Nella primavera del 1970, Jacques Rivette girò circa trenta ore di improvvisazione con oltre tre dozzine di attori. Da questa esorbitante quantità di materiale dal finale estremamente aperto sono usciti due film, entrambi i quali riuscirono a sovvertire in modo radicale l’esperienza tradizionalmente associata alla visione cinematografica. Out 1, della durata di 760 minuti, è stato proiettato pubblicamente solo una volta (a Le Havre, il 9 e 10 settembre del 1971) e resta all’atto pratico un film invisibile e leggendario (il cui sottotitolo, non a caso, recita Noli me tangere). Spectre, che Rivette impiegò quasi un anno a tagliare dal primo film – della durata di 255 minuti, circa un terzo di Out 1 – è uscito all’inizio di quest’anno a Parigi. Durante l’intervallo tra il montaggio di Spectre e la sua uscita, Rivette ha girato e montato un terzo film, Céline et Julie vont en bateau, lungo 195 minuti, che ha avuto la sua prima a Cannes lo scorso maggio. Le differenze tra Spectre e Céline et Julie vont en bateau sono notevoli: i due sono rispettivamente il film più “pesante” e quello più “leggero” del regista, probabilmente il meno e il più accessibile dei sei film che ha oggi all’attivo. Entrambi situano chiaramente Rivette in primo piano sul fronte dell’innovazione narrativa nel cinema francese contemporaneo, mostrando una sofisticazione riguardo l’intero processo finzionale che sembra andare ben al di là dei recenti sforzi dei suoi pari. A livello narrativo, si potrebbe dire che riassumono una linea di sviluppo abbandonata da Resnais dopo L’anno scorso a Marienbad e Muriel, il tempo di un ritorno e da Godard dopo Due o tre cose che so di lei e Una storia americana.
È già degno di nota l’aver fuso molte delle preoccupazioni proprie di queste due linee di ricerca, ma ancora di più lo è il fatto che Rivette le abbia estese fino ai confini di un territorio che le mie osservazioni seguenti possono solo tentare di abbozzare.
1.
[Free Jazz di Ornette Coleman] al primo ascolto fa venire il mal d’orecchie, specialmente per chi è nuovo alla sua musica. La seconda volta che lo si sente, la sua cacofonia diminuisce e il suo complesso equilibrio di bilanciamenti e controbilanciamenti inizia a fare effetto. La terza volta, si distinguono strati su strati di configurazioni piacevoli – ritmica, melodica, contrappunto, tonale. Al quarto e quinto ascolto si sta già nuotando con lui, circa tre metri sotto, respirando la musica come fosse aria.
– Whitney Balliett, “Abstract” in Dinosaurs in the Morning
Se nella paranoia c’è qualcosa di confortante – di religioso, volendo – esiste anche l’antiparanoia, in cui niente è collegato, una condizione che la maggior parte di noi trova difficile sopportare a lungo.
– Thomas Pynchon, L’arcobaleno della gravità
Il principio organizzativo adottato da Rivette nel girare il materiale spurio di Out 1 e Spectre è la nozione di complotto (trama, cospirazione) derivato dall’Histoire des treize di Balzac, in cui tredici individui che occupano diversi settori della società francese formano un’alleanza segreta per consolidare il loro potere. Intendendo consciamente fare una critica dello zeitgeist cospirazionista del suo primo film, Paris nous appartient, Rivette utilizza questo principio per organizzare incontri e confronti tra i suoi attori, ciascuno dei quali è invitato a inventare e improvvisare il proprio personaggio in accordo con l’intrigo di fondo.
Si noti che le visioni ripetute di Spectre aiutano a chiarire non la sua “trama” bensì la sua organizzazione formale. L’analogia suggerita poco sopra tra Rivette e Coleman, tuttavia, è molto più rilevante nel senso della nozione di performance. Similmente a quanto accade nelle jam session di trenta minuti improvvisate con altri sette musicisti da Coleman, la superficie di Spectre è fatta di combinazioni, accordi e scontri emersi da tipi discordanti di recitazione. La gamma recitativa va dalle abilità puramente cinematografiche di Jean-Pierre Léaud e Juliet Berto fino alle tecniche teatrali di Françoise Fabian; dal nervosismo di Michel Lonsdale alla placidità di Jacques Doniol-Valcroze; dalla reticenza di Bulle Ogier alla loquacità di Bernadette Lafont.
