Lo scorso maggio l’Arsenal, Institute for film and video art di Berlino, ha dedicato una retrospettiva a uno dei maggiori registi austriaci contemporanei, Nikolaus Geyrhalter. Come noto, l’Arsenal si propone di creare un collegamento tra la pratica cinematografica e la ricerca teorica, mettendo in relazione l’ambiente accademico con quello artistico e con differenti organizzazioni culturali. La scelta ricade sulle opere più innovative e sperimentali, essendo al contempo la sede dell’Expanded Forum della Berlinale.
All’inaugurazione della rassegna era presente il co-autore e montatore di Geyrhalter, Wolfgang Widerhofer con cui il regista ha fondato nel 1994 – insieme a Markus Glaser e Michael Kitzberger – la casa di produzione NGP che promuove lavori cinematografici, documentari e fiction, così come opere teatrali e per la tv di diversi autori. Tra questi anche il danese Michael Madson, che quest’anno ha presentato The Visit al Sundance Festival, e che nel 2003 realizzò Celestian Night: A Film on Visibility che può essere una curiosa introduzione alle questioni messe in campo dal filmmaker austriaco, nonostante i due seguano principi tecnico-narrativi differenti, se non opposti. Eppure Madsen, a tratti prolisso e stiracchiato, rende manifesto e vicino ciò che Geyrhalter pone a distanza, nelle lunghe interviste in cui gli individui sono collocati all’interno di paesaggi (geografici o storici) sconfinati. “Pensi che la mia telecamera mostri la realtà?” Chiede Madsen ad un impiegato della Sony. “Sì, mostra esattamente quello che tu riprendi”. “Sei sicuro?” replica la voce fuori campo. “Sì, sono sicuro. Se ne usassi una migliore la qualità sarebbe più alta, ma con questa puoi fare già un buon lavoro”. Questo dialogo condensa il nucleo semplice ma non banale che Madsen sviluppa documentando un viaggio in Giappone alla ricerca delle tracce del mitico imperatore cieco Amayononikoto. Attraverso immagini sfocate – talvolta ravvicinate, talvolta inondate da colori rarefatti – compensate da una cura meticolosa per il sonoro, il regista danese si confronta con l’interrogativo millenario relativo alla relazione tra la vista e l’immaginazione. Le metropoli giapponesi sono in questo senso il luogo privilegiato per chiedersi se le nuove tecnologie siano uno strumento per potenziare l’accesso al reale o se invece portino a un oversee, ma il Giappone è anche un luogo che dischiude miti e leggende remote dove non può mancare la figura del saggio non vedente, colui che raffina ed espande gli altri sensi per supplire a una carenza ottenendo in cambio il dono della veggenza. La vista sembra essere per Madsen il senso più prevedibile e ingannevole poiché “ciò che si vede si fonda su ciò che si è già visto” ed è possibile riconoscere solo ciò che è familiare. Dunque lo spazio che ci si ritaglia intorno, ciò che è di volta in volta visibile, può trasformarsi in un ambiente claustrofobico e limitante se si cerca di coglierlo in maniera meramente analitica. In una lettera del marzo del 1969 Sergio Quinzio scrive a Guido Ceronetti: “Nell’antico c’è un eccesso di significato (in ogni parola o gesto, eterni, infinitamente potenti, ambigui, rischiosi) e quindi un disperato tendere al chiuso, al puntuale, al definitivo, al facile, al chiaro, al certo, al semplice, al risolto. Nel moderno c’è un vuoto di significato (in ogni parola o gesto, evanescenti, penosamente deboli, risaputi, sterili) e quindi un disperato tendere all’aperto, all’esteso, al disponibile, al difficile, all’indefinito, all’oscuro, al complesso, all’irrisolto: un allargare per comprendere qualcosa, anziché uno stringere per lasciar fuori qualcosa. Quindi nell’antico l’abisso, che vuol essere colmato e non può, è veramente abisso; nel moderno l’abisso, che deve e vuole essere tale, non è abbastanza abisso”.
