Il mio debutto nel cinema è stato fortunato, grazie a un contratto che doveva restare unico nella storia di Hollywood per quasi trent'anni. Quel contratto non aveva precedenti e per un momento aveva sfidato le fondamenta dell'intero studio system. Molto semplicemente, mi lasciavano in pace. Il mio lavoro, come quello di un pittore o di uno scrittore, apparteneva a me e a nessun altro, doveva essere rispettato come mia proprietà personale e non poteva essere affidato ad altri per passare alla catena di montaggio. Non mi è stata mai più data una tale libertà; né del resto a nessun altro. Fino a pochissimo tempo fa, Hollywood ha protetto il funzionamento della sua catena di montaggio negando la libertà a un'intera generazione di cineasti. Senza troppa nostalgia per quel avrebbe potuto essere, mi sembra giusto dire che tale mancanza di fiducia ha impoverito il cinema americano.
Oggi è un'industria molto povera: sfiora la bancarotta. Le grandi case cinematografiche sono virtualmente in mano alla televisione. E poiché la televisione stessa è fin troppo evidentemente immersa nel torpore delle persone di mezza età, è il medium più vecchio ad attrarre pubblico giovane. Sono solo gli sbarbatelli che vanno al cinema. E capita che siano soprattutto gli sbarbatelli a fare i film.
Le speranze del botteghino si fondano, abbastanza disperatamente, sulla generazione più giovane di cineasti. E si è data loro proprio quella libertà, quel controllo assoluto sul proprio lavoro che molti anni fa, per breve tempo, era stato solo mio. I poveretti non hanno più esperienza di quanta ne avessi io all'epoca. Ma in effetti – ed è la prima volta nella storia di Hollywood – i padroni e le banche sono al colmo della felicità quando un regista è assolutamente privo di esperienza.
È un segnale di panico, certo, ma è anche la nostra migliore speranza per l'avvenire. Per il cinema americano, voglio dire. Quanto a me, svantaggiato come sono dalla mia esperienza (che non sempre è stata positiva), il futuro mi vedrà forse ritornare nel vecchio continente. Per me l'Europa è una necessità più che una scelta, e preferirei stare qui con i giovani. Chi non vorrebbe? Ma se è lontano da casa che devo trovare lavoro, è là che andrò – non come un esule corrucciato, ma come una sorta di esploratore alla ricerca di una nuova età dell'oro.
Le età dell'oro vengono e vanno. Il più delle volte nascono con la primavera di una liberazione morale o politica; e muoiono con l'arrivo del censore e l'ascesa del dittatore (la Cecoslovacchia ne è un classico esempio). Ma quando le arti e le tecniche, dai film al football, si uniscono con passione e determinazione nella rapida esplosione dell'energia culturale di una intera nazione, questa manna miracolosa non è invariabilmente soggetta al ritmo delle stagioni. Spesso si ha l'impressione che l'entrata di un Paese nell'Età dell'Oro sia imprevedibile quanto l'ispirazione di un poeta. Non vi è calendario su cui si possa affidamento per questi inizi. La fine è più facile da individuare, e da spiegare.
Quando, per esempio, la qualità di Hollywood ha cominciato ad esaurirsi, tale evoluzione è potuta forse sembrare misteriosa, ma i fatti erano chiari abbastanza. È molto semplice: gli affari andavano troppo bene. Le entrate erano state troppo regolari per troppo tempo. Una qualunque sala cinematografica si riempiva nel momento stesso in cui l'esercente accendeva le insegne della facciata. Ciò che annunciavano non aveva quasi importanza. Bastava aprire le porte. Tutto ciò ebbe inizio negli anni Quaranta – ma l'aria di Hollywood cominciava a odorare di chiuso. L'ondata di prosperità della guerra aveva ingrassato il cinema a un punto tale da fargli perdere ogni rispetto per se stesso. La polvere d'oro svanì. Parassiti e scribacchini iniziarono il loro lungo regno nell'età della plastica. La magia non si manifestava molto spesso. Qualche volta sì (grandi libri sono stati scritti in carcere), ma la musa era altrove.
In Italia, nel momento stesso in cui Mussolini abbandonò la guerra, il telefono bianco, celebre marchio di fabbrica delle commedie mondane dell'alta borghesia fascista (per molti anni il principale prodotto cinematografico italiano), finì nella pattumiera. Ed è proprio questa pattumiera che può diventare il simbolo del nuovo ambiente. I registi italiani, troppo poveri per lavorare nei vecchi studî, portarono le loro cineprese nelle strade per girare Roma città aperta e Sciuscià. Rossellini, De Sica e gli altri, sotto le insegne del neorealismo, fecero la loro entrata nel mercato internazionale del cinema. I grossi capitali erano sempre a Hollywood, ma in quel momento, per tutto ciò che contasse veramente, era Roma la capitale cinematografica del mondo.
