Come è nato il progetto di questo film e che tipo di gestazione ha avuto?
In realtà, il film è nato senza una vera e propria consapevolezza di ciò che stavamo facendo, come un piccolo esperimento di drammaturgia, di elaborazione finzionale. Nello specifico, è nato su richiesta del professore Raffaele Pinto che mi ha invitato a visitare e filmare la sua classe, una sorta di slancio narcisista che abbiamo accolto volentieri. A partire da questo spunto, con estrema libertà, abbiamo intrapreso un percorso di scoperta nel quale un giorno giravamo e l'altro montavamo il materiale. Credo sia difficile comprendere il senso di questo progetto senza prendere in considerazione tale alternanza. Di norma il cinema è visto come un processo di compartimentazione, fatto di scrittura, riprese, montaggio, dove le riprese costituiscono un processo "chiuso" a partire dalla sceneggiatura e il montaggio un altro processo "chiuso" che si elabora sul girato. Io, invece, sono a favore di un cinema che si nutre di se stesso, scevro di idee preconcette, un "cinema della rivelazione", come diceva Rossellini. Un cinema che non viene fatto per illustrare una tesi quanto, piuttosto, un errare allo scopo di conoscere, di scoprire. Tanto che io stesso sono stato più volte sorpreso dal materiale che ci trovavamo davanti agli occhi e che non potevamo in alcun modo prevedere di avere in anticipo, fornito con tanta generosità dalle persone che abbiamo filmato. Il contenuto di queste rivelazioni è stato anche il filo che ci ha guidato in sede di montaggio, ciò che mi ha indicato i personaggi e le storie da seguire, la composizione complessiva dell'opera.
E la struttura complessiva del film a che punto si è rivelata?
Ho affrontato il lavoro con una mentalità molto aperta anche rispetto alla sua possibile destinazione: poteva diventare un cortometraggio, una serie di cortometraggi, un'installazione, un progetto culturale, una telenovela a sfondo letterario… Un processo molto libero, perché non prevedeva alcuna mediazione da parte di istituzioni o produttori. In questo senso, è un film nato sulla base delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, da un lato perché sarebbe stato impossibile catturare l'intimità di attori non professionisti con una troupe vasta e le vecchie macchine da presa di un tempo, grosse, ingombranti; e dall'altra perché ho potuto lavorare a casa mia, con la stessa libertà di uno scrittore che può tornare su quanto ha scritto in precedenza, modificarlo, ricominciare, ripartire da un altro punto. Anche quando si lavora al fianco di collaboratori fidati, con i quali c'è grande confidenza, stima, si è nella necessità di far fruttare il lavoro dell'altro. Se invece lavori in autonomia il tempo non ha limiti e puoi speculare, sperimentare, e hai il diritto a essere improduttivo. Ecco, il film è nato con l'idea di non seguire il tempo della produttività e con una troupe ridottissima, in alcuni casi composta da me solamente, altre volte da due, tre persone, io, il mio assistente e Amanda (Villavieja, ndr), che si è occupata del suono, una componente fondamentale, in particolare in un film come questo, incentrato sul potere della parola.
Anche se non si tratta di un film a tesi, ci sono parecchi temi che lo attraversano. Erano chiari nella sua mente fin dall'inizio o anche in questo caso si è trattato di un processo di scoperta?
Si è trattato di una conseguenza di quanto detto finora. Diciamo che abbiamo creato le condizioni affinché certi temi affiorassero, emergessero nel corso delle discussioni tra il professore e le sue studentesse, o con la moglie, per poi evidenziare al montaggio le situazioni che più interessanti, in grado di dialogare tra loro. Ma questo è avvenuto a posteriori, non c'è niente di imposto. L'idea originaria era abbastanza folle: quando Raffaele mi ha parlato di questa Accademia delle Muse e della volontà di cambiare il mondo a partire da questo compromesso con la poesia e l'amore, ho pensato che fosse… folle! Ma la convinzione delle sue parole, riguardo la verità della poesia e lo statuto della Musa, è stata una grande rivelazione. L'idea si è tramutata in una verità assoluta. Come diceva Hitchcock: "Più inverosimile è il soggetto, più verosimile dev'essere la forma della sua messa in scena".
