Che cosa è un pensiero? Di che cosa è fatto? Qual è il suo luogo d’esistenza? Parrebbe una domanda semplice, eppure diverse scuole filosofiche hanno dato e continuano a dare risposte completamente diverse a questo quesito. Uno scienziato cognitivo risponderebbe che un pensiero è fatto da un insieme di processi neurofisiologici che avvengono nel nostro cervello. Un filosofo platonico direbbe invece che le forme del nostro pensare hanno una realtà indipendente e autonoma dalla storicità del nostro mondo. A partire dalla svolta kantiana – ovvero a partire da un momento nella storia dove la filosofia è diventata ricerca delle forme a priori della conoscenza umana – il pensiero è diventato in primo luogo l’attività di un essere umano. Da allora un pensiero è sempre un pensiero di qualcuno; è sempre un pensiero messo in atto da parte di un essere umano. È questa la celebre tesi del capitolo IX de Le parole e le cose di Michel Foucault: tutta la filosofia post-kantiana non è nient’altro che un’antropologia trascendentale. La filosofia non parla più del pensiero in sé, parla del pensiero dell’uomo. A partire dall’Ottocento ma poi ancora più compiutamente nel Novecento, l’orizzonte imprescindibile dell’atto di pensare è diventato quello della centralità dell’uomo (e infatti tutte le scienze per Foucault non possono che essere nel profondo scienze dell’uomo). Dunque che ne è del terreno più propriamente speculativo? Nulla, è semplicemente finito. Per le filosofie post-kantiane il pensiero non può che essere un correlato della mente finita dell’uomo.
Questa centralità imprescindibile della finitudine umana è diventato uno degli aspetti più raramente messi in discussione nelle filosofie del Novecento: dalla fenomenologia di Heidegger o di Merleau-Ponty, fino all’esistenzialismo di Sartre; da tutte le correnti del neokantismo fino all’inferenzialismo di Sellars o di Brandom, tutti sono d’accordo sul fatto che il pensiero, e dunque la filosofia, non possa esistere senza il supporto dell’uomo. Sta qui l’originalità di un pensatore atipico come Gilles Deleuze che invece ha sempre rivendicato la propria più assoluta estraneità a tutto quel lessico e quella fascinazione per la finitudine, la negatività e la caducità che invece sembrano avere dominato ogni forma di pensiero debole e di nichilismo del Novecento. Deleuze ha creduto a una filosofia autenticamente speculativa che potesse prendere congedo da quel “dominio del limite antropologico” di cui parlava Foucault. Una filosofia che in questo senso non potesse che essere disumana, ovvero che ignorasse ogni richiamo all’insuperabilità del limite della vita umana; una filosofia che fosse in rotta di collisione con l’esperienza immediata e finita dell’uomo.
Il pensiero per Deleuze non è dunque pensiero dell’uomo. La ragione è che se il pensiero dovesse essere solo dell’uomo vorrebbe dire che l’uomo ne sarebbe la causa e l’origine. La parte più inaccettabile di tutte le antropologie filosofiche è infatti quella – nel mentre ne si proclama la limitatezza – di mettere l’uomo sul piedistallo più alto. Lassù, vicino a Dio. Invece l’uomo non è causa del suo pensiero, perché dell’atto di pensare non c’è cominciamento, o per meglio dire, non c’è origine. L’idea del fondamento è infatti quella di isolare il momento inaugurale: quel punto che possa farsene responsabile – l’autore, o il padre come si dirà poi parlando della psicoanalisi – e rispondere di tutto quello che da quel pensiero ne conseguirà. Di questa idea proprietaria e responsabile non c’è traccia nel pensiero di Deleuze. Il pensiero è senza presupposti, è senza padri, è senza appigli saldi a cui potersi riferire una volta per tutte. Non c’è un soggetto del pensiero, c’è un “si pensa”, impersonale e senza padrone. Il nome di questa assoluta mancanza di origine è un punto chiave dell’itinerario filosofico di Deleuze: la si chiamerà immanenza, o – per usare un termine che fu caro anche a Lacan – reale. È da questo secondo termine, che Rocco Ronchi va a pescare in un’intervista rilasciata da Deleuze nel 1988 a vent’anni dall’uscita de L’anti-Edipo. che prende avvio questo appassionato e trascinante cantico di difesa dell’unicità deleuziana (Deleuze. Credere nel reale, Feltrinelli, pp. 137, euro 14,00). Deleuze è infatti quel filosofo che più di ogni altro ha creduto al reale di questo mondo, senza farsi incantare dalle sirene del dover-essere o della prescrizione morale. Senza illudersi dell’esistenza di un fuori o di un meta-linguaggio.