Per Coleman come per Rivette, il contenuto è mantenuto al minimo e principalmente utilizzato come espediente – una piattaforma di lancio da cui far partire ogni solista in un’“affermazione” personale che solleciti una reazione negli altri. Fatta eccezione per i pochi passaggi per ensamble scritti da Coleman, non c’è un compositore dietro a Free Jazz, e di conseguenza non c’è composizione: il ruolo primario come leader di Coleman è quello di assemblare musicisti e stabilire un punto di partenza per la loro improvvisazione.
Il ruolo di Rivette in Spectre è analogo, con la cruciale differenza che lui monta e riassembla il materiale a posteriori, mettendo insieme sia gli attori che le scene e le inquadrature. E il suo montaggio lavora contro la nozione di continuità: la continuità del significato, la provincia di un auteur, è deliberatamente rifiutata – dal pubblico così come dagli attori. Di conseguenza, sorprende difficilmente che quel “Tredici” in Spectre non si riveli mai come nient’altro che una chimera. A due terzi del film, è evidente che il complotto è una speranza vana che non è mai decollata, un’idea un tempo discussa da tredici individui che a quanto pare non ha mai avuto seguito. Al di là degli sforzi di alcuni personaggi (soprattutto Lonsdale e Fabian) di tenere nascosta la sua esistenza (reale o ipotetica), e i tentativi o le minacce degli altri (Léaud, Berto, Ogier) di renderla pubblica, il “Tredici” non assume una forma riconoscibile nemmeno una volta, né sullo schermo né nei dialoghi.
Spectre inizia fingendo di raccontare quattro storie separate contemporaneamente. Osserviamo due gruppi teatrali che provano Prometeo incatenato (diretto da Lonsdale) e I sette contro Tebe (un collettivo), e vediamo Léaud e Berto, due individui solitari abbastanza folli e curiosi, ciascuno dei quali truffa sconosciuti nei bar per soldi (Léaud impersona un sordomuto, Berto generalmente inizia flirtando con le sue vittime). Per le prime trentacinque inquadrature – dieci delle quali a camera fissa e in bianco e nero, accompagnate da un brusio elettronico – Rivette stacca tra queste quattro unità autonome, senza stabilire alcuna connessione di trama. Gli unici collegamenti sono ripetizioni formali occasionali: una scena seguita da un fermo immagine; due piani in inquadrature separate di Léaud e Berto nelle loro stanze. Anche all’interno di ciascuna unità, molte inquadrature sono o “troppo lunghe” o “troppo brevi” per essere convenzionalmente associabili alla narrazione. Rivette stacca spesso nel mezzo di una frase o di un movimento, e i pezzi mancanti non sempre vengono recuperati. Per converso, un’inquadratura in cui la portinaia di Léaud gli ricorda di lasciare le chiavi finisce senza alcun motivo con lei che si allontana dalla macchina da presa per andarsi a sedere a un tavolo a scrivere. Come alcune delle inquadrature criptiche che punteggiano porzioni successive del film, tale diversione propone una narrazione supplementare senza mai portarla avanti.
Poi, quasi miracolosamente, nella trentaseiesima inquadratura, due delle quattro “trame” si incontrano: all’improvviso un membro del collettivo teatrale porge un pezzo di carta a Léaud. Su di esso è battuto a macchina quello che sembra essere un messaggio in codice che Léaud decide di decifrare insieme a un altro messaggio che riceve, la chiave offerta da un riferimento a Balzac e a “La caccia allo Snark” (la prima spiegata elegantemente da Eric Rohmer in un cammeo). E quando le deduzioni di Léaud lo conducono infine a una boutique hippy chiamata “l’Angle du hasard” la “trama” finalmente si infittisce: la boutique è di proprietà di Ogier, che scopriamo essere amico sia di Lonsdale che di Michele Moretti, un altro membro del collettivo, e tutti e tre sono membri dei sedicenti “Tredici”.
