Potrebbe sembrare il film meno politico di Vimukthi Jayasundara, Dark in the White Light. Nella sostanza, invece, la quarta pellicola del regista è forse l’opera che più di ogni altra, nella sua filmografia, sintetizza il portato di un ventennio abbondante di sangue e morte che ha dilaniato lo Sri Lanka, provando a rielaborarlo, ad astrarlo e a riflettere sulla natura umana, su cosa possa condurre a tanta violenza. Dopo sei anni di lavorazione e di cambiamenti continui nel montaggio e nel girato, il film trova una forma definitiva: anti-narrativa, franta e dilaniata come il suo Paese, alla disperata ricerca di un equilibrio e di una risposta a troppe domande. Proprio quando la Palma d’Oro di Dheepan di Jacques Audiard prende le mosse dalla tragedia dell’isola per elaborare un impossibile percorso di fuga ed espiazione, ecco il ritorno di una delle principali voci di quelle terre, infine giunta a completare un’opera – la prima in digitale – che ha subìto mille traversie e riscritture (persino il bianco e nero originario ha lasciato posto a colori squillanti, essenziali per il simbolismo insito nel film).
Dark in the White Light – titolo internazionale che forse suggerisce poco della tensione che attraversa il film – vive in un limbo che pare appartenere ai nonluoghi di Apitchapong Weerasethakul, sospeso tra vita e morte, spiritualità e dannazione, ascesi e pulsioni terrene. Le due parti che lo compongono sono, non casualmente, distribuite in maniera diseguale: breve, essenziale, e costituita in prevalenza da campi fissi la prima, su uno studente di medicina intenzionato ad affrontare la morte ma che poi sceglie la via spirituale per comprenderne meglio il senso; guidata invece da una semplice struttura narrativa, destinata a sfociare in brevi sequenze di insostenibile violenza la seconda, su un dottore coinvolto in un traffico illegale di organi umani, che lo conduce alla follia. La ricomposizione dell’epilogo, apparentemente semplicistica ma dal chiaro intento umoristico, riconduce su un piano affabulatorio il viaggio dei protagonisti, ricorrendo all’antico strumento del contenitore di storie tramandate oralmente. Una cornice giustapposta in maniera scherzosamente posticcia su una tela dominata da un orrore che necessita di un’astrazione per poter essere tollerato. Lo storytelling come medicina, in fondo proprio come in Boccaccio o ne Le mille e una notte, dove la necessità di raccontare nasce dalla tragedia e dalla volontà di ridimensionarla, oltre che di comprenderla.
Che la protagonista sia la morte lo si arguisce sin dai primi, eccellenti minuti di film. Il tentativo di ricondurre un concetto astratto, e che ci piace immaginare come remoto, alla sua essenza porta fatalmente a interrogarsi sul suo contrario, sul senso stesso della vita: “la grande domanda di cui tutti vorrebbero conoscere la risposta, senza avere il coraggio di esprimerla a voce alta”, come esplica lo stesso Jayasundara. La morte domina gli uomini come burattini, guida la loro brama di denaro e voluttà immediata, esercita fino in fondo il controllo sui loro corpi, prima che l’anima si separi da questi. Solo così può essere accettata, se non spiegata, la brutalità delle sequenze di stupro del tormentato personaggio principale, un medico che, investito di un potere eccessivo sui corpi dei propri simili, sfiora il Signore della Morte – così lo ricorda, attraverso le parole del Buddha, l’anziano monaco che indirizza moralmente il film nel suo incipit – e ne rimane ustionato nell’animo prima ancora che nella carne. La visualizzazione estetizzante del travaglio interiore del dottore, privo ormai di alcuna inibizione, durante le sue scorribande notturne apre curiosi squarci verso il razionalmente inspiegabile, facendo di lui prima una figura vampirica – il rapporto col sangue e con la notte, l’influenza soprannaturale che sembra esercitare sui propri assistenti –, e quindi un révenant destinato a perpetuare il suo tormento in eterno, e a costituire un monito per chiunque ascolti il suo grido di dolore.
Tra le brillanti intuizioni registiche – come il lavoro sulla falsa prospettiva di alcune inquadrature, che paiono verticali ma si sviluppano orizzontalmente – e le molte, inevitabili, imperfezioni e indecisioni, Dark in the White Light si rivela un’opera vibrante che restituisce al panorama autoriale un sicuro protagonista come Jayasundara, infine liberatosi dei demoni di un film divenuto esso stesso un’ossessione.