All’inizio del volume sono due le polarità che muovono la riflessione di Ronchi su Deleuze: c’è infatti la polarità “speculativa” e “impersonale” – quella che separa il pensiero dalla sua origine umana – ma c’è anche quella dell’assolutizzazione dell’esperienza, quella empirista trascendentale che vede nell’esperienza una dimensione assoluta, impossibile da trascendere o da rappresentare. L’esperienza in Deleuze non è un’insieme statico di atti determinati della realtà che devono essere “unificati” da qualcosa che provenga fuori da essa (ad esempio un soggetto che, secondo l’empirismo classico, dovrebbe organizzare questi dati). Così come non c’è un soggetto del pensiero, non vi è nemmeno un soggetto dell’esperienza. Atto in atto, divenire incessante senza punto d’origine né d’arrivo, l’assolutizzazione dell’esperienza rifiuta bergsonianamente ogni forma di determinazione, spazializzazione o staticizzazione. Non si fa esperienza di un oggetto (cosa che ri-creerebbe la dualità soggetto-oggetto) ma si è sempre dentro l’esperienza in modo intransitivo e impersonale, senza che esistano soggetti o oggetti. Questo naturalmente pone un problema rispetto al processo della determinazione – quello che divide, separandoli e identificandoli tutti gli oggetti di cui è composto il reale –: come è possibile infatti pensare che il reale sia costituito – come ci ricorda Ronchi – solo da atti e da processi immanenti e impersonali se poi ciò che abbiamo di fronte a noi è un’infinità molteplicità di enti e di oggetti definiti e separati gli uni dagli altri?
È qui che si gioca forse quella che è la partita più importante dell’itinerario filosofico deleuziano e sulla quale Ronchi ritorna in più punti del suo volume: il problema del rapporto tra l’Uno e il molteplice. Deleuze dice in Differenza e ripetizione che l’essere si dice in un solo senso di tutto ciò di cui si dice. L’essere è univoco, non può dirsi in due sensi diversi e dunque aprirsi a una contraddizione. È una tesi le cui conseguenze ontologiche sono rilevanti e che, ad esempio, sembrerebbe separare la filosofia di Deleuze dal pensiero di Lacan (a cui spesso Ronchi lo confronta in questo libro), secondo cui l’essere è invece caratterizzato da un’irriducibile equivocità (che prende il nome di significante).
Il mondo che abbiamo di fronte a noi però è formato da un’infinità di enti, tutti diversissimi tra di loro, che differiscono per forma, proprietà, quantità, qualità, modalità, deperibilità etc. Come è possibile pensare che questa molteplicità infinita di oggetti esprima la stessa unicità ontologica? Come è possibile conciliare questa molteplicità infinita degli enti con l’univocità dell’Essere? Ronchi in questo volume fa spesso riferimento alla filiazione neoplatonica del pensiero deleuziano, e a questo riguardo utilizza un termine tecnico di quella tradizione, l’infinito privativo: quell’infinito cioè che manca di un termine massimo così come di un termine minimo (in matematica si chiamerebbe un insieme infinito non ben ordinato, come quello dei numeri interi). Gli enti di questo mondo sono infiniti nel senso dell’inarrestabile proliferazione della loro finitudine. Si potrebbe dire che non cessano mai di finire: nascono, muoiono, scompaiono, e il mondo è l’eterna riproduzione della loro incessante esistenza. Tuttavia l’essere deleuziano non è la sostanza statica di questi enti (la loro ousia), né la loro infinita finitudine: è semmai al di là di ogni ente e di ogni determinazione finita. È infinito attuale, che come l’esperienza assoluta è sempre in atto: è processo in atto indifferente a ogni determinazione.
