Se il ruolo cruciale del colpo di scena conclusivo di The Visit costringe ogni analisi del film a rivelarne fin da subito il finale è forse anche perché il nuovo lavoro del regista americano chiarisce in modo definitivo la funzione di questo elemento nell’insieme del suo cinema. The Visit, non a caso, rappresenta per molti aspetti un ritorno a temi e stilemi del suo celebre esordio sulla ribalta internazionale (Il sesto senso), in primo luogo proprio per il recupero del famigerato “Shyamalan twist”, abbandonato invece nei suoi lavori più recenti (The Last Airbender, After Earth).
Nonostante il significato complessivo del twist non sia così semplice da esplicitare, un elemento era senz’altro evidente fin dal film del ’99: pur coevo a “puzzle film” come I soliti sospetti, Fight Club e Memento, Il sesto senso usava il ribaltamento finale del punto di vista in modo molto differente. Non sorprende, quindi, che lo spunto narrativo di The Visit sia quanto di più semplice e lineare possibile, in netta controtendenza rispetto alle cosiddette complex narrative di tanto cinema e di tanta serialità televisiva contemporanei. Una ragazza quindicenne e il fratello tredicenne, recentemente abbandonati dal padre fuggito con un’altra donna, decidono di passare una settimana con i nonni che non hanno mai conosciuto. La rottura tra la madre e i genitori, avvenuta quindici anni prima, risale a un litigio per motivazioni e in circostanze mai del tutto chiarite. Convinta della necessità di una riconciliazione, la figlia decide di girare un documentario amatoriale sulla propria famiglia per ottenere il (video) “perdono” dei nonni verso la madre scappata di casa. Nel corso della prevista settimana di vacanza presso la loro isolata casa di campagna, gli anziani si comportano tuttavia in un modo sempre più disturbante, fino a rivelarsi come due impostori: si tratta infatti di una coppia di malati di mente fuggiti da un ospedale psichiatrico, responsabili tanto dell’omicidio dei veri nonni quanto, in precedenza, di quello dei propri figli.
Date la semplicità del pretesto narrativo, la presenza quasi esclusiva di due coppie speculari di personaggi, l’unità di spazio e tempo e l’appartenenza al sotto-genere del found footage horror, lo spettatore non può che cominciare molto presto ad aspettarsi un colpo di scena finale sulla falsariga di quello appena descritto. L’intero film, infatti, ruota esplicitamente attorno ai vari tentativi dei due giovani protagonisti di negare l’evidenza, ovverosia che ci sia qualcosa di strano e molto probabilmente pericoloso nei due anziani, che appaiono immediatamente come due figure inquietanti. Il vero significato del twist di The Visit non consiste, quindi, né nella sorpresa improvvisa né nello svelamento di una verità nascosta. A differenza dei film di Singer, Nolan e Fincher citati sopra, la vera ragione del colpo di scena non va insomma cercato nella rivelazione di un elemento della diegesi tenuto nascosto allo spettatore e/o ad alcuni personaggi. In quei casi, in effetti, il twist mette in luce precisamente gli inganni orditi (consciamente o inconsciamente) da uno dei personaggi allo scopo di modificare la propria situazione (è questo il tema – fin troppo – esplicito di tutti i film di Nolan, da The Prestige a The Dark Knight, da Inception a Interstellar). Nel caso di Shyamalan, invece, si ha a che fare con una serie di autoinganni originati al contrario dal desiderio di uno o più personaggi di lasciar la situazione del tutto immutata. La rivelazione più profonda non riguarda perciò quello che sta dietro l’inganno, bensì il fatto che esso non sia che apparente: l’inganno non è che la manifestazione (l’unica manifestazione possibile) del desiderio inconscio del soggetto di perseverare nel proprio stato. “Inganno” e “verità” non solo si sostengono a vicenda, come ad esempio in Nolan: in Shyamalan essi coincidono perfettamente. L’“inganno” non è che l’espressione, ovviamente metaforica, di una verità che il soggetto non riesce ad affrontare (cioè accettare) direttamente, e realizza in pieno la propria funzione solamente fino a quando rimane nascosto.