Nel frattempo Berto, il quarto filone narrativo, ha fatto alcune inconsapevoli conoscenze per conto suo. Dopo aver rubato lettere dall’appartamento di Doniol-Valcroze (un altro dei “Tredici”, insieme a sua moglie, Françoise Fabian) con l’intento di un possibile ricatto, si mette una parrucca e organizza un incontro con Fabian: un mix incongruo che ricorda Mickey Rooney contro la Maud di Rohmer. Quindi, non essendo riuscita a farci qualche soldo, si reca alla boutique per tentare lo stesso piano con Ogier. Questo secondo incontro segna la fusione di tutte le quattro “trame”, e avviene poco prima dell’intervallo. È l’unica volta in cui Berto e Léaud incrociano le proprie strade (sono gli unici due personaggi di rilievo che non si incontrano mai), e lo spettatore si aspetta di essere finalmente condotto fuori dal caos. Ma la seconda parte di Spectre, dopo aver riunito i quattro filoni, procede disgiungendoli nuovamente, e l’ora finale ci lascia nello stesso buio della prima. Infatti, la consegna del primo messaggio a Léaud è del tutto gratuita, un atto che non viene mai spiegato, e la maggior parte delle altre “connessioni” sono frutto dello stesso stratagemma. In una casa in campagna occupata variabilmente da Lafont, Lonsdale, Ogier e Moretti, Rivette fa una parodia del concetto di “significato nascosto” in modo più sottile, facendo in modo che in ogni stanza sia visibile una presenza senza alcun rapporto con la trama. Addirittura suggerisce che una stanza chiusa sia abitata da Igor, il marito scomparso di Ogier, una stanza in cui entra solo verso la fine del film. Ovviamente la digressione è una presa in giro; ma perché si trova lì? Per suggerire un complotto. E secondo le tattiche di Spectre, suggerire un complotto è sia un’assurdità che una necessità: non ci conduce da nessuna parte se non oltre nell’intreccio del film.
Il complotto, in pratica, diventa la motivazione dietro una serie di gesti “trasparenti” come spettri di azione che si snodano sopra a un vuoto. Osserviamo attori che inscenano identità e significati come farebbero dei bambini che stiano giocando, con la maggior parte dei giochi che conduce a punti morti o a stalli, alcuni esaurendosi prima di arrivare da qualsiasi parte, mentre altri creano ruoli e azioni solidi che danzano brevemente nel teatro della mente prima di dissolversi in qualcos’altro. Niente resta fisso, e tutto diventa inquietante. Investigato incessantemente da Léaud e sfruttato ciecamente da Berto, lo spettro dei “Tredici” riattiva la paranoia dei suoi supposti membri, principalmente incrementando la distanza tra di essi. Altre crisi intervengono (uno sconosciuto scappa con i soldi di un attore del collettivo; Ogier minaccia di rendere pubbliche le lettere intercettate); la paura genera paura; entrambi i gruppi teatrali si dissolvono; Ogier e Moretti sono visti per l’ultima volta mentre guidano per andare a incontrare il costantemente assente Igor; e Berto e Lèaud ritornano al loro isolamento. Ripetute inquadrature “vuote” di Place d’Italie nell’ultima bobina – un misto di tranquillità á la Ozu e terrore langhiano – rendono visibile questo crescente senso di vuoto, che alla fine si espande fino a inghiottire tutto il resto nel film.
Se la folie à deux è centrale in L’amour fou e Céline et Julie vont en bateau, la folie à deux fallita diventa gradualmente la vera essenza di Spectre. L’impossibilità di “connettersi” si rivela come parte e parcella dell’incapacità di sostenere la finzione, un fallimento che si registra principalmente nelle relazioni di Ogier e Léaud, che inizia con la reciproca attrazione e finisce nello straniamento. Di tutte le “invenzioni a due parti” in Spectre, la loro è la più ricca in oscillante tensione, e la crescente frattura è sottolineata brillantemente dalla messa in scena dei momenti nella boutique – specialmente quando sono visti in stanze comunicanti ai due lati opposti dello schermo, ciascuno attirando la nostra attenzione in direzioni diverse. Questa tensione spaziale raggiunge il suo climax nella loro ultima scena insieme, per strada, in cui Ogier forzatamente si stacca e Léaud mima la barriera invisibile tra loro spingendovisi contro con disperazione agonizzante, e infine uscendo dallo schermo in traiettoria diagonale, intonando un lamento dissonante con l’armonica.
