“Every love story is a ghost story”
David Foster Wallace
Dalla sua apertura sui toni autunnali, con una pioggia che spazza le strade di una New York della metà del Novecento – ricreata a partire dalla Cincinnati attuale – Carol si sintonizza su un romanticismo triste, malinconico e sinistro insieme, che non abbandonerà mai la narrazione, nemmeno nelle sue svolte più importanti. Siamo all’esterno di un locale lussuoso e seguiamo un uomo che di lì a poco si rivelerà un personaggio insignificante per la storia; tuttavia, in questo momento osserviamo la scena dal suo punto di vista. L’uomo riconosce la giovane Therese di spalle dall’altro lato del locale, ma non sappiamo se intuisca il legame che intrattiene con la signora insieme alla quale sta bevendo un cocktail. Al contrario, lo spettatore è pienamente consapevole del fatto che si tratti di una storia d’amore tra donne in un’epoca in cui questo era considerato fonte di scandalo.
Haynes e la sceneggiatrice Phyllis Nagy lavorano sulla materia del romanzo di Patricia Highsmith The Price of Salt (1952) confrontandosi con quello che lo spettatore sa, pensa di sapere o nota; compreso, ad esempio, il modo in cui la più matura Carol lascia un istante più del dovuto la propria mano sulla spalla di Therese prima di salutarla. La stessa scena viene ripresentata di nuovo nel corso il film, ma da punti macchina diversi, e proprio questo spostamento fa emergere la nostra scarsa conoscenza della situazione. Quasi a tradire l’impressione iniziale di un vantaggio cognitivo rispetto all’amico di Therese, ora apprendiamo il reale significato dell’appuntamento, e come sia determinante per le vite delle protagoniste.
Proprio in queste rifrazioni tra scene diverse, con un’immagine riflessa mai identica all’originale, si gioca molto del fascino e dell’inquietudine di Carol, un film che sembra farsi dominare facilmente per lo sviluppo narrativo essenziale, ma che in realtà disorienta inabissandosi nel dettaglio. L’attenzione per gli elementi di decoro rende ogni spazio scenico di Carol tridimensionale, oltre che continua fonte di sollecitazione per chi guarda e ascolta: si pensi solo ai lettering usati nei grandi magazzini, perfettamente aderenti a quelli in voga nel 1952, o al carattere tirannico della direttrice di reparto, che ben configura l’epoca di piena occupazione in cui è ambientata la storia; o, ancora, al ragazzo che distribuisce i cappelli da Babbo Natale, pronunciando sempre la stessa frase d’auguri.
Nel quadro perfetto con cui Todd Haynes dipinge la repressione e la raffinatezza della metà del secolo scorso, la protagonista Carol incontra quella che diventerà la sua amante nel reparto giocattoli di un grande magazzino. La donna vorrebbe acquistare una bambola per la figlia di quattro anni, ma Therese la convince a regalarle un trenino – un consiglio interessato, dal momento che quest’ultimo deve essere consegnato a casa, permettendo così di prolungare l’idea di un contatto con Carol. La composizione del film, peraltro, nel raccogliere dettagli e vedute, e nel suo procedere lentamente, ricorda quella di un trenino giocattolo. Ogni personaggio è al suo posto, con il proprio costume e connotazione sociale, finché il desiderio non ha la meglio e i vagoni finiscono per deragliare. Il sogno americano degli anni Cinquanta è incarnato da Carol, che abbandona i binari sicuri della rispettabilità borghese a cui sembra predisposta, date le sue maniere controllate e la sottomissione delle proprie pulsioni all’etichetta. Ed è ancora un treno il mezzo su cui Therese viaggia dopo il primo litigio con Carol, quando gli obblighi familiari sembrano minare il principio della loro relazione. Al contrario, la libertà dagli ingranaggi metaforici è rappresentata dall’automobile su cui le due donne sfrecciano nella loro fuga d’amore e che non a caso proprio negli anni Cinquanta diviene il veicolo simbolo di un’embrionale emancipazione femminile.
Il romanzo di Highsmith, che anche Chantal Akerman avrebbe voluto portare sul grande schermo, è stato adattato ponendo in primo piano rispetto al thriller la dimensione drammatica della relazione amorosa e l’ambiente con i suoi rumori di fondo. Al contempo, i dialoghi sono stati snelliti, riducendo l’uso dell’espressione “ti amo”. Il fatto che le protagoniste di questa storia d’amore siano due donne e il sottotesto sociale e politico in gioco non sono tuttavia ragioni sufficienti a spiegare la forza romanzesca di Carol, così come la rilevanza che i temi trattati possono avere per il dibattito attuale in materia di riconoscimento di diritti. Il film di Haynes non colpisce lo spettatore facendo leva sulla sua tolleranza o le sue simpatie politiche; lo fa semmai usando, esattamente come Carol con Therese, le armi della seduzione, e rinviando a un’altra sede la rielaborazione razionale di quanto visto. Se Breve incontro (1945) di David Lean è il riferimento a ragione più segnalato per Carol, le battaglie interiori vissute dalle due eroine non citano, ma piuttosto evocano, in maniera quasi inconsapevole, frammenti di Vacanze romane (William Wyler, 1953) e di L’età dell’innocenza (Martin Scorsese, 1993). Così come appena accennato è il riferimento all’omoerotismo implicito di Delitto per delitto (L’altro uomo) (1951) di Hitchcock, tratto ugualmente da un romanzo della scrittrice. Anche qui due personaggi commettono insieme una trasgressione per liberarsi delle presenze ingombranti delle loro vite, ma le analogie sembrano fermarsi a questo, dal momento che uno dei tratti caratterizzanti la relazione tra Carol e Therese è la mancanza di un elemento parassitario o manipolatore nei confronti dell’altro. Le due amanti sembrano attrarsi vicendevomente con la stessa forza, tanto che nell’incontro fisico, a lungo procrastinato, si percepisce qualcosa di fatale e ineluttabile, come la giunzione tra due pezzi i cui bordi collimano alla perfezione.
Se Carol è un personaggio dell’eccesso – una donna attraente che vuole rendersi ancora più attraente – Therese di contro è una figura della mancanza, un “angelo venuto dallo spazio”, come la definisce l’amante, che deve ancora fare esperienza del mondo. Incapace di discernere cosa sia giusto da cosa sia sbagliato, non può che seguire Carol persino nell’ordinazione al ristorante. Con la sua postura eretta e i costumi che replicano quelli di Audrey Hepburn in Cenerentola a Parigi (Stanley Donen, 1957), Therese è l’antitesi perfetta dell’ondeggiante Carol, che fuma ed espira con la stessa voluttà di Lauren Bacall. La costumista Sandy Powell si è ispirata non a caso alle pagine di Vogue degli anni Cinquanta per vestire il personaggio di Carol, e alle persone reali – nello specifico, le fotografie di Vivian Maier – per i capi di Therese. Le eroine di Carol, come ombre di dive del passato che si sfiorano fino a congiungersi, spingono ancora più avanti la natura fantasmatica dei personaggi di Todd Haynes: questi non esistono né come icone del passato che rappresentano, essendo frutto di una meticolosa ricostruzione, né come traccia del presente, dal momento che la messa in scena oscura sin nel dettaglio la propria attualità. E proprio in questa evanescenza risiede il fascino inarrivabile di creature che non possono esistere se non al cinema.