Ostia, 1995. La borgata, le droghe, lo sballo, la violenza, la piccola criminalità: al suo terzo lungometraggio in più di un trentennio, Claudio Caligari (scomparso il 26 maggio, a montaggio del film terminato) non cambia la fenomenologia del suo oggetto di indagine. Questa volta i “ragazzi di vita” di pasoliniana memoria su cui il regista posa il proprio sguardo sono Cesare e Vittorio (Luca Marinelli e Alessandro Borghi), coppia di tossicodipendenti il cui unico scopo di vita è di “svoltare” la giornata, all’interno di una routine di soddisfacimento dei propri bisogni primari, tra impasticcamenti, tirate di coca e acid techno, coadiuvata da microspaccio e truffe per procurarsi la roba per l’indomani, pronti a ricominciare tutto daccapo.
È proprio in questo rapporto di vera e propria fratellanza tra Cesare e Vittorio che si manifesta la maggior novità del film all’interno del cinema di Caligari. Che il regista sapesse ben entrare nei meccanismi quotidiani e nelle dinamiche psicologiche ricorrenti di chi ha vissuto la deflagrante esperienza della tossicodipendenza si sapeva già da Amore tossico, ma in Non essere cattivo Caligari abbandona la presa diretta e riesce a costruire una profondità drammaturgica nel rapporto tra Cesare e Vittorio di fortissima tensione emotiva, dall’afflato quasi epico, romantico e antiromantico al tempo stesso. Una sorta di titanismo muove i due personaggi, che condividono lo stesso destino di squallore e disagio sociale, ma allo stesso tempo sono affamati di vita e nutrono un sentimento di rivalsa nei confronti di un ambiente collassato che cerca di annichilirli.
In seguito ad un’allucinazione visiva da abuso di stupefacenti, Vittorio si rende conto di essere stufo della propria esistenza e, grazie anche al supporto di una giovane madre, Linda (Roberta Mattei), decide di mettere la testa a posto iniziando a lavorare come operaio nei vari cantieri edili, tentando anche di trovare un lavoro per Cesare, con la disillusa consapevolezza di non poter frenarne le dissolutezze (suscitando inoltre lo scherno dei vecchi compagni di (s)ventura, poiché “col lavoro onesto non ci svolti”).
Cesare, infatti, è il vero antieroe tragico, colui che non riesce a svincolarsi dalla propria dolorosa dimensione, che guarda il mare e soffre per non essere mai salito su uno yatch, lasciandosi andare alla fantasia di poter levare l’ancora e prendere il largo verso un orizzonte impossibile (“A Ce' non guardà il mare che poi te vengono i pensieri”, gli dirà il Brutto durante una consegna di eroina). Il monito a “non essere cattivo”, scritto sulla maglietta dell’orsacchiotto regalato alla propria nipotina che ora giace in una tomba, sancirà per Cesare l’inequivocabile punto di non ritorno verso una sorte già segnata, l’ultimo segmento di una spirale di violenza che lo condurrà alla morte, nel tentativo disperato di perseguire l’illusione di un futuro.
Ciò che rimane, in mezzo all’arsura di quell’hinterland abbandonato a se stesso, nell'estremo protendersi in cui la Città Eterna si fa non-luogo, è la purezza che soggiace nella tenerezza dei rapporti umani; la speranza di un nuovo Cesare, e della scintilla di innocenza che scaturisce dagli occhi di un bimbo. Insieme alla dolorosa assenza di un regista che ha rappresentato una voce unica e originale all'interno del panorama cinematografico contemporaneo e che troppo presto ci ha lasciato, con una manciata di opere anch'esse pure come diamanti grezzi, affilate e struggenti.