In fondo la paranoia, la follia e l'isolamento emotivo hanno sempre convissuto nel cinema di Alex Ross Perry. Magari mascherati da commedia e edulcorati in quel cocktail di understatement newyorchese che va da Woody Allen a Noah Baumbach passando per Seinfeld e Friends, in cui niente, nemmeno la tragedia, può essere presa completamente sul serio, senza una battuta sagace che sdrammatizzi il tutto. O meglio esplicitati nella loro scabrosa realtà come nel suo primo film, Impolex, pur tra le timidezze formali dell’esordio.
Lontano dalla Grande Mela, geograficamente e spiritualmente, Queen of Earth rappresenta insieme l'esasperazione di questa tensione sociopatica latente e un atto di cinefilia totale. Perché, anche per arrivare a Bergman e a Persona, il passaggio da Interiors è pressoché obbligato. I totem cinematografici di Alex Ross Perry mai come qui sono presenti e orgogliosamente esibiti. Lo studio altmaniano della psiche femminile sull'orlo di una crisi di nervi (Tre donne, Images), l'incubo polanskiano della separazione definitiva dal mondo circostante (L'inquilino del terzo piano, Repulsion); la psicanalisi bergmaniana del doppio (Persona); la scansione temporale in giorni della settimana, che avanzano in accordo con la follia (Shining). Ma la natura derivativa di Queen of Earth, così come l'attesa studiata di un evento che con ogni probabilità è destinato a non accadere, non sono mai in discussione.
Queen of Earth è un gigantesco MacGuffin, è polvere di nitrato d'argento che vive, muore e rivive in un circuito chiuso di autoreferenzialità. Questo imprinting netto e privo di esitazioni, supportato dalla fotografia al solito esemplare di Sean Price Williams e del suo super 16mm sgranato, è la ragione della sua forza. Pardon, una ragione. Perché dare a Elisabeth Moss quel che le spetta è un compito a cui il cinema (la TV ha già dato) dovrà abituarsi sempre più spesso. Catherine, regina della Terra, apre e fa suo il film con il mascara sciolto e un’espressione di grottesca paura, per condurlo con sé, scendendo giù per il maelstrom della psiche. E legando l'opera a Listen Up Philip attraverso fili invisibili: la Moss era la fidanzata abbandonata già allora, Catherine e Ginny – una Katherine Waterston (Vizio di forma) dallo sguardo così penetrante da spingere a chiedersi come sia possibile essersi accorti di lei solo ora – leggono romanzi di Ike Zimmermann (personaggio del film precedente, incarnato da uno straordinario Jonathan Pryce) in un ipotetico universo condiviso tra le due opere. Volti della stessa medaglia come Catherine e Ginny, intercambiabili, ora dominanti ora recessive, capaci di ferirsi a vicenda come solo due amici possono fare, almeno fino a quando la flessibilità della superficie cerebrale sollecitata lo consente.
Perry gioca con i registri temporali e con le simmetrie di due situazioni analoghe nello stesso luogo – la dimora fuori porta in cui si svolge il film – così come gioca con la messa a fuoco delle due donne, siano esse in primo piano o sullo sfondo. Lavorando di sottrazione dal punto di vista narrativo e trasformando il mumblecore, sempre più inflazionato dallo stile(ma) Sundance, in qualcosa che si riallaccia sempre più alla New Hollywood, la regia di Perry cresce a dismisura, in maturità ed efficacia. A confronto con un topos ingombrante, lo scarto stilistico – la macchina da presa in cerca di angoli sempre più strani, la sceneggiatura che cede il passo alla costruzione di atmosfere dai silenzi insostenibili – risulta meno evidente e più consequenziale di quanto fosse lecito immaginare. Con solo una fugace esitazione, quando nella scena del party e della crisi di Catherine – quasi una copia conforme del climax de L’inquilino del terzo piano – cede alla tentazione di esibire e rendere visibile quella che fino a lì era stata un’invisibile erosione carsica. Ma è una parentesi che si dimentica in fretta di fronte a un epilogo ellittico e misterioso, con un ritratto che sa di Dorian Gray e di Fritz Lang, destinato (forse) a rimettere in discussione molto di quanto si è visto.
Menzione doverosa per i credits, nel loro minimalismo tra i migliori del cinema recente: font raffinatissimo, colore cremisi intenso e una moltiplicazione incontrollabile sui titoli di coda, che accompagna i pensieri post-visione, dopo la riaccensione delle luci, tra inquietudine e voglia di ricominciare a calarsi nell’abisso. Per saperne di più, di lei e di noi, sudditi altrettanto terrestri.