“Non ha funzionato” confessa flebilmente nell’ultima inquadratura del film, dopo aver ripetutamente tentato di fare dondolare avanti e indietro la sua piccola torre Eiffel esattamente tredici volte. Parlando per il pubblico e gli altri attori/personaggi così come per lo stesso Rivette, sta attestando l’impossibilità di un pattern o di un significato stabili. Al livello più profondo, sta esprimendo un angoscioso agnosticismo riguardo tutta la finzione, rivolgendo uno sguardo terrorizzato alla realtà impossibile da trattare.
Macchina infernale programmata per suscitare attese narrative al fine di frustrarle, iniziare storie per contraddirle o cancellarle, Spectre espone crudelmente gli artifici della finzione cinematografica rivelando molti dei modi precisi in cui questa gioca con i nostri riflessi. Le scene di violenza che hanno luogo nella seconda parte – l’omicidio da parte di Ogier di un informatore (interpretato dal produttore del film!) e il pestaggio brutale di Berto da parte di un uomo in giacca di pelle di nome Marlon (Jean-Francois Stévenin) – sono particolarmente disturbanti in questo senso, perché rappresentano precisamente il ruolo rituale e necessario di apportare “azione”, e tuttavia le motivazioni di questi atti sono così enigmatiche che non assolvono a nessun’ altra funzione visibile.
Ancor più degli altri film di Rivette, Spectre è costruito attorno a una serie di profonde contraddizioni. Il suo soggetto apparente è uno sforzo congiunto di gruppo, ma ciò che in definitiva trasmette è entropia e isolamento. La libertà straordinaria nelle riprese è contraddetta dalla morsa aggressiva del montaggio. Si potrebbe accusare il film di fare “troppo” o “troppo poco” – un paradosso riflesso nel titolo, che suggerisce tutti i colori (spettro) e nessuno (la trasparenza di un fantasma). Senza voler supporre alcun tipo di influenza, è interessante paragonare il titolo di L’arcobaleno della gravità, un’ altra opera recente che oscilla tra forma e sua assenza, trama e caos, compulsivo desiderio di controllo del mondo e un altrettanto potente desiderio di abbandonarlo a se stesso – un romanzo, in fatti, che continua a annodare e dissolvere le sue fila con una simile duplicità di intenti e diffusione di focus.
Prima di montare Spectre, Rivette disse in un’intervista sul Le Monde di volerne fare “non una selezione della versione lunga, ma un altro film con logica autonoma: come in un puzzle o in un cruciverba, giocando meno sull’emotività e di più su rime e opposizioni, rotture o connessioni, cesure o censure”. Ma è un gioco a cui si sottomette più che giocarci, perché non offre possibilità di vittoria. Lo spettatore può porsi di fronte ad esso come si sta davanti a un tribunale – fronteggiando un’inquisizione che costantemente chiede “perché?” – o lo può guardare come si guarda la TV, e ignorare le contraddizioni come se fossero interruzioni pubblicitarie, guardando il tutto come se fosse puro spettacolo. O, altrimenti, si può restare nel mezzo di queste due possibilità, e annoiarsi di tanto in tanto. Spectre, come un kit per il fai da te, non offre una singola esperienza da veicolare, bensì semplicemente un set di materie prime. A partire dalle quali, come Léaud nel film, possiamo escogitare una quantità infinita di soluzioni. Una storia sommersa del frantumarsi e disperdersi dei Cahiers du Cinéma dopo il 1968? Un film così radicato nel silenzio come certe opere di Webern? Un’esposizione quasi sadiana di tratti che gli attori tendono a nascondere, in particolare l’insicurezza e la paura? O una lotta nell’ignoto che non cerca una destinazione predeterminata, ma soltanto l’avventura?
