Questioni di partenza. Esistono modi di pensare il cinema che sono modi di pensare. Il che è vero in più di un senso, ma diventa evidente e ovvio quando si prova a scrivere dell'opera di un certo cineasta il cui senso risulta non tanto da logiche narrative o riconoscibili strutture di segni, ma da un insieme più o meno indefinibile di fattori che con i codici della lingua hanno poco o nulla a che fare. La scrittura critica diventa allora una specie di sonda, un esperimento modernista volto a scandagliare lo spazio profondo dell'immagine: a tradurre l'intraducibile. I paragrafi che seguono raggruppano, annodano e raffrontano considerazioni alle quali sono arrivato da strade diverse da quando mi è stato chiesto di scrivere di Right Now, Wrong Then, vincitore del Pardo d'oro a Locarno. E come spesso capita nel cinema di Hong Sang-soo, sono le situazioni, e le interazioni tra i singoli elementi a determinare gli esiti del discorso.

Right Now, Wrong Then ripropone la struttura binaria tipica della cinematografia di Hong, qui nella sua versione più dirompente: quella che giustappone due varianti della stessa storia. Come già accadeva in Virgin Stripped Bare By Her Bachelors, le medesime situazioni si ripetono da una metà all'altra del film, con minime variazioni tonali il cui accumulo, tuttavia, determina esiti narrativi percettibilmente diversi. Nella prima variante, il regista Ham Chun-su approccia la giovane pittrice Yoon Hee-jung mentre, a causa di un errore di calendario, si trova in un cittadina di provincia con un giorno di anticipo. I due spendono la giornata insieme. Chun-su cortegga la ragazza, ma le nasconde il fatto di essere sposato. Quando lei lo viene a scoprire, le cose  finiscono male. Nella seconda variante gli accenti e i toni del corteggiamento sono leggermente diversi; ma, soprattutto, Chun-su è onesto con Hee-jung, e le cose tra i due finiscono, se non bene, senz'altro meglio. 

In un recente intervento pubblicato sulla London Review of Books, Fredric Jameson scrive di viaggi nel tempo. Prendendo le mosse da uno studio del 2013 di David Wittenberg, il filosofo suggerisce che il viaggio del tempo serve al genere fantascientifico come schema, figura narrativa in risposta all'impasse di certi meccanismi di rappresentazione che Jameson, riassumendo un po' brutalmente, attribuisce all'avvento del capitalismo moderno. Ecco quindi che il viaggio del tempo diventa, secondo lo studioso, il modo di immaginare un altrove, il modo cioè di dare forma e figura a un impulso utopico altrimenti represso dall'alienazione del soggetto moderno.

Il rimando jamesoniano può apparire forzato: ma non lo è. Il cinema di Hong si muove lungo una traiettoria che ci porta vicino a questioni di rappresentazione simili, credo, a quelle poste dallo studioso marxista. L'opera di Hong illumina questioni ben diverse dal perimetro Antonioni-Rohmer che domina la vulgata critica sul cineasta sud-coreano. La mia tesi è questa: Hong è un autore di fantascienza, la cui opera va letta come un esperimento di cinema speculativo sospeso tra due piani ermeneutici.

I personaggi di Hong – e Right Now, Wrong Then non fa eccezione – sono quasi sempre colti in un momento in transito. Chun-su, come si è detto, si ritrova a dover ammazzare la giornata a Suwon per un errore di calendario. In Night & Day, il pittore Seong-nam si trova a Parigi in seguito a un'improvvisa fuga dalla Corea. In On The Occasion of Remembering the Turning Gate, l'attore Gyung-soo segue l'ispirazione del momento e visita un amico di gioventù a Chuncheong. L'elenco potrebbe continuare. La transitorietà è un elemento drammaturgico forte, le cui radici affondano nella fiaba, anche se qui vale piuttosto ricordare una certa tradizione del dramma borghese: penso alla Signora del mare di Ibsen e al suo marinaio venuto dal nulla a turbare – come nel Teorema pasoliniano – equilibri sociali e sessuali consolidati. Lì come qui, la mobilità slega i personaggi dal loro passato, e riapre orizzonti di possibilità non condizionati dal dettato sociale e dalla memoria privata.

