Immaginiamo di strappare Emma Bovary all'imboccatura della modernizzazione capitalista in cui si trova nel romanzo flaubertiano, e di catapultarla al capo opposto, ingolfandola così nella decomposizione avanzata della civiltà post-industriale. Con chi indulgerebbe nelle sue scappatelle? Molto probabilmente, con un attorucolo di fiction televisive.
È con qualcuno del genere che Anna, come Emma, cerca di imbastire una fuga dalla propria deprimente realtà. Certo, si tratta di una realtà radicalmente diversa. Non abbiamo più di fronte, come in Madame Bovary, la nascita del soggetto moderno, che è nato morto perché proprio ciò che lo fa nascere (la tecnica) gli preclude la possibilità dell'esperienza. Siamo invece, in Per amor vostro, nel bel mezzo dell'eterna postmodernità napoletana, anteriore da sempre a qualsiasi modernità (ci torneremo). Il soggetto è allora, letteralmente, una “cosa da niente”, come Anna si sente fin da bambina, asfissiata da una vita strapiena di microcompromessi in cui lei stessa ha accettato di rinchiudersi per ignavia. Accetta un lavoro di bassa manovalanza in uno studio televisivo, rimpiazzando (e gettando sul lastrico) il suo poco accomodante maestro di una vita, per mantenere i tre figli, all'ombra di un marito impegnato in traffici poco trasparenti, e col quale è sempre più in rotta. Ogni giorno apre la finestra, vede addensarsi minacciosissime nuvole e la richiude: la vita sua e dell'ambiente che la circonda è insomma la ben nota catastrofe sociale permanente che stagna immobile, incapace di portare la catastrofe fino in fondo e di trasformarla in palingenesi grazie alla meschina complicità diffusa per cui tutti sanno e accettano di essere “cosa da niente” senza però portare questa consapevolezza alle proprie estreme conseguenze, rimanendo cioè aggrappati con le unghie e con i denti alla propria singolarità solo per paura, anche quando si è i primi a essere convinti della propria insignificanza.
Per dimenticare l'incessante disagio di una vita resa invivibile da questa micidiale mediocrità, dall'essere troppo “cosa da niente” e allo stesso tempo non abbastanza, Anna si rifugia nell'amorazzo con l'attorucolo. Proprio attraversando questa parentesi, tuttavia, Anna entrerà in una sorta di imbuto narrativo: tutto ciò che la circonda (personaggi, situazioni etc.) comincerà a convergere e annodarsi intorno alla dimensione soggettiva che lei stessa è la prima a non volere affrontare. In questo modo si troverà costretta a operare quel taglio netto cui ha sempre cercato di sottrarsi, o meglio (e più letteralmente), a fare quel salto nel vuoto che per anni ha avuto paura di compiere, incapace tanto di sentirsi “qualcosa”, quanto di essere “cosa da niente” fino in fondo.
Autore del lungometraggio d'esordio italiano più folgorante degli ultimi decenni (Giro di lune tra terra e mare, 1997), e di conseguenza totalmente emarginato, da allora in poi, dai produttori e da chiunque avrebbe potuto dargli l'opportunità di realizzare l'opera seconda, Giuseppe Gaudino torna finalmente alla regia di finzione dopo un gran numero di lavori di altro genere (corti, documentari etc.). Già diciotto anni fa aveva dimostrato che in Italia pochissimi potevano vantare non solo un arsenale estetico ricco come il suo, ma anche una consapevolezza altettanto grande della sua quanto al perché utilizzare certe forme piuttosto che altre. Per amor vostro non fa che ribadirlo. Non è più il tempo di Giro di lune tra terra e mare: la vera sfida, oggi, consiste meno nel realizzare un'opera sfacciatamente visionaria come quella, e più nell'infiltrarsi nello stesso terreno in cui regna il piattume di fiction e affini, in modo da scippare loro l'identificazione mimetica, e rivoltare quest'ultima come un guanto. Bisogna insomma giocare di fino – e per questo il film ricorre a più riprese al Quartetto Cetra, difficilmente superabili maestri di sovversione “entrista” negli ingranaggi dell'audiovisivo nazionale degli albori. Bisogna appoggiarsi sui rassicuranti volti mainstream di Valeria Golino e di Alessandro Giannini, imboccare vie che sembrano quelle dell'identificazione narrativa tradizionale, erodendole però con una misuratissima, millimetrica “nevrosi soggettiva”, legando al personaggio in modo sottilmente difforme i movimenti e le angolazioni della macchina da presa, smarginando il racconto a furia di accelerazioni di montaggio impressioniste e distensioni inopinate.
