“Ho passato la mia infanzia a ripetere a me stesso: «Sono un grande artista, merito un riconoscimento». Non ho mai avuto il minimo dubbio sulla mia riuscita”.
Coscienza di se stesso come uomo e di se stesso come artista. Consapevolezza di una propria alterità, nel bene o nel male, rispetto all’uomo comune: qualcosa da esibire, senza vergogna, assecondando la propria natura. Per David Robert Jones (poi Bowie), figlio sognatore di umili origini, essere on stage, al centro dell’attenzione, e far parlare di sé è sempre stata ragione di vita, essenza della propria arte, inscindibile dall’artista. Per questo e per molti altri versi, come la curiosità per la molteplicità dei media, che lo ha portato a gettarsi a braccia aperte verso il nuovo, talora scottandosi, Bowie non invecchia mai. Il suo lascito migliore, così figlio del proprio tempo, sa anche sfidarlo, aprendosi a nuove e stimolanti riflessioni con il trascorrere degli anni. Non scatta mai il sorrisetto maligno del critico che si avvale del senno del poi e riscrive le gerarchie di chi c’è stato, con gli in e gli out del caso. Con Bowie non funziona: quando colpiva nel segno era talmente proiettato in avanti da risultare irraggiungibile. Quando nel 1977 propone un album come Low, che fa leva su brani strumentali e su un uso inconsueto di tastiere kraut, quando nella metà dello stesso decennio si apre al soul con Young Americans o quando nei Novanta insegue il sound dei Nine Inch Nails di Trent Reznor in Outside, Bowie va incontro agli insulti e agli sguardi perplessi con il petto in fuori, si nutre della confusione generata, certo che il tempo gli darà ragione. Con lo stesso spirito della copertina-choc di The Man Who Sold the World – look efebico e make-up in bella vista – nel lontano e ancora puritano 1970.
Il camaleonte, il Duca Bianco, il trasformista. Major Tom, Ziggy Stardust, Halloween Jack, Nathan Adler. Sono molti i termini altisonanti che Bowie si è assegnato o che gli hanno affibbiato, senza contare quelli meno carini di certa ottusa critica italica, che non gli ha mai perdonato l’astuzia commerciale e l’intollerabile iconoclastia (con un sottofondo di omofobia che qui da noi non fa mai difetto). Ma la virtù che in pochi hanno evidenziato in Bowie è una merce molto rara, dentro e fuori dallo show biz: l’umiltà. Insieme all’insegnamento sulla diversità, o meglio sul coraggio di pensare diverso dalla norma, quello dell’umiltà è uno dei maggiori lasciti del Duca Bianco. La lezione di chi ha fatto la gavetta, ha preso schiaffi, rifiuti e sfottò prima di conquistare faticosamente una credibilità e scalare sino alla vetta. Senza dimenticare i propri maestri – lo testimoniano le molte cover – anzi tendendo loro la mano nel momento del bisogno (Iggy e Lou), ricercando sempre l’intento collaborativo e mettendosi al servizio del prossimo senza paura di rimettere così in discussione tutto quanto, il proprio passato e il proprio futuro. Mai come a fianco di Bowie hanno potuto brillare musicisti, sessionman, producer o sassofonisti sconosciuti, come il Donny McCaslin dell’ultimo e stupendo Blackstar. Già, Blackstar, l’atto conclusivo. Un album criptico, esoterico, pregno di presagi apocalittici che ora, sapendo, risultano molto più comprensibili. Ma sarebbe riduttivo associarlo solo e soltanto a un passo d’addio: ogni risvolto dell’arte di Bowie riserva almeno un paio di chiavi di lettura e di libere interpretazioni, proprio come capita con quell’altro David, Lynch, con cui si formò un inevitabile sodalizio alieno (l’“Uomo che Cadde sulla Terra” che incontra il “James Stewart venuto da Marte”). Lynch fa di Bowie uno dei tanti investigatori FBI scomparsi che provano a decifrare i segreti di Twin Peaks (Fuoco cammina con me), e gli regala un’immagine in movimento destinata a rimanere: la strada infinita che apre e chiude il loop di Strade perdute, sulle note di I’m Deranged.