Qual è quindi l'evidenza che i due fratelli di The Visit si rifiutano di accettare, al di là del livello letterale rappresentato dall’impostura dei due finti nonni? È semplicemente il fatto che né i nonni, né il padre, né la stessa madre possono più svolgere il ruolo di garanti della loro identità. È insomma l’inevitabile necessità di diventare “grandi”, e cioè indipendenti dalla presenza reale o immaginaria di un sostegno esterno. Com’è evidente anche nello scarno riassunto riportato sopra, tutto il film prende le mosse dal desiderio della figlia di trovare nella riconciliazione con i nonni un risarcimento alla ferita provocata dall’abbandono del padre (trauma che riguarda anche il fratello e, in parte, la stessa madre). La scoperta che questo nuovo sostegno alla propria identità non può più arrivare a causa della morte dei nonni non è quindi che un’anticipazione (e una metafora) di due ulteriori, e più sostanziali, rivelazioni: innanzitutto, la comprensione che l’abbandono del padre non può che essere accettato come perdita cui non c’è possibile rimedio; infine, nell’ultimissima scena del film, la rivelazione da parte della madre che il perdono dei nonni era in realtà già stato da loro da sempre accordato: era stata la madre stessa ad averlo ostinatamente rifiutato per tutti quegli anni. Questa successione di (non) rivelazioni comporta necessariamente anche la comprensione da parte dei due ragazzi che non c’è riconoscimento possibile da parte dell’Altro in grado di restituire loro il fondamento perduto della propria identità. Esattamente all’opposto, come la madre spiega alla figlia nell’ultima sequenza, è soltanto il loro perdono verso il padre a poter permettere il superamento del trauma e il ritorno all’accettazione del processo inevitabile della propria crescita.
Rispetto ai film precedenti di Shyamalan, tutti questi elementi trovano una forma in parte nuova nell’utilizzo in The Visit degli stilemi del found footage horror. Il linguaggio di questo sotto-genere, tuttavia, è totalmente integrato tanto nel tessuto di questo specifico lavoro quanto nella poetica complessiva del regista. Un altro confronto, questa volta con film come The Blair Witch Project, Diary of the Dead, Cloverfield o Paranormal Activity, lo dimostra immediatamente. Diversamente da questi, Shyamalan sposta l’attenzione dal gioco sul fuori campo, tipico di questo sottogenere, verso il cuore del suo caratteristico stile, fondato piuttosto sulla dialettica tra visibile e invisibile all’interno dell’inquadratura. In particolare, The Visit porta forse all’estremo la tensione del suo cinema tra ciò che viene detto e mostrato, da un lato, e quello sembra continuamente sfuggire da quelle parole e quelle immagini, dall’altro.
Come sottolineato in modo plateale dalle due sequenze che fanno da cornice, il tratto distintivo del film non si trova perciò né nelle scene orrifiche né nei (forse ancora più numerosi) siparietti comici, bensì nei monologhi recitati dai vari personaggi in fronte alla camera digitale. Al contrario dei film citati poco fa, gli ingredienti tipici del found footage horror sono così reinscritti in The Visit in un quadro la cui tonalità dominante sembra determinata da un registro “confessionale”, a metà tra la seduta psicoanalitica e quella sorta di “intervista intima” usata continuamente dai reality show (genere, non a caso, menzionato in una scena chiave). Al di sotto, o, meglio, dentro lo spettacolo dell’horror e del comico, emerge così il discorso dell’inconscio sviluppato attraverso la lunga serie di “confessioni” che articolano la struttura del film: a quella estremamente reticente della madre, nella primissima scena, seguono quelle in cui i due fratelli “confessano” la propria immaginaria responsabilità (cioè il proprio senso di colpa) per la fuga del padre; la vera e propria confessione della finta nonna dell’omicidio dei propri figli (attraverso il racconto di un immaginario rapimento alieno); infine, la “confessione” questa volta sincera e completa della madre, con la quale, e soltanto grazie alla quale, il film si può finalmente chiudere. All’opposto dei finti documentari al centro di The Blair Witch Project o Diary of the Dead, queste sequenze non hanno nulla a che fare con il genere del mockumentary e del suo frequentissimo utilizzo dell’espediente dell’intervista “giornalistica”: i monologhi di The Visit non presentano mai né la spiegazione di quanto accade nel film da parte di qualche “esperto”, né l’espressione consapevole delle reazioni dei protagonisti di fronte agli avvenimenti. In modo radicalmente diverso, essi ci forniscono invece la manifestazione di emozioni inconsce che i vari personaggi non possono che esprimere attraverso un racconto in codice.
Come nelle scene cruciali di Unbreakable e The Village, il colpo di scena di The Visit consiste perciò solo parzialmente nella scoperta degli intrighi organizzati da qualche personaggio ai danni di altri, scoperta che ne rappresenta al massimo il momento preliminare. Il segreto svelato dal twist risiede in realtà nella rivelazione dell’auto-inganno da parte dei personaggi, in quella riscrittura della propria storia attraverso la quale essi raccontano, innanzitutto a se stessi, il loro desiderio. Una sorta di “confessione”, insomma, in cui la parola si fa, freudianamente quanto bazinianamente, voce, corpo e immagine. Parole e immagini che, in questo modo, manifestano il senso al di là di ogni comunicazione, diventando così cinema.