Ma la transitorietà non si limita ai personaggi. Lo stesso Hong rivendica con forza la dimensione 'aperta' del suo metodo di lavoro. In un'intervista rilasciata un paio di mesi fa, il regista si discosta esplicitamente da un approccio 'intenzionale' alla regia. A guidarlo nelle scelte iniziali, dichiara, sono gli attori come persone, e non come personaggi in potenza: e poi i luoghi, intesi come luoghi reali, piuttosto che precise e premeditate intenzioni drammaturgiche. La struttura dei suoi film prende forma man mano che le riprese procedono, con scene e dialoghi scritti e presentati agli attori giorno per giorno. Anche l'insistita ricorrenza degli stessi tipi professionali e umani nei ruoli principali (tutto un campionario di registi scrittori artisti e attori) risponde alla stessa logica. Hong ribadisce infatti di non avere alcun interesse particolare in queste figure – di non volere cioè rappresentare alcunché tramite la loro caratterizzazione. Si tratta semplicemente dei tipi umani che conosce meglio e che – perciò – sono per lui più direttamente perspicui, senza che egli debba mettere in campo uno sforzo creativo o simbolico o intenzionale eccetera per renderli significativi in un modo o nell'altro. A determinare gli spunti narrativi sono piuttosto le situazioni e le interazioni casuali che questi personaggi, la cui caratterizzazione per Hong è tanto familiare da essere trasparente, incorrono nel momento in cui si 'slegano' dal vissuto e dal passato che li condiziona.

Esiste insomma una dimensione 'reattiva' e perfino 'passiva' nel lavoro artistico di Hong che, paradossalmente, mi fa pensare agli sforzi paralleli di uno sceneggiatore come Charlie Kaufman. Dico paradossalmente perché, come scrittore, Kaufman non può semplicemente 'rispondere' a ciò che gli si presenta dinanzi: nella scrittura niente è dato se non la scrittura stessa: inclusi quei cliché e stereotipi dell'intenzione da cui, ansiosamente, entrambi gli autori provano a distaccarsi.

È qui che mi sembra emergere il primo dei due piani ermeneutici – diciamo modernista – cui accennavo prima. Tanto Hong quanto Kaufman si misurano con l'urgenza di svincolarsi dal passato, dal già detto, dal già vissuto: sia in ciò che raccontano sia in come lo raccontano. L'ambizione – modernista, appunto – è quella di circoscrivere, nel e col linguaggio, quel grumo profondo dell'essere che invera l'esistenza e la apre al rinnovamento, al di là della catena necessaria e lineare del vivere. Entrambi gli autori provano, insomma, a distaccarsi dall'idea che il senso profondo della vita derivi dall'accumularsi del vivere, perché questo accumularsi determina condizionamenti tanto formali (cliché, appunto) quanto esistenziali (la chiusura di un orizzonte di possibilità e rinnovamento) che, a entrambi, appaiono manifestamente intollerabili.

Questo aspetto esistenziale del problema fa perno sull'incontro con l'altro. In Right Now, Wrong Then, la possibilità di 'riscattare' il presente e aprire un rinnovamento profondo per il protagonista si lega alla possibilità un sincero incontro romantico. Chun-su segue Hee-Jung all'interno dello storico palazzo Hwaseong Haeng-gung, ed è lì – nella cornice del passato, si potrebbe dire – che prova ad approcciarla. La prima volta, tuttavia, gli va male.

E qui torniamo a Jameson. Nella sua analisi dei viaggi del tempo, lo studioso identifica una fase nell'evoluzione del genere in cui la fantascienza – fatti propri i dettami della relatività einsteniana – arriva alla realizzazione che, a viaggiare indietro nel tempo, non si incontra altri che se stessi. Spinto all'estremo, il tentativo di raffigurare la fuga dal tempo lineare e dai suoi condizionamenti si risolve in «una prigione solipsistica, priva non solo di altre persone ma di alterità in quanto tale» (3).

Nella prima metà di Right Now, Wrong Then, la spinta di Chun-su verso Hee-jung è viziata dall'ambiguità, dal tentativo di mascherare le proprie intenzioni e il proprio passato. Non a caso, in un ottimo per quanto datato saggio critico (4), Maurizio Pettinengo parlava di dimensione 'abortiva' del cinema di Hong. La fuga verso il presente dei personaggi honghiani, la loro insistita transitorietà, sarebbe il segno di un'aspirazione fallimentare, volta a evadere la memoria e i suoi condizionamenti (personali e collettivi) attraverso un'apertura e un movimento fasulli, privi di vera profondità. L'incontro con l'altro, in linea di massima, non si dà. Le rivolte e i tentativi di rinnovamento dei protagonisti si risolvono in un 'falso movimento' privo di prospettiva.

Pettinengo crede insomma che, nel suo abbracciare una dimensione reattiva e non intenzionale, Hong sia finora sfuggito sì ai condizionamenti 'lineari' del passato, ma solo per ricadere in un 'presente reale' in cui nessuna salvezza (e cioè nessun autentico incontro con l'altro) è possibile, salvo quella definitiva e solipsistica del suicidio.

