Ancora una volta nel cinema di Pietro Marcello si verifica un passaggio della linea. Dopo il detour de Il silenzio di Pelešjan, il regista casertano realizza un film che di fatto riscrive, pur conservandole in parte, le sue strategie di approccio al territorio italiano. Dopo avere attraversato l’Italia a bordo dei treni espressi che ormai non esistono più, quasi a volere tracciare una geografia antropologica e operaia di un intero paese nel momento stesso in cui questa stava per sparire definitivamente, La bocca del lupo ha cercato in tutti i modi il miracolo dell’incarnazione; conservare nell’immagine la forza resistenziale della presenza, intrecciando in una storia d’amore resistenziale, le mutazioni di una città e di quartiere, e di conseguenza di una lingua e di una storia. Bella e perduta, pur proseguendo l’indagine poetica sull’Italia che scompare, ci pare azzeri i risultati precedenti per muoversi in un territorio ancora largamente inesplorato. Come se Pietro Marcello avvertisse il bisogno di cancellare per rivedere. Mettersi di fronte allo spazio annichilito del presente per poterlo ripensare (o risognare) come possibilità palingenetica di un dire eroso dalla progressiva scomparsa del territorio dal quale è ormai esiliato. Se l’archeologia urbanistica e industriale di La bocca del lupo si offriva come sostrato della vicenda di Enzo e Mary, in Bella e perduta è il territorio stesso che assurge al livello di protagonista assoluto. Rimosso dalle grandi narrazioni del cinema nazionale, il territorio ha progressivamente riconquistato, almeno in parte, una ritrovata centralità politica in seno a un cinema, il dibattuto “cinema del reale”, assurgendo al ruolo di protagonista e di testimone.
Nato come ipotesi di documentario su Tommaso Cestrone, guardiano della reggia borbonica di Carditello, Bella e perduta ha subito una drammatica battuta d’arresto quando il protagonista è venuto a mancare. Minacciato dalla criminalità organizzata a causa della sua testarda volontà di non cedere al degrado, Cestrone è ancora una volta il segno di un’Italia non vista, non raccontata che rifiuta la logica del profitto e della violenza continua. Con un film iniziato e da finire in assenza del protagonista, Marcello si è trovato di fronte a un dilemma etico drammatico. Portare a termine un film pensato come ritratto, un lavoro intorno a un corpo che non può più interagire con il dispositivo di riproduzione. Lo scarto di Bella e perduta, nei confronti della precedente produzione di Marcello, avviene esattamente in questa frattura drammatica. Per la prima volta, infatti, il regista sostituisce un personaggio con una maschera; una maschera potente, come può esserlo quella di Pulcinella della tradizione napoletana, utilizzando la maschera come segno stesso del territorio che si vuole raccontare. La maschera, però, non tradotta in segno riassuntivo, ma in elemento aperto, metastabile; elemento di passaggio attraverso cui ridisegnare traiettorie e territori. La maschera, inevitabilmente, è anche il segno di una memoria; di una scena della memoria. La maschera è già, anche, la sua stessa messinscena. La maschera, evidentemente, è anche l’ipertesto di una presenza e di lingua; di una saggezza della sua messinscena. Evidentemente la maschera conserva e attrae la memoria. Essa stessa la porta e la vive, incarnandola, appunto, come segno della sua stessa maschera. La maschera, in Bella e perduta, è l’aspirazione a tornare a essere, parafrasando George Steiner, “una società che coltiva attivamente una memoria comune”, e quindi ritornare a stare “in contatto con il proprio passato”. Pulcinella, psicopompo che attraversa Terra di lavoro, una volta terra dei tre raccolti, accompagnando il bufalo Sarchiapone dal pastore che conosce a memoria le poesie di una volta, rimanda in maniera fondante al nodo della memoria che sta al cuore di Bella e perduta. Infatti, sempre con Steiner, “ciò che viene affidato alla memoria e può essere richiamato alla mente costituisce la zavorra che equilibra l’io”. Non a caso, quando Pulcinella si sbarazzerà della maschera, non sarà più in grado di comprendere le parole di Sarchiapone, ritrovandosi esiliato nel mondo, perduto, privo di memoria e di storia.
