La storiografia ufficiale si è impegnata a fondo per rimuovere completamente le opere del regista Romano Scavolini dal panorama cinematografico italiano. Sin dal suo esordio nel 1965, con il cortometraggio sperimentale La quieta febbre, il regista fu considerato "pericoloso" dalla Commissione di Censura, che infatti proibì la visione del film ai minori di 18 anni. Scavolini, in effetti, "pericoloso" lo era davvero. Il suo cinema non voleva essere in alcun modo rassicurante e si poneva come tentativo radicale di contestare l'addomesticamento delle coscienze da parte della società attraverso l'uso del linguaggio cinematografico. Allo stesso tempo, però, il regista temeva di venire etichettato come autore underground e fu forse un eccesso di individualismo o di idealismo a convincerlo a muoversi all'interno del normale circolo distributivo, finendo per mettere la propria ricerca formale a confronto con l'indifferenza delle aspettative del pubblico e delle leggi di mercato.
Il suo primo lungometraggio, A mosca cieca (1966), è ambientato a Roma e racconta di un uomo, Luca (Carlo Cecchi), che vive senza scopo, trova una pistola in una macchina e decide di sparare a un estraneo all'uscita dallo stadio Olimpico dopo una partita. La prima versione del film durava oltre 6 ore. L'intenzione originaria di Scavolini era quella di lavorare su 3 livelli di stratificazione narrativa all'interno di una temporalità estremamente dilatata (la quotidianità non significante del protagonista, la quotidianità non significante della vittima, il gesto significante dell'uso della pistola). Data l'impossibilità di post-produrre una tale quantità di materiale (il produttore Enzo Nasso fece però vedere questa versione originale e non sonorizzata di A mosca cieca a Giuseppe Ungaretti, il quale rimase mesmerizzato dalla visione giudicando il film "un autentico capolavoro"), Scavolini si vide costretto ad accorciare il film una prima volta a 100 minuti e una seconda a 70.
Anche se drasticamente ridotto, dal film traspare comunque la dimensione beckettiana della vita di Luca, tra attese di eventi e vagabondaggi metropolitani di baudelairiana memoria; Scavolini trasforma il film in un contenitore di esercizi ludicamente speculativi, ed è emblematica la sequenza ripetuta dell'incontro tra Cecchi e Laura Troschel, che si vedono ma non riescono ad abbracciarsi, ritornando così al punto di partenza. Il film stesso è un cerchio incompleto; l'intera narrazione viene continuamente destrutturata e sabotata per mezzo di reiterazioni di gesti, sospensioni temporali, saturazioni dell'immagine attraverso l'introduzione di segni, numeri e didascalie, dialoghi soppressi in favore delle declamazioni poetiche della voce narrante (la poesia "Ville" di Rimbaud che verrà poi utilizzata anche all'inizio de La prova generale).
È in quest'ottica di spiazzamento che si può intendere l'opera intera di Scavolini, cinema inteso come gioco che diventa linguaggio, che sfugge alla logica di identificazione con il cinema tradizionale e allo stesso tempo destituisce l'io, dal momento che lo spettatore non è spinto in alcun modo a empatizzare con il protagonista (che, dopo l'atto omicida, parodierà l'atto stesso del costituirsi con la simulazione delle foto segnaletiche che si autoscatterà all'interno di una cabina fototessera) e quindi identificarsi in lui e nel suo raggelamento esistenziale. Una rappresentazione libera da ogni logica, in cui la tensione drammatica degli eventi viene contraddetta proprio per frustrare le aspettative e ridestare l'attenzione di chi guarda, affinchè rimanga vigile e lontano da ogni processo di identificazione.
A mosca cieca fu presentato a Pesaro nel 1966 ed inviato successivamente in altri festival internazionali. Oltre a ottenere l'apprezzamento di registi come Joris Ivens e Jean-Luc Godard, il film ebbe tra gli estimatori anche Elsa Morante (che vide in Carlo Cecchi un personaggio di connotazioni pavesiane) e Alberto Moravia, il quale propose a Scavolini di aggirare la censura aggiungendo alcune scene dialogate. Ma il regista si rifiutò di scendere a compromessi, con il risultato che il film venne sequestrato e bandito con l'accusa di pornografia per aver (fugacemente) messo in mostra il seno della Troschel.