Eppure Right Now, Wrong Then sembra muoversi (appena, ma si muove) in un'altra direzione. Perché l'incontro con l'altro, nella seconda variante, si dà: e perché i termini in cui avviene lasciano intravedere una via d'uscita dall'impasse descritto finora. Chun-su è più onesto nella seconda metà del film. Certo, in preda allo sbandamento etilico finisce col denudarsi dinanzi all'amica poetessa di Hee-jung, e certo, alcuni dei personaggi secondari, la cui vita egli aveva 'toccato' nella prima metà, restano ora ai margini, ma, nel complesso, non c'è dubbio che l'esito più speranzoso della seconda variante si debba a una scelta di sincerità. In sottofinale, Chun-su prende commiato da Hee-jung e riparte per Seoul, lasciando la ragazza in una sala cinematografica dove sta per proiettarsi uno dei suoi film. Ma è la delicata purezza dell'ultima sequenza a dettare il tono: finito il film, la giovane pittrice esce dalla sala e sotto un cielo dolce di neve si incammina verso casa.

Scelta di sincerità, quindi. Per arrivarci, Hong racconta di aver montato la prima variante della storia, aver mostrato le scene agli attori, e aver quindi chiesto loro di modificare leggermente le interpretazioni per la seconda. All'interprete di Chun-su pare abbia detto: «può darsi che tu abbia un'esperienza simile a quella del primo incontro, ma questa volta hai un sentimento più forte, questa volta vuoi essere una brava persona per questa ragazza».

L'indicazione di Hong al suo attore non usa, come termine di paragone, il passato fittizio del personaggio, ma l'esperienza reale dell'attore posto di fronte alla propria interpretazione. Come a dire: se pure è vero, come suggeriva Pettinengo, che questi personaggi sono costretti ad agire in un presente privo di prospettiva, è altrettanto vero che gli attori che li interpretano non lo sono.

Di più: gli attori e gli spettatori non lo sono. In una conversazione, Anthony McKibbin mi fa notare al tal proposito che i film di Hong 'sgocciolano' costantemente l'uno nell'altro, compongono nella memoria dello spettatore cinefilo un orizzonte unico in cui situazioni, stilemi, tropi (strade coperte di neve, ubriacature, tavoli apparecchiati) e financo personaggi si rincorrono da un film all'altro. Un rete di parallelismi e rimandi intesse l'intera opera di Hong e si ricompone solo nella (nostra) esperienza di visione.

L'impressione finale è che esista insomma un piano ulteriore, in cui la crisi della rappresentazione trova una parziale chiusura. Se è vero che il cinema di Hong registra (modernamente) tanto l'urgenza di liberarsi dalla linearità del tempo, quanto il suo fallimento, è anche vero che esso dispiega (postmodernamente) uno spazio orizzontale, in cui sono il testo stesso e la nostra esperienza di spettatori a darsi come orizzonte di riferimento. La memoria che dà senso al racconto, qui, è la nostra.

La riuscita (relativa e contingente, beninteso) dell'incontro con l'altro in Right Now, Wrong Then indica insomma che la partita della rappresentazione si gioca su un piano diverso. Il nocciolo della questione non è più tanto ontologico ed esistenziale (la non rappresentabilità del senso profondo del vivere etc), quanto interpretativo. Se la crisi della modernità è insolubile, se ogni profondità lineare è persa e ciò che resta non è che un presente orizzontale, e per di più ricombinabile in infinite variazioni, allora tutto ciò che il cinema può fare è provare a indicare a noi spettatori un percorso di onestà nell'infinito circuito di variazioni e rimandi. Provare cioè a immaginare un'alterità autentica: come la fantascienza.

[Poscritto] Jameson, temo, non sarebbe d'accordo. Perché Hong, per aprire questo spiraglio di speranza, è pur sempre costretto a mettere da parte il dato politico. I suoi intellettuali artisti scrittori (e Chun-su non fa eccezione) si muovono in uno spazio astratto, al di là di ogni struttura economica e sociale, protetti e isolati dalla 'trasparenza' della loro non-caratterizzazione. Tutto il resto è fuori campo.

 

NOTE

(1) Jameson, Fredric, In Hyperspace, «London Review of Books», 10 settembre 2015, pp. 17-22.

(2) Cfr. la dichiarazione di Hong in Small, Christopher, The Day The Snow Fell, «Notebook», 18 agosto 2015, https://mubi.com/notebook/posts/an-interview-with-hong-sang-soo: «I don't want to work with my strong intention, because if you work with a strong intention I think what you do is you repeat what you've heard and what you've seen in the past. It's not new. It's not interesting. So what I try to do is observe and respond to what is given. What is given is more interesting than what I craft by my intentions. Intentions always dangerous for me, always stereotypical—not interesting at all».

(3) Jameson, F., In Hyperspace, cit., p. 20, trad. mia.

(4) Pettinengo, Maurizio, Una quieta disperazione, «Cineforum», 454, pp. 54-63.

(5) Small, C., The Day The Snow Fell, cit.