Che sia l’improvvisa scomparsa del proprio amato (Illusion) o di una madre (Nobody Knows), i film di Koreeda prendono spesso il via da un’inattesa scossa nella vita placida e semplice dei suoi protagonisti. In Little Sister essa si manifesta con toni leggeri e pacifici, ma non per questo è meno sconvolgente. L’ingresso di Suzu, fragile e dolce sorellina acquisita, nelle vite di Sachi, Yoshino e Chika porta con sé l’inquietudine di un passato genitoriale burrascoso e carico di rancore, il peso di una famiglia distrutta da un amore “proibito”, inaccettabile. È attorno al binomio prossimità-distanza che il film si focalizza: distanza di sangue, ma prossimità nei piccoli gesti quotidiani, nelle faccende domestiche, nella complicità femminile e negli spazi condivisi. Distanza che si avverte nella timidezza di Suzu, titubante nel condividere la propria intimità con le sorelle; prossimità data dal fatto che i membri della famiglia sono gli ultimi confidenti scelti dagli adolescenti, segno che, in verità, le quattro sono un’unità familiare compiuta.
Al macrotema si affiancano altri spunti, riflessioni che vanno dalla maturazione all’ingresso all’età adulta, passando per l’amore, la ricerca dell’equilibrio affettivo, il lutto, il destino, il perdono e il valore della pazienza (di cui il rito di produzione del liquore di prugne ne è il simbolo palese). La realtà e i rituali che la compongono sono descritti con la cura di un entomologo, dimostrando un talento autoriale da osservatore innato, capace di gestire con abilità sia gli spazi che la caratterizzazione dei personaggi, raramente così ben tratteggiati e affascinanti. Sachi, ad esempio, la maggiore delle sorelle e vera protagonista del film: rigida, eppure dedita nel cercare di aiutare e sorreggere il prossimo, sia nell’ambito lavorativo (è infermiera) che in quello familiare. Una persona sensibile, ma allo stesso tempo terrorizzata dalle emozioni, viste sovente come fonte di dolori, delusioni e instabilità. La giovanissima Suzu ne è, invece, il suo opposto complementare: una ragazza segnata dal dolore, eppure straripante di curiosità, ingenuità e voglia di vivere tipiche della sua età.
Koreeda è elegante, meditativo e preciso, anche quando procede per ellissi pericolosamente sbrigative (la decisione di Suzu dell’andare a vivere a Kamakura), eppure, è come se avesse perso un po’ il fuoco del suo discorso, aprendo riflessioni senza mai chiuderle davvero. Lo stile minimale, ideale prosecuzione dello splendido Like Father, Like Son, attento al realismo e ai gesti, circoscrive con precisa delicatezza i legami e le interiorità dei personaggi, rimandando inevitabilmente a uno dei maestri dichiarati, Yasujiro Ozu, già omaggiato chiaramente nel dramma familiare Still Walking. Si entra in punta di piedi nelle vite di quattro donne, con un pudore invidiabile, ma ciò che manca al film è proprio il discorso, un luogo d’arrivo che vada oltre l’elogio alla bellezza della vita, all’importanza dei legami familiari e delle loro radici più profonde.
Little Sister è un lavoro corale che vorrebbe puntare sulla delicatezza ma che più volte suona poco deciso, scadendo talvolta in dialoghi telefonati e situazioni eccessivamente melodrammatiche (complice probabilmente “Umimachi's Diary”, la graphic novel a cui il film si ispira). Manca, insomma, lo scarto necessario per elevarlo dalla media del film nipponico contemporaneo. Finisce per essere un'opera dolce, gentile, estremamente educata. A tal punto che queste vicende di piccole donne e piccole cose, sebbene inizialmente intriganti, scivolano pian piano verso la noia.