Questa “nevrosi borghese” di cui si fa portavoce la cinepresa non ha, però, l'ultima parola. Non potrebbe esserlo, visto che Anna è, in più di un senso (e non solo grazie ai soldi del marito usuraio), solo abusivamente una piccolo-borghese. Lo è, infatti, solo nella misura in cui accetta il gioco del sapersi “cosa da niente” senza esserlo fino in fondo – ma fin dall'inizio del film questa attitudine è una sorta di “piano in pendenza” che conduce alla propria estremizzazione, alla propria iperbolizzazione, insomma al proprio superamento. In altre parole, il nichilismo piccolo-borghese deve afferrarsi in quanto nichilismo; l'invivibilità del quotidiano deve afferrarsi terremotando le forme lisce dell'identificazione mimetica; la nullità stessa del soggetto deve afferrarsi facendo mutare la nevrosi soggettiva piccolo-borghese, nella quale la nullità del soggetto è solo avvertita, in una forma nella quale essa trova un'adeguata cristallizzazione figurativa slegata dal sentire individuale del soggetto.
È per questo che Per amor vostro, come la stessa Anna, fa un salto al di là dei propri limiti, fonda la propria struttura nel passaggio dal bianco-e-nero della nevrosi soggettiva piccolo-borghese al colore di squarci onirico-visionari in cui si ammassano i detriti di una tradizione folk partenopea totalmente inventata (anche grazie all'indispensabile apporto della colonna sonora degli Epsilon Indi). In questi squarci, Anna non è più un personaggio, ma l'oggetto di canzoni che già durante i titoli di testa delineano esaurientemente i suoi vizi e le sue virtù, o un'improbabile madonna pentita dipinta su un muro, o un'ancora più improbabile divinità orfica che si muove a passo uno. Insomma: non è più un soggetto “verosimile”, ma parte di una tradizione (inesistente) che la precede, e che non ha altra funzione che quella di incasellarla in partenza in un ambito che trascende la ristrettezza del suo punto di vista soggettivo (sull'ancoraggio ottico del quale, invece, gioca abilmente la stragrande maggioranza delle scelte stilistiche della parte in bianco e nero).
I soliti ingenui, naturalmente, storceranno il naso e grideranno al kitsch. Ma Per amor vostro non sarebbe stato coerente se avesse smussato lo stridore tra i due livelli su cui sceglie di strutturarsi. Senza questo stridore, la portata del salto non sarebbe stata sufficientemente ampia. Anna salta per diventare la “cosa da niente” che è sempre stata fin dall'inizio, poiché l'unica chance a sua disposizione per esistere davvero ed essere davvero “qualcosa” è tagliare nel vivo il reticolato inestricabile di piccole meschinità che forma il suo ambiente, comprese le proprie. Il film di Gaudino, parimenti, salta dalla nevrosi soggettiva piccolo-borghese a una premodernità etnico-popolare, di nuovo, totalmente inventata, che da un lato è un delirante sbocco utopico-proiettivo delle impasse di quella nevrosi, ma dall'altro fin dai titoli di testa ha fissato per intero le coordinate entro cui quella nevrosi si trova a muoversi dall'inizio alla fine. È un salto al di là dell'imprigionarsi del soggetto in se stesso, ma in direzione di un livello estetico che ha tuttavia accompagnato quell'imprigionarsi nevrotico fin dall'inizio, e che dunque è e rimane al di qua di esso. Il salto stesso di Anna, del resto, è la ripetizione di un salto effettuato da bambina. Ne consegue che tanto il personaggio quanto lo stile usato per dargli corpo sono informati da questa temporalità paradossalmente circolare, per cui l'unica vera via d'uscita dal loro vicolo cieco consiste nell'assumere in misura ancora maggiore la “cecità” di quel vicolo cieco.
Viene in mente un Raya Martin (naturalmente quello dei primi film, prima che piombasse in un inspiegabile e ormai lunghissimo passaggio a vuoto), o più in generale il cinema filippino contemporaneo, senza dubbio una delle cinematografie che a livello mondiale, oggi, si contraddistinguono per il loro uso particolarmente consapevole degli strumenti estetici a loro disposizione. Un uso, il loro, capace di ingaggiare un serrato, ostile corpo a corpo con l'estetica postmoderna, a cui essi oppongono (si pensi, per limitarci al solo Martin, a Short Film About The Indio Nacional, o Independencia) un arcaismo deliberatamente posticcio, come ad affermare “noi siamo postmoderni da secoli, perché l'ingresso nella Storia cosí come l'Occidente l'ha concepita, e che nel nostro caso è consistito nel subire il colonialismo prima e l'imperialismo poi, ha coinciso cosí con l'estromissione dalla Storia stessa rendendoci eternamente orfani di un modernismo vero e proprio”. Gaudino, piazzandosi nella palude di una modernità in permanente e stagnante decomposizione, addita come sbocco utopico un arcaismo figurativo inventato di sana pianta, per ricordarci che se via d'uscita da quell'impasse c'è, essa è inseparabilmente prima e dopo di essa, prima e dopo una modernità incarognita in nevrosi, prima e dopo il soggetto.