignità al corpo di un figlio grazie a una sepoltura protetta dal rito ebraico, sembra voler sfuggire alla condizione di musulmano, di non uomo. Ancora una volta però sembra non essere tutto qui. Ad Auschwitz seppellire un corpo significa sottrarlo ai forni crematori e dunque a lasciare una traccia in un luogo che ha il suo fine ultimo nello sterminio della memoria. Come i membri del Sonderkommando che hanno scattato le quattro foto (nel film Saul fa parte del gruppo) proprio ad Auschwitz o chi ha seppellito diari. Riuscire o no nell’impresa non ha importanza per il singolo, quel poco che è sopravvissuto è sufficiente a scongiurare l’oblio, ma Saul Fia rinvigorisce l’invito di Levi a sospendere il giudizio sulla cosiddetta “zona grigia” dei prigionieri-funzionari. Quanto a noi e alla domanda sull’irrappresentabilità della Shoah, se è impossibile riconoscere il volto dei campi di sterminio, è indispensabile mostrarne la presenza, malgrado tutto.
Saul Fia, Ungheria 2015, 107′, in sala dal 21 gennaio (Teodora Film).