Spectre non è un film facile per nessuno, e nemmeno intende esserlo. Lasciando sia il suo pubblico che i suoi attori sospesi sul vuoto, si offre come un esperimento fallito che non può essere né emulato né ripetuto – ma da cui certamente ci sarà da imparare negli anni a venire. Andando più a fondo di qualsiasi altro regista prima di lui nell’autoannichilimento, Rivette si è bruciato il suolo sotto ai piedi.
2.
Per l’intero pomeriggio dorato
a nostro agio
la barca senza fretta ci ha menato,
ché con scarsa perizia
le piccole braccia i remi hanno impiegato,
e vana è la pretesa delle piccole mani
di raddrizzar la rotta di quel che va svagato.
– Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie
Fuori, il gelo, il turbine di neve accecante,
la capricciosa follia del vorticar del vento…
Dentro, del focolar la vampa rosseggiante
e dell’infanzia il nido caldo e contento.
Dalle magiche parole sei come catturata:
più non t’accorgi della tormenta scatenata.
– Al di là dello Specchio
Céline et Julie vont en bateau è come un picnic ai margini di questo terreno carbonizzato: un tè dal cappellaio matto su una tovaglia patchwork, con invitati svitati, ispirati giochi per il dopocena, e un sacco di dolci da mangiare. Se si cerca di afferrarlo guizzerà via come il Bianconiglio e si infilerà in un cunicolo nostalgico dove si mischiano sogni e memoria. Più di ogni altro film di Rivette, è un’opera sul cinema – su ciò che significa fare e guardare film. Ma, diversamente da Effetto notte, insegue questo soggetto solo per analogia e evocazione.
Apparentemente il film parla di Julie (Dominique Labourier), una bibliotecaria appassionata di magia e tarocchi, e Céline (Juliet Berto), un’illusionista che incontra per caso in un parco. L’ambientazione iniziale è Montmartre, e l’azione centrale riguarda le visite quotidiane delle due donne a una casa stregata, da cui ciascuna emerge incantata e affascinata, con una caramella in bocca e nessuna memoria di ciò che è accaduto al suo interno – fino a che non mangia la caramella, che causa l’immediato (per quanto confuso) riprodursi di un melodramma vittoriano con una ragazzina di nome Madlyn, il di lei padre vedovo Olivier (Barbet Schroeder, produttore del film), due donne intriganti di nome Camille (Bulle Ogier) e Sophie (Marie-France Pisier), e Miss Àngele, la balia di Madlyn, alternativamente interpretata da Céline e Julie.
Questo tentativo di incapsulare il punto di partenza del film in due frasi troppo affollate ne mette in luce la sua stravaganza, ma non la fluidità vivace con cui tutto ciò appare sullo schermo. Come ha indicato Rivette, la caramella gioca un ruolo analogo all’uso di Balzac in Spectre – un meccanismo narrativo disegnato per permettere un passaggio tra due mondi finzionali separati. Ma mentre i mondi separati di Spectre tendono a contraddirsi o cancellarsi reciprocamente, la doppia trama di Céline et Julie fa esattamente l’opposto: le due ragazze a Montmartre chiaramente generano la storia nella casa, esattamente come gli strani avvenimenti della casa danno vita e arricchiscono le stramberie della loro vita fuori. E se lo scetticismo verso la finzione in Spectre conduce ad azioni “trasparenti”, spettrali, in atto sopra a un vuoto, Céline et Julie è più simile a un passarsi la palla da un lato all’altro dello stesso vuoto, una palla che non rischia di cadere fintanto che ce la si rimbalza e sta in movimento.