Le cose andarono ancora peggio con il successivo La prova generale (1968), bandito dopo aver ricevuto ben 5 capi di imputazione (oltraggio alla Patria, oltraggio al Milite Ignoto, oltraggio alla Religione, blasfemia e istigazione alla violenza) riuscendo allo stesso tempo ad ottenere il Premio di Qualità ex-equo con Il fascino discreto della borghesia di Bunuel. È in questo film, costruito come un puzzle surrealista dalle sequenze potenzialmente intercambiabili, che emerge con prepotenza la dimensione politica che Scavolini intende denunciare. I protagonisti sono giovani personaggi senza background, che vivono la propria vita come una recita, una prova generale, appunto; "abortiti" dalla società ma allo stesso tempo costretti ad accettare la responsabilità del proprio stare al mondo, cercando di recuperare i frammenti della propria esistenza per organizzare il proprio tempo e il proprio spazio in rapporto con gli altri. Ma dal momento che si sono persi gli strumenti per conoscere la realtà (la metafora del finto cieco al bar che intrattiene gli avventori con falsi racconti di guerra è lo svelamento della menzogna della rappresentazione), i protagonisti vivono nel timore perenne di fallire, di rompere l'unità che intendono costituire e ritornare così al proprio isolamento (dirà uno di loro: "Che cosa aspettiamo a debuttare? Sono 10000 anni che facciamo la stessa prova generale, continuamente interrotta solo perché qualcuno di noi muore"). L'immagine della partita di biliardo, che ritorna continuamente in tutto il film, allude proprio a questo continuo aggregarsi e disgregarsi dei personaggi che, come i birilli sul tavolo da gioco, si rovesciano e si disperdono dopo essere stati colpiti. La rivoluzione che vogliono compiere, il loro stesso entrare in scena, rimarrà sempre un'utopia, un'atto ripetutamente teorizzato, scritto sui muri ma sempre in attesa di venir consumato.
Ancora più disilluso è il disfacimento della collettività messo in mostra da L'amore breve (1969), ultimo capitolo di un'ideale parabola dell'incompiutezza all'interno della filmografia scavoliniana. Il film, nella sua versione definitiva, rispecchia ben poco le intenzioni originali del regista: pesantemente manipolato dal produttore e rimontato per dargli una forma più convenzionale e spendibile sul piano commerciale, con Scavolini che, esautorato, inizierà la sua lunga avventura cinematografica americana dedicandosi prima al cinema di militanza nel continente latino e poi all'horror negli Stati Uniti).
Nonostante gli stravolgimenti, ne L'amore breve si percepisce il clima di morbosa decadenza e di vuoto morale che Scavolini voleva far affiorare attraverso la rappresentazione del fantasmagorico "assedio" che la borghesia della città di Trieste percepisce solipsisticamente (titolo alternativo è infatti Lo stato di assedio). Come in La prova generale, anche i personaggi di questo film, idealmente dall'altro lato delle barricate, cercano disperatamente di sopravvivere, sfuggire a un'ambiente, un tempo prosperoso ed ora funereo, che li ingabbia e li assorbe nel proprio grottesco processo di decomposizione. Dirà Scavolini al riguardo: " È un film sull'infelicità in cui Trieste fa da sfondo; una città un tempo incrocio della più strabiliante mitteleuropa, con la sua economia di base in crisi, una volta sorretta dai cantieri navali ora in disarmo, il cui vuoto gigantesco pare suggerire che tutti i personaggi altro non sono che 'sembianze' prigioniere dentro un involucro funebre".
Non è facile, dunque, sistematizzare il cinema di Scavolini. Anche se tematicamente assimilabile al cinema di rivolta degli anni '60 (basti pensare alle opere coeve di Bellocchio, Ferreri e dei fratelli Taviani), Scavolini ha sempre cercato di esprimersi attraverso un'estetica più radicale, intervenendo a livello strutturale e percettivo sulla materia cinematografica, con la volontà di distruggere la storia per occupparsi solo dell'uomo e del suo affrancamento dalla rete di ombre della propria coscienza.
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BIBLIOGRAFIA
Prove generali di cinema "espanso" (Bruno di Marino)
Schegge di utopia – L'underground Cinematografico Italiano questo sconosciuto (Paolo Brunatto)