Trovo molto bella la rilevanza data alla trasmissione del sapere e la necessità di uno scambio dialettico. Date queste premesse, però, quello che compie il professore è un atto di seduzione nei confronti della sue allieve, qualcosa di piuttosto ambiguo…
Certo. Il professore intrattiene un rapporto di potere con le sue studentesse e per tutto il film sono stato molto attento a ricercare questa relazione all'interno dei loro dialoghi. A volte Mireia è più potente del professore, altre è il professore a dominare Manuela; ci sono relazioni diverse ed eccessi di potere differenti, come accade in genere nella società – perché quest'Accademia non è altro che un microcosmo sociale regolato dalle stesse relazioni di potere vigenti all'esterno. E il ruolo del professore è ambiguo perché lui è il demiurgo, come il cineasta che provoca una certa situazione. Ecco perché era importante, dal mio punto di vista, che non ci fossero solo le sequenze di dialogo tra il professore e le sue allieve ma anche quelle che fanno da controcampo, tra lui e la moglie, a casa loro, dove è lui ad essere messo in discussione e le opposizioni che muove la moglie al suo metodo mettono in dubbio le sue modalità di insegnamento. C'è un cambio di prospettiva, una pluralità di punti di vista che evidenziano la relatività morale dei personaggi, così non arriviamo mai a sapere chi è veramente questo professore.
Si tratta di un film sul potere della parola, dove il linguaggio è uno strumento di scoperta ma può trasformarsi anche in una gabbia. Il professore dice, a un certo punto, "siamo prigionieri del linguaggio", e mi sembra che lui sia più prigioniero di tutti. È il demiurgo, come dice lei, ma è anche quello che non può sfuggire alla strumentalizzazione del linguaggio che egli stesso mette in atto.
Nel processo dialettico, le allieve tendono a esautorarlo, ad appropriarsi dell'Accademia. E la stessa cosa è successa anche a me come regista: la mia creatura cinematografica ha preso il potere, anche se l'ideatore del dispositivo non può perdere mai del tutto l'autorità… Da un film all'altro, credo proprio di essere andato sempre alla ricerca di dispositivi che mi concedessero perdere questa autorità, questo potere, al fine di essere "trasceso" dal film: assistere a ciò che giravo come in attesa di una rivelazione.
Il ruolo della moglie del professore è molto interessante: la sua è sempre la voce della ragione ma rimane come costretta in un angolo, fino alla sequenza finale.
Tutti i personaggi compiono un movimento, all'interno del film. "Motion is emotion", come si dice, e mi piace molto l'idea che questa donna sia sempre vista seduta nella stanza con il professore, nella loro casa, ma che alla fine sia l'unica a uscire allo scoperto. Per me, come regista, è molto importante non giudicare i personaggi, perché non sono un moralista e mi piace confrontarmi apertamente con le persone e con i loro atti, non limitarmi a dire questo è buono e questo non lo è.
Nel film c'è una breve sequenza girata in Sardegna: cosa vi ha portato lì?
Tutto nasce da Manuela, una delle Muse, che in un'occasione si era espressa con grande entusiasmo riguardo il canto dei pastori sardi, una dichiarazione d'amore che era quasi l'evocazione di un'Arcadia che sopravvive in Sardegna. Così abbiamo deciso di andarci, ponendo poi la sequenza all'interno della costruzione del film in una sorta di corrispondenza con l'altro viaggio, successivo, a Napoli: c'è la Musa buona che va in Paradiso e la Musa cattiva che va all'Inferno! La Sardegna è il Paradiso, Napoli l'Inferno! E, all'interno della sequenza, c'è il momento in cui il pastore parla del padre che scriveva sonetti, il più digressivo in assoluto, ma ho pensato che in un film sul potere della parola fosse importante includere anche questo segmento sulle tradizioni poetiche ancestrali, sulla trasmissione orale della poesia. Ha aggiunto un ulteriore punto di vista all'interno di una riflessione che presenta la parola in tante vesti, quella di internet, quella detta, quella cantata, e così via. Fino all'ultima sequenza, con la parola senza suono, pura immagine.
La parola può essere utilizzata in maniera manipolativa, servire da schermo. Non solo per avvicinare ma anche per tenere a distanza, dunque. Mi chiedo se possano essere viste in quest'ottica le tante superfici trasparenti o riflettenti che ha utilizzato nel film, come le finestre, le vetrine o il parabrezza dell'auto.
Inizialmente mi sono servito di questi schermi per passare dallo spazio pubblico allo spazio privato. Ho pensato che dopo aver filmato l'aula, sarei stato meno invasivo se avessi ripreso gli interni dall'esterno. Avevo già lavorato sul concetto dell'immagine virtuale, del riflesso e dell'ombra, nei miei film precedenti e dato che in questo non abbiamo descrizioni visive dello spazio, ho pensato che fosse importante darlo a conoscere per via del suono e del riflesso. Ma la scelta credo che abbia a che vedere anche con il rapporto, che mi interessa moltissimo, tra la figura e lo spazio circostante, tra la parola intima, la voce interiore, e il movimento della vita. Tendo sempre a pensare che, nel cinema, la figura sia la finzione, e tutto ciò che le sta intorno il documentario, così cerco di esplorare sempre più a fondo di questo confronto, questa relazione.
(Locarno 2015; intervista realizzata con la collaborazione di Alberto Diana)