L’allegoria, figura retorica rischiosa al cinema, trova in Marcello un candore lirico sorprendente le cui radici affondano, probabilmente, nello scandalo per l’affronto subito dalla sua terra. Il viaggio iniziatico, un esorcismo teso a riconciliarsi con il bufalo, simbolo forte di Terra di lavoro, messo a rischio dai rifiuti tossici nascosti dalla criminalità organizzata nelle campagne, inquinando così le falde acquifere, ha una valenza quasi pagana, senz’altro ancestrale. E per quanto possa risultare seducente evocare il Pasolini di Uccellacci e uccellini, pur presente per certi versi nel cordoglio per una terra offesa, è opportuno osservare che Marcello non parla da una posizione di un’ideologia, per quanto sofferta e sottoposta ad analisi critiche. Il suo sguardo, lirico e antropologico insieme, tenta di essere fattuale; di rendere conto del dato materico, di registrare ciò che ancora vive intorno a lui. In questo senso c’è nel suo film anche uno scarto decisamente inattuale. Pur essendo profondamente ancorato alla propria terra, la filma come da una distanza; una distanza nella quale è evidente l’amore per i maestri sovietici. Pur nel rispetto del rispetto ontologico fra cosa vista e dispositivo di riproduzione, Marcello sa che l’immagine filmata è sempre altra rispetto al dato di partenza. La sua passione nel tentare di dare vita a un’immagine che sia il segno della differenza rispetto al reale, è anche il segno del progetto del regista: restituire come immagine, quindi come possibilità, ciò che altri hanno preso alla terra (e al reale). Discontinuare, quindi, la soggezione di fronte alla realtà per ritrovare il reale come lavoro, presenza e possibilità di un’altra immagine, ossia possibilità di un altro dire e, inevitabilmente, un altro vedere.
Pietro Marcello pone così un problema “politico” di primissimo piano. Continuare a fare cinema tentando contemporaneamente di ricreare un contesto territoriale nel quale questo possa ritrovare un luogo nel quale esistere organicamente. Ricompattare intorno all’oggetto-film una comunità esiliata dai processi di erosione del territorio. Intuizione profonda e assolutamente inevitabile. Non può esistere un vero cinema nazionale senza un popolo con il quale questo possa dialogare. Certo: il problema principale è quello della definizione che una parola pesante come “popolo” immediatamente evoca. E probabilmente, seguendo l’indicazione di Maurizio Braucci, sarebbe il caso di iniziare a pensare a un eventuale “pubblico” in termini di cittadini, perché è solo dall’unione democratica, consapevole e libera che forse si può ritornare a pensare anche un popolo.
Nel cammino di Pulcinella, che dall’oltre mondo giunge nell’al di qua, si perde e non comprende più il linguaggio delle cose, nel suo camminare, nel suo restare, vive la possibilità di dare un altro nome all’esilio della vita; vivere nell’esilio fra simili e non più dell’esilio. Riconoscersi simili nell’esilio, per riscattarlo attraverso la presenza di un gesto. Quello della solidarietà ma anche quello del cinema che si cala nuovamente fra le cose del mondo. Bella e perduta, la sua dolente bellezza, si pongono con commovente nudità di fronte alla richiesta e al desiderio, di essere per un altro paese, con il quale riprendere a dialogare. In questa esigenza, poetica, nuda, civica, radicalmente politica ci pare che risuonino le parole di Sandro Penna:
Ero solo nel mondo, o il mondo aveva
un segreto per me? Di primavera
mi svegliavo a un monotono accordo
e il canto di un amore mi pareva.
Il canto di un amore che premeva
con gli occhi di quel cielo puro e fermo.
(Il testo è un’elaborazione dell’articolo apparso sul terzo numero di http://www.filmparlato.com/)