In qualche modo il campo lungo di Geyrhalter tende un ponte tra queste due concezioni senza voler tentare una conciliazione. Al contrario di Madsen, Geyrhalter mostra di avere una fede smisurata, ma non ottusa e acritica, nell’esplorazione visiva che dischiude mondi impensabili fino al momento in cui non si materializzano, luoghi o eventi troppo lontani per essere immaginati/prefigurati. L’improbabile è la materia di Geyrhalter, il processo il suo esplorabile abisso. L’inquadratura in campo lungo distanzia dall’oggetto non per proteggere l’osservatore dal pericolo del contatto ma per lasciare alcuni elementi a margine, mantenendone la complessità. Piuttosto che ai suoi colleghi austriaci – tra gli altri Ulrich Seidl, Jessica Hausner, Michael Haneke – , tale approccio lo rende più vicino alla prospettiva di Harun Farocki che ai dubbi avanzati sulla sua ermeticità, rispondeva che è la materia stessa del documentario, il reale, a essere complessa e controversa. Per entrambi – seppur con ragioni e punti di arrivo differenti – il metodo da adottare di fronte alla ricchezza dei fenomeni è la perlustrazione, piuttosto che l’evasione, di quei processi che pur essendo alla base delle nostre principali attività quotidiane sono lontani dalla nostra vista. Gli alieni sono dunque gli stessi meccanismi, per esempio quelli di cui il consumatore è all’oscuro, abituato ad acquistare le merci nei supermercati, come rivela Geyrhalter in Unser Täglich Brot (2005), il nostro pane quotidiano. Se nella maggior parte dei casi, il regista austriaco sceglie di raccontare luoghi ed eventi attraverso lunghe interviste prive di interruzioni o interventi esterni, qui preferisce escludere la parola e dare voce solo ai suoni dei macchinari coinvolti nella produzione industriale di vegetali, carne e pesce. Girato per lo più in campo medio e lungo e privo di commenti, raggiunge paradossalmente l’obiettivo di avvicinare lo spettatore alle immagini crudeli e puntuali girate nei macelli o negli allevamenti di polli, mostrando dettagliatamente ogni passaggio dell’uccisione degli animali. Quello che si cela dietro le foto inverosimili sulle etichette dei cibi industriali su cui campeggiano campi verdi e allegre fattorie. Geyrhalter non lascia ad ogni modo lo spettatore in balìa delle immagini, vi è sempre un espediente per ricordare che la telecamera non è uno strumento neutro, che anche la più ampia delle inquadrature è pur sempre una scelta di sguardo. Qui è il sorriso imbarazzato di un’operaia in pausa pranzo che guardando in camera ci ricorda la presenza della troupe. Mostrare la ripetitività dei gesti che spesso caratterizza lavori e mestieri attraverso piccole alterazioni prospettiche si rivela un metodo efficace per scoperchiare il complesso meccanismo dei rapporti tra potere e rituali quotidiani sui quali raramente ci si sofferma con un sguardo critico. La posizione in cui si situa l’autore, specie il documentarista, è dunque più articolata di quanto si creda. Non è un principio di autorità da assorbire senza metterne in discussione i presupposti, non è un fantasma che lascia immutato il territorio delle immagini in cui decide di inoltrarsi ma può schiudere i reticoli di forze invisibili che influiscono sulla nostra percezione del reale.
In Elsewhere (2001), le brevi incursioni del regista sono puntellate – come spesso nei lavori di Geyrhalter – da brevi dissolvenze in nero, che interrompono per pochi secondi i monologhi dei protagonisti. Dodici episodi di venti minuti ciascuno ambientati nelle più disparate aree geografiche (Italia compresa) alla ricerca delle minoranze ancora non del tutto globalizzate. Il lungo documentario del 2001 dà modo di centrare uno dei temi prediletti da Geyrhalter: luoghi e gli eventi difficilmente raggiungibili, ciò che in qualche modo oppone resistenza. Del resto esplorazione e viaggio sono da sempre materia del documentario, tanto che l’operazione più interessante messa in atto da Geyrhalter è proprio la completa rivisitazione di un genere pur mantenendone alcuni capisaldi. Il viaggio e il reportage perdono totalmente la valenza didascalica e descrittiva, la voce non proviene dal fuori campo ma, quando è presente, è quella degli stessi testimoni che dialogano con il fruitore senza mediatori e semplificazioni. Bisogna anche attendere il momento giusto, per esempio la notte quando tutto, a detta dello stesso regista, appare più fragile e silenzioso e può essere osservato in maniera più accurata. Abendland (2011) ritrae alcuni lavori notturni: tra gli altri la centrale da cui vengono monitorate le telecamere di sorveglianza, lo smistamento della posta, una casa di riposo, un pub durante l’Oktoberfest, lo studio di Sky news, un aeroporto. Il titolo si riferisce in realtà ai paesi occidentali ed è un metafora per mostrare gli standard fin troppo elevati dello stile di vita europeo. Qui il campo lungo assume una valenza politica, diviene uno spazio inclusivo in opposizione alle barriere protettive e restrittive innalzate dall’Unione Europea. Uno degli episodi mostra una volante della polizia mentre perlustra la frontiera a Gibilterra. Geyrhalter intende denunciare la presunta superiorità dell’occidente e il prezzo pagato dal resto del mondo per l’uso dissennato delle risorse.
“Nel mio lavoro di documentarista mi imbatto in luoghi e strutture che non sarei stato in grado di immaginare prima di averne fatto esperienza”. La frase che Geyrhalter ama ripetere con insistenza descrive perfettamente due lavori del regista: Das Jahr nach Dayton (1997) e Pripyat (1999). Il primo racconta la Bosnia ed Erzegovina immediatamente dopo la fine della guerra durata tre anni, il secondo la città direttamente colpita dal disastro di Čhernobyl, dodici anni dopo l’incidente. In entrambi i casi si tratta di due eventi che sconvolsero completamente il modo di vivere degli abitanti. Geyrhalter si dice turbato e affascinato dalla velocità con cui l’uomo si abitua a ciò che un attimo prima sembrava impensabile e, proprio perché il disastro è un fenomeno che inevitabilmente si presenta da sé tramite i suoi effetti dirompenti, raccontarlo diventa una sfida. Trasmettere allo spettatore lo stupore di fronte alla potenza del cambiamento, sia esso il risultato di un’esplosione repentina o di un lento processo. Tali trasformazioni possono intaccare anche le azioni più naturali e vitali; una donna intervistata a Pripyat ammette: “Dopo l’esplosione non potevamo respirare, poi ci siamo abituati”.
NOTE
[1] Il programma, dall’8 al 18 maggio 2015, prevedeva Über die Jahre (2015), Pripyat (1999), Abendland (2011), Angeschwemmt (1994), Unser Täglich Brot (2005), Das Jahr nach Dayton (1997), Elsewhere (2001), 7915 KM (2008); un omaggio al regista austriaco è stato dedicato in settembre dal Milano Film Festival.
[2] G. Ceronetti, S. Quinzio, Un tentativo di colmare l’abisso: Lettere 1968-1996, Adelphi, 2014, p. 23.