A fronte della rete di echi e rimandi che il suo cinema intesse da cinquant'anni, Marco Bellocchio ha sempre cercato di tracciare, attraverso i film, la linea zigzagante del proprio divenire. Questa postura è premessa necessaria a comprendere Sangue del mio sangue, opera a un tempo personale e politica, per molti versi ludico collettore di corrispondenze, per altri sintesi inattesa di carriera.
La narrazione bellocchiana ha preso il via dalla follia matricida del giovane Ale, proseguendo nel dispiegare in immagini e generi la ribellione dell'individuo a un ambiente determinato, totale e assoggettante: la famiglia, il collegio religioso, la caserma, la provincia italiana. Nel desiderio di un superamento, nella consapevolezza che, arrabbiati, non si può restare tutta la vita, nascevano negli anni Ottanta i personaggi di Salto nel vuoto e Gli occhi, la bocca: da una parte il giudice Ponticelli, isolato nelle le penombre del proprio appartamento, incapace di reagire all'ansia di libertà della sorella, cui è legato da un affetto feroce, se non con il suicidio; dall'altra, l'attore in declino Giovanni Pallidissimi, che nel suicidio del gemello Pippo intravedeva il sentimento di una propria morte simbolica, e nella riconciliazione con la famiglia – "le madri ritornano, ucciderle è inutile", dichiarò Bellocchio – tentava un personale e malinconico riscatto, variamente intrapreso dai personaggi eroici dei film a cavallo tra anni Novanta e Duemila.
L'ipotesi di trasformazione che si frappone tra l'individuo e il suo futuro è tutta giocata sulla parte mancante di sé, su quel doppio che i personaggi possono accogliere o rifiutare. Due sponde di un fiume, l'una affacciata sulla propria, complementare, alterità. Proprio come in una delle scene madri di Sangue del mio sangue, raccontata sulle rive del Trebbia in pieno Seicento italiano: il giovane soldato Federico Mai bussa al convento di Bobbio per presenziare al processo che l'Inquisizione intenta a suor Benedetta, presunta responsabile del patto con Satana che ha innamorato e poi indotto al suicidio il chierico gemello di Federico. Si attende da Benedetta una confessione che la inchiodi, ma la confessione non arriva. Cominciano le prove ottuse e irrisolte dell'Inquisizione, ma a non vedere ciò che è più vero del vero sono i religiosi in congresso intorno alla donna, e con loro Federico (Sangue del mio sangue è anche un gender movie, dove il femminile accoglie, il maschile fa cieca resistenza). Per questo, seduto davanti al fiume, egli piange la visione del fratello che si annega tra le acque: perché, come il film con leggerezza suggerisce (gli abiti talari dell'uno cadono in testa all'altro all'apertura di un armadio), le vestigia simboliche del suicida sono il riflesso di un desiderio da attraversare e abitare per chi sopravvive. Non a caso anche Federico cede alla bellezza di Benedetta (in un curioso uso del fuori campo che ospita l'ardore indicibile di un bacio) ma non saprà salvarla dalla nicchia dove la ragazza viene murata viva, destinato a sua volta ai voti, proprio come il fratello.
Un nuovo salto nel tempo, e la struttura del film d'improvviso si scinde: la contemporaneità tecnologica incombe sulla provincia italiana, ma per il conte Basta, patrono e padrino di Bobbio, il principio vampiresco isolazionista è l'unico a proteggere e preservare il borgo. Così per la vita degli abitanti, turbati dall'arrivo di un gogoliano ispettore regionale, tutto si gioca sulla corsa agli interessi personali, sul gusto farsesco di vestire l'ipocrisia delle proprie scissioni (emblematico il personaggio-lampo di Filippo Timi, pazzo e sciancato senza essere alcuno dei due). "Bobbio è il mondo", afferma il conte: l'assioma più non tiene, il presente preme sul passato, e certo lo spaccato grottesco di un'Italia instupidita e maneggiona, incapace di farsi carico di quest'urgenza, si cristallizza nell'immagine autistica del piccolo bar dove il circo del paese ride, canta e danza senza sosta. È un patetico girone infernale in attesa di essere liberato, su cui lo sguardo del conte si posa inerme, per poi passare oltre.
Terzo e ultimo movimento: i due tempi del film aderiscono in un intenso, fulmineo, montaggio parallelo. Duemila: un desiderio ancora pulsante si riaffaccia agli occhi del conte nelle sembianze di una giovane cameriera, il pedinamento notturno che ne deriva suggellerà la fine della sua non-vita (o non-morte?) e dell'immobilità di Bobbio. È una sequenza quasi danzata – lucidissimo, al solito, il montaggio di Francesca Calvelli – dove la dinamica si cerca dentro l'inquadratura, quasi a liberarla da tutto ciò che, con il movimento di macchina, potrebbe soffocarne la dimensione più inconscia. Seicento: al convento di Bobbio Federico Mai ritorna cardinale, carico del carisma degli anni e della sua conversione. Dopo un quarto di secolo, Benedetta verrà finalmente liberata. La soggettiva della donna attraverso l'unica fessura della nicchia in cui è rinchiusa coincide con la parte mancante di chi vuole guardare dentro, pensando di salvare, inconsapevole della propria condanna. Se il principio evangelico di questo gioco di ruoli ancora non bastasse, Bellocchio spiazza la costante laica del proprio percorso mettendo in scena una vera e propria resurrezione. Dalla sua prigione Benedetta esce più bella che mai, nel suo passo da novella Gradiva non si incarnano soltanto le ragioni del desiderio e della vita, ma la vittoria di chi cerca e accoglie quella discontinuità – esistenziale, politica, estetica – desiderando la quale cinema e immagine possono ancora rilanciare il proprio senso.
Per chi non ci crede, il bar di Bobbio è sempre aperto.
SANGUE DEL MIO SANGUE, regia di Marco Bellocchio, Italia/Francia/Svizzera, 2015, 107'