La presenza di un altro mondo contiguo proprio al di sotto del mondo visibile è stabilita nell’inquadratura iniziale. Vediamo Julie fumare oziosamente sulla panchina di un parco, e sentiamo un rumore stridente fuori campo che sembra inizialmente minaccioso perché indefinito. L’inquadratura successiva rivela che sta disegnando un cerchio sulla terra con un piede. Tutto ciò che segue opera a favore di un’impressione collegata: il libro rosso di magia di Julie, il vento tra gli alberi, le voci di bambini che non vediamo, un gatto che balza da una panchina all’altra prima di atterrare con grazia e restare in agguato – tutto crea un’atmosfera di quiete apparente e sospensione magica in cui tutto potrebbe accadere…
A questo punto appare Céline, che indossa occhiali da sole, una sciarpa, e un velo che le esce dalla gonna. E quando Julie si alza per seguirla, ci siamo già imbarcati in un’avventura che va oltre i confini della logica quotidiana. Perché l’inseguimento non è ordinario in nessun senso – con Céline che guida Julie con fermezza, ed entrambe le ragazze che costantemente rallentano il passo rendendo il pedinamento una passeggiata di piacere. Il suono in presa diretta che punteggia il loro cammino attraverso una Montmartre molto pittoresca è occasionalmente coperto di tanto in tanto dalla musica di un pianoforte (Rouch con una spruzzata di Minnelli?). Persino l’aspetto precisamente documentaristico del loro percorso è occasionalmente sovvertito da alcuni controllati e evidenti dettagli, come la costante ricorrenza del colore rosso – e, ancora più importante, l’inizio di una serie di sdoppiamenti, come il fatto che ogni ragazza si toglie le scarpe in fasi diverse dell’inseguimento.
Lo sdoppiamento è infatti una parte essenziale della struttura del film, apparendo sia tra le due trame che tra le due ragazze. Poco dopo l’inseguimento, nella biblioteca in cui Julie lavora, troviamo lo schermo diviso tra le ragazze inconsapevolmente vicine (cosa che ricorda la scena di Lèaud e Ogier in Spectre): sullo sfondo, Céline disegna su un libro per bambini con un pennarello rosso, mentre in primo piano Julie fa dei timbri con il dito immerso nell’inchiostro rosso. Molto più tardi, il climax traumatico della storia nella casa stregata mostra Madlyn soffocata nel letto, con il segno di una mano rossa sul suo cuscino; e la riproduzione di una mano rossa è uno dei tanti oggetti segnalati nell’appartamento di Julie. Si potrebbe dire, insomma, che nel corso del film tutte e quattro le donne sono “colte con le mani nel rosso”.
Dopo la scena nella biblioteca, ritroviamo Julie al parco (stavolta i bambini sono visibili), dove canta una formula magica, chiude gli occhi e la macchina stacca su Julie in campo lungo. Quindi ritorna al suo appartamento, incontra Céline sulle scale e la accompagna dentro a farsi una doccia e medicarsi il ginocchio sanguinante (entrambe queste azioni sono poi ripetute: Julie fa una doccia, e Miss Angèle cura una ferita alla mano di Camille). Céline racconta una delle sue storie precedenti, su tigri e pigmei, e subito dopo accenna a una casa misteriosa, Julie inizia a aiutarla aggiungendo dettagli (“E le donne, erano bionde o more?” “Sia more che bionde”).
La mattina seguente, prima che Julie lasci il suo appartamento, è lei e non Céline a saltare fuori con l’indirizzo. (Ad aggiungere confusione, un’istantanea della casa compare successivamente nel bagagliaio di Julie). Similmente, è Céline che va a incontrare Gilou, il fidanzato bretone assurdamente romantico di Julie – un personaggio abbastanza patetico che deve scomparire per lasciare la strada libera a Olivier, la sua controparte fittizia, dall’analogo profilo heatchliffiano. Cambiando ruolo e vite bruscamente come fossero vestiti, ogni eroina si reca alla casa a giorni alterni, per essere ammessa – e poi, altrettanto misteriosamente, espulsa – nel mondo fittizio. Insieme alla relazione tra le due ragazze, questa esperienza ha sottotesti erotici impliciti: una sorta di stupro narrativo che può essere rimesso insieme solo in tranquillità con l’aiuto di una caramella, solitamente dalle due ragazze insieme, in frammenti che riemergono in ordine non cronologico come accade in Marienbad.