Quello che Ronchi sottolinea molto efficacemente è che a partire da queste due tipologie di infinito – quello privativo, cioè l’infinità variabilità degli enti determinati (o in altre parole, il fatto che il nostro mondo è fatto di una variabilità infinita di oggetti finiti) e quello in atto, che invece è estraneo a ogni determinazione e a ogni finitezza – vi sarebbe una differenza di natura e non solo di grado. Quello in atto non è la mera intensificazione di quello privativo: sono proprio due processi di natura completamente diversi. Eppure Ronchi ci dice anche che “l’infinità attuale dell’Essere non è altro che la molteplicità illimitata delle forme finite” (p. 18), e che il finito molteplice nella sua illimitata variabilità è espressione dell’infinito in atto. La difficoltà è allora quella di tenere insieme due tipologie di infinità che sono diverse per natura rimanendo nello stesso tempo all’interno di un’ontologia immanente ed evitando di convocare quella minima equivocità dell’essere che porterebbe la filosofia deleuziana sulle soglie di un problematico dualismo. Una pista di ricerca interessante (e che è stata sviluppata da alcuni filosofi contemporanei vicini al pensiero di Deleuze, come Reza Negarestani o come si può leggere in alcuni articoli della rivista Collapse) potrebbe essere quella di articolare la relazione tra questi due infiniti dal punto di vista matematico, dato che l’infinito privativo e l’infinito in atto sembrano riproporre il problema della relazione tra infiniti di cardinalità diversi – l’infinito dei numeri naturali e quello dei numeri reali – elaborata da Georg Cantor e conosciuta come ipotesi del continuo (che proverebbe precisamente la relazione immanente e di continuità tra queste due tipologie di infinità, diverse “per natura”).
Indipendentemente dall’impasse a cui giungerebbe o meno l’ontologia deleuziana nel trattamento del rapporto tra Uno e molteplice, il grande merito del libro di Ronchi è tuttavia quello di aver chiarito come da queste problematiche ontologiche discendano degli effetti tutt’altro che accademici. Non si sta qui parlando di una discussione di nicchia che potrebbe interessare giusto qualche filosofo di margine attardatosi a occuparsi ancora di metafisica. Non esiste il Deleuze anarchicheggiante e “politico” dei corsi di Vincennes con Guattari e quello accademico e “classico” dei libri degli anni Sessanta. L’uno si lega all’altro: il Deleuze sessantottino e il Deleuze metafisico fanno parte di un continuum coerente, disposti come sono sullo stesso piano d’immanenza. Ed è così che Ronchi sottolinea come la tesi dell’univocità dell’Essere sia a un tempo una tesi ontologica e politica dato che è stato proprio il 68 a rivolgere “uno sguardo indiscreto a questo piano di immanenza assoluta nel quale le gerarchie stabilite tra gli enti, i loro differenti gradi di partecipazione all’essere, i loro rapporti regolati da leggi immutabili (categorie) sono solo degli ‘effetti’ ottici, prodotti da dispositivi di potere che ‘striano’ il piano per renderlo governabile”. Oggi, che il 68 ha trovato i propri rinnegati, sia a destra sia a sinistra, sia in Francia sia in Italia, sarebbe bene ricordarsi di questo filosofo che solitario fino alla propria morte ha continuato a ribadire – contro tutte le opinioni correnti, che a partire dagli anni Ottanta a oggi sono solo aumentate – che quell’evento non è stato immaginario (l’anti-autoritarismo giovanilistico), né simbolico (la crisi dell’autorità paterna) come tutti vogliono farci credere: ma che ha invece visto introdursi nella storia “un reale puro”. Perché per credere ancora nonostante tutto al reale di questo mondo – e all’assenza di ogni trascendenza o come direbbe Lacan di ogni metalinguaggio – c’è bisogno di lucidità, disperazione e gioia. E forse anche dell’indifferenza disumana che solo un’ontologia dell’univocità può darci.