Ma il rapporto, conflittuale e proficuo, tra Bowie e il cinema ha origine molto prima, proprio negli astri a cui David guarda con insistenza nei primi anni di carriera. Il Duca riprende 2001 di Stanley Kubrick e lo tramuta nella Space Oddity di Major Tom, intercettando il nesso invisibile tra fantascienza e psichedelia. Un successo che lo segnerà e su cui Bowie insisterà, astutamente, infilando una serie di hit sci-fi (Life on Mars?, Starman, Moonage Daydream) che preparano il terreno al suo debutto da protagonista in un lungometraggio nel ruolo di un alieno. L’uomo che cadde sulla Terra è ricco di intuizioni e di mancanze, sregolato come solo il cinema di Nicolas Roeg (Performance) sapeva essere, e contribuisce ad alimentare il mito dell’androgino che viene dallo spazio, confondendolo sempre più con lo Ziggy Stardust che D. A. Pennebaker seppe immortalare in uno dei suoi essenziali documentari rock. Dopo lo sfortunato e dimenticato Gigolò di David Hemmings – dalle parti di Cabaret di Bob Fosse, con l’ultima interpretazione della Dietrich – Bowie si allontana dal cinema per tornare a farvi visita negli anni Ottanta. Specie dopo il successo di Let’s Dance, una delle molte rinascite della fenice londinese, che lo ripropone, dopo aver incantato i critici con la trilogia berlinese in compagnia di Brian Eno, Maestro del Pop, del colore, del ballo, dello svago edonista che caratterizza il decennio di Reagan. Una ritrovata forza vitale che Léos Carax saprà fare sua dedicando a Modern Love una sequenza di Rosso sangue divenuta culto, insieme così lontana e così vicina al milieu originario del brano. Preziosi e iconici i cameo del Duca: se stesso “berlinese” in Christiane F, in veste di vampiro decaduto in Miriam si sveglia a mezzanotte, film-chiave per il videoclip e per l’estetica Ottanta, colorato e pop nel gioiosamente acefalo Absolute Beginners di Julien Temple. In lui Oshima Nagisa vede l’opposto che attrae inesorabilmente verso di sé, il frutto proibito. Il Jack Celliers di Furyo, oggetto delle attenzioni represse del capitano Yonoi, è ancora una volta oggetto alieno, elemento di disturbo che attrae e repelle nel più marziale dei contesti, quello dell’inflessibile militarismo nipponico.
Poi un lungo distacco fino al succitato incontro con Lynch, che conduce indirettamente a quello con Christopher Nolan, che pensa a lui per vestire i panni di Nikola Tesla in The Prestige. Anche se altrettanto memorabile sarà l’arbitro della tenzone in passerella dell’irresistibile Zoolander. Perché ancora una volta Bowie è tutto questo: Diavolo e Acquasanta, simbolo bisex e nazi-provocatore, poeta dalla sensibilità aliena e sagace uomo d’affari. Dove Jim Morrison amava scioccare facendosi arrestare per atti osceni in luogo pubblico, Bowie ha sempre lavorato sui media, ha sempre osservato il lascito e la narrazione correlata a ogni gesto, più che il semplice lasciarsi andare al presente. Recitare il Padre Nostro in mondovisione, come il nostro fece per il tributo a Freddie Mercury, forse non è inferiore come impatto ai gesti di rottura che riempiono le gallerie del rock maledetto.
Perché David Bowie significa sfidare l’ignoto, pensare in maniera differente da come la tradizione ha insegnato e indicato. Reinventarsi e, così, poter nuovamente inventare. E in questo senso anche la sua morte assume una valenza teleologica ben precisa, come lo era l’uscita di scena di Ziggy: un epilogo che aggiunge valore a ciò che lo ha preceduto per impartire un insegnamento a chi verrà. Un evento impossibile da testimoniare ex post, ma che il veggente prova a testimoniare ex ante. Perché cos’altro è Blackstar se non un tentativo estremo di sondare kubrickianamente l’insondabile, di prepararsi all’ultimo contatto? E che cosa sono costellazioni, universi che collassano e civiltà aliene – che rivivono nel sincretico videoclip del brano omonimo – se non tentativi di fornire risposte a domande eterne sull’ignoto? Anche dal letto di morte di Lazarus Bowie ha provato a mettersi in scena, a usare immagine e suono per bucare una parete impenetrabile. Un’ultima space oddity consegnataci perché potessimo osservare il nostro destino e provare a cambiarlo o interpretarlo, ingannando il tempo che ci avvicina inesorabile alla Stella Nera.