Quando succhiano le loro caramelle a casa di Julie e reagiscono ai replay del pastiche ottocentesco, le due ragazze diventano chiaramente spettatori al cinema – ridono, si spaventano, sbadigliano, meditano, e come in un sogno commentano ogni cosa che vedono (questo film nel film ha addirittura un titolo, Phantom Ladies Over Paris, che appare nei titoli). Lo schermo si trasforma in uno specchio. Le loro risate e il loro stupore si fondono con il nostro: tra film e spettatore, sonno e veglia, tra chi crea uno spettacolo e chi lo guarda inizia a prendere forma una cooperazione. Richiamata come schegge di un sogno, la trama interna richiede partecipazione per diventare leggibile, e noi assistiamo a questo atto di costruzione insieme alle ragazze.
Al cuore di questo intrigo splendidamente nebuloso ci sono Camille e Sophie, ciascuna tramante contro l’altra con caramelle avvelenate o fiori per uccidere Madlyn, e quindi diventare eleggibile a moglie di Olivier, che fece voto alla sua defunta moglie di non risposarsi fino a che la figlia fosse ancora in vita. Camille, un fiore appassito in stile Blanche DuBois, è vista mentre cade giù da una scala o appare in portali come Camilla Horn nel Faust di Murnau, pronuncia frasi folli come “Ti sto lasciando le rose per via delle loro spine” e – quando Miss Angèle toglie i fiori da camera di Madlyn – “perché questa violenza?”. Sophie, un elegante enigma che nasconde caramelle in piccole credenze, gioca con Madlyn e inspiegabilmente appare sconvolta alla vista del fiore che la piccola ha disegnato.
Ogni volta che gli eventi sono riportati alla memoria, la trama “procede” o si fa più complicata, ma non giunge ai suoi aspetti più macabri fino a che le ragazze non decidono di entrare insieme nella casa. Questa volta, il pallore degli altri personaggi è fatto di una spettrale vernice bianca – che ricorda la crema sul volto di Céline nel camerino del cabaret dove lavora – e quando Camille si taglia una mano con un calice rotto, il suo sangue è di un terrificante color blu. L’intero intrigo diventa un tableau teatrale ghiacciato, mentre Céline e Julie nel loro frivolo stato di veglia proiettano i loro giochi da bambine sui tetri avvenimenti – saltando le loro battute mentre a turno interpretano Miss Angèle e prendendo clamorosamente in giro il comportamento dei fantasmi (o parodiando il narcisismo di Olivier in uno spettacolo di mimi allo specchio); in generale, comportandosi come Gianni e Pinotto che finiscano incomprensibilmente in un racconto di Henry James.
Il confronto è inquietante e complicato come un incubo di Buñuel, ma finisce con un esorcismo. Cèline e Julie scappano dalla casa con Madlyn, modificando l’equilibrio tra le due trame; e tutte e tre, trovandosi a casa di Julie, decidono di partire per una gita in barca. Scivolando giù per un placido fiume come dei fuggitivi in un film di Renoir, incontrano le figure immobili di Olivier, Sophie e Camille che gli passano accanto su un’altra barca. Riassemblate più simmetricamente, le due fiction divergono per andare ognuna per la sua strada, e lo stacco è su Céline sulla stessa panchina nel parco, che apre gli occhi e vede Julie che si affretta. I doppi sono sdoppiati, il cerchio si chiude, e il film si chiude sullo sguardo inquisitore e il ghigno da Stregatto di un gatto misterioso.
Ancora una volta, Rivette gioca sul contrasto di differenti stili recitativi – principalmente il comportamento da cartone animato di Berto (nella sua migliore interpretazione ad oggi) e la decisione teatrale di Labourier. L’improvvisazione detta anche qui legge su buona parte della cornice d’insieme, ma è incanalata entro limiti maggiori che in Spectre, in generale il film più vicino a uno spartito jazz che non a un esperimento senza istruzioni come in Coleman.
L’ambiance è simile a una retrospettiva dei classici preferiti dai Cahiers, memorie di film sono citate come diagrammi formali delle preferenze di Rivette e dei suoi colleghi negli anni ’50 per alcuni registi. Perciò l’elaborato sdoppiamento di inquadrature e personaggi sembra in parte derivato dalla scoperta di questa struttura in Hitchcock da parte di Truffaut e Godard (nonostante si tratti di un Hitchcock privato della causalità), il rifugio nell’infanzia da Il magnifico scherzo di Hawks e la selvaggia creazione onirica da Artisti e modelle di Tashlin. Tutti riprodotti nello spirito, non alla lettera. Altri entusiasmi di quel periodo abbondano, da Mizoguchi e Rossellini a Nicholas Ray e Cocteau.
In effetti, uno degli aspetti più piacevoli di Céline et Julie è il modo in cui chiarifica e aiuta a ridefinire il cinema a cui si ispira. Una recente proiezione parigina di Gli uomini preferiscono le bionde offre un caso ideale. Rivedere questo musical degli anni ’50 dopo Céline et Julie rivela quanto persino la semplicità da cartone animato di uno dei più pomposi sforzi di Hawks possa ospitare un gioco formale di scambi tra le sue primedonne che è tutt’altro che semplice. L’implacabile realtà di Jane Russel e il puro mito di Marilyn coesistono, collidono, si connettono, comunicano, creano un contrasto, si avversano e si fondono l’uno con l’altro sotto e attraverso le tipiche convenzioni della commedia musicale. Céline et Julie, esplorando alcuni degli stessi parametri in un contesto molto diverso, fa luce sulla potenziale ricchezza di un film come questo sotto la sua facciata commerciale, scoperchiando un meraviglioso vaso di possibilità inesplorate.
Si consideri ancora la relazione tra Berto e Labourier: l’”irrealtà” e la plastica creatività della prima, e il risoluto psicodramma della seconda. Indicando le differenze, lo sdoppiamento mette in dubbio che ognuna possa realizzare il ruolo dell’altra, immediatamente creando frizioni e scintille – come nel potente (e spaccatimpani) numero di cabaret di Labourier, che presto diviene un vero e proprio assalto al pubblico (come quando Russell impersona Monroe in tribunale in Gli uomini preferiscono le bionde), simultaneamente scaricando e attestando al contempo la tensione competitiva precedentemente accumulata nella sua performance.
Tutti i film di Rivette potrebbero essere letti come varianti di un film horror: Céline et Julie vont en bateau è la sua prima commedia horror. L’ansia e la disperazione di Paris nous appartient, La Religieuse, L’amour fou e Spectre sembrano relativamente assenti, e tuttavia premono dai margini dell’inquadratura. Non abbiamo neanche qui una base privilegiata di “realtà” da opporre alle finzioni, ciascuna delle quali è altrettanto assurda quanto l’altra. Insieme con Borges, non possiamo veramente dire se si tratti di un uomo che sogna di essere una farfalla o di una farfalla che sogni di essere un uomo – anche se in entrambi i casi possiamo dire di stare sognando anche noi. È una farsa, certo – come lamenta uno spettatore del trucco di magia di Cèline, prima di essere cacciato dal cabaret – ma una farsa deliziosamente sublime. Fintanto che le fiction separate si compenetrano, possiamo stare in equilibrio precario sulla corda tesa da Rivette, e non dobbiamo preoccuparci di essere senza rete di protezione. Improvvisando assieme con gli attori, guardiamo dritto davanti a noi e ci uniamo al divertimento, cercando di dimenticare che sotto di noi si trova la terrificante consapevolezza di Spectre – la certezza terribile di una caduta senza fine.
Da Sight and Sound dell’autunno 1974. Lo ripubblico sia per celebrare il revival newyorkese di Céline et Julie vont en bateau, che inizia domani, che per spiegare l’allusione di Armond White al mio “leccare i piedi allo snobismo francese”, apparentemente per aver ascritto a questa commedia “lo charme e lo spirito abitualmente associato al piacere del cinema”, per usare le sue parole patriottiche e nient’affatto snob. – J. R.
(testo pubblicato per gentile concessione dell’autore; traduzione di Elisa Cuter)