Le nascite e le rinascite del cinema che da allora non cessarono di verificarsi in tutto il mondo, da Stoccolma a Tokyo, hanno disperso molto di questo splendore. Ma ancora oggi non si può dire che tutto l'oro abbia lasciato l'Italia. Non fino a quando Fellini continuerà a trovare soldi per – e a far soldi con – quelle sue straordinarie ed estremamente costose stravaganze. Devo forse aggiungere per amore di giustizia il nome di Antonioni, solenne architetto di scatole vuote? Mi tocca ammettere che, per quanto mi faccia infuriare, ci sono ancora dei veri amanti del cinema che lo prendono sul serio quasi quanto non faccia lui stesso. Non posso tuttavia negare che quei due, Fellini e Antonioni, abbiano cambiato la forma dell'orizzonte.
Al posto della vecchia star, un altro mostro sacro svetta sopra di noi: il Grande Regista. Per quanto riguarda la mitologia popolare, si può dire che il giorno in cui Fellini ha scritturato la più grande vedette maschile del cinema del suo Paese per interpretare Fellini in un film di Fellini su Fellini – il suo 8 ½ – quel giorno il sole è tramontato sull'attore. Ovunque sia l'oro oggi, il glamour è soprattutto dietro la macchina da presa.
In un'epoca alla moda come la nostra, tutta la popolazione al di sotto dei trent'anni – compreso lo scemo del villaggio – vuole fare proprio il regista. E perché no? Diciamo pure a bassa voce che la regia cinematografica (intesa come mestiere in sé) viene spesso grandemente sopravvalutata. Un cattivo pittore non fa buoni quadri, ma buoni film recano spesso la firma di registi della massima incompetenza. Sceneggiatori, montatori e attori fanno il lavoro al posto loro. L'unico compito è pronunciare le parole “azione” e “stop” – e andare a casa con i soldi. Uomini così, li abbiamo visti, hanno diretto film in questo modo per cinquant'anni e nessuno li ha mai scoperti.
C'è un messaggio? La cinepresa a otto millimetri ha svelato un segreto: non vi è niente di più deliziosamente facile che fare un film. Questo luminoso senso della scoperta sta portando sullo schermo, se non un nuovo linguaggio, quanto meno uno stile nuovo e attraente. Quanto poi allo spettacolo dei produttori di Hollywood che si arruffianano freneticamente i giovani – e tutto per trarre beneficio da questo nuovo mercato di barbe e collanine – non è molto piacevole a vedersi. Ma non importa. E mentre quegli orribili, avidi imbroglioncelli risvegliano le loro vecchie ernie salendo sul carrozzone, è il Giovane Regista, fortunatamente, ad aver preso in mano le redini.
Dove ci sta conducendo? Speriamo verso una nuova Età dell'Oro per il cinema americano. I segnali sono incoraggianti. Ma sarei felice se mi si portasse la prova di non essere sedotto dall'esempio di quegli italiani assai celebrati di cui abbiamo parlato.
Da circa due secoli a questa parte, abbiamo subito tutti un lavaggio del cervello che ci ha portato al servilismo nei confronti del Genio assurto a Oggetto di Culto. Il Genio con la “G” maiuscola, che è essenzialmente un'istituzione romantica, ha sostituito il monarca assoluto quale incarnazione di una legge da lui stesso emanata, e ha ripreso alla Chiesa la fiaccola dell'intimidazione spirituale. L'importanza reale di un artista non dev'essere giudicata a seconda del grado d'impressione che questi suscita, bensì a seconda dei doni che riceviamo da lui. Shakespeare e Mozart hanno aperto nuovi orizzonti, erano dei liberatori. L'Oggetto di Culto che si è da solo attribuito tale titolo è un invasore. Uno che irrompe e, ubriaco del suono dei nostri elogi sfrenati, dà fuoco alla casa. La quintessenza della “G” maiuscola è stato quel piccolo attore italiano dal fiato corto che ha bruciato molte case e che si è da solo consacrato dittatore d'Europa. Era un Genio se volete. Era veramente un attore. E nonostante lui e la Francia si reclamassero l'un l'altra, era un vero Italiano. Non ci saranno mai troppi italiani in giro per il mondo. Ma ci sono stati (nelle arti e altrove) troppi Napoleoni.
Quei talentuosi italiani ampiamente responsabili dell'edificazione di quel monumento sacro della nostra cultura che è il Regista Cinematografico, sono antifascisti. E se a volte si ha l'impressione che il balcone del Duce sia risorto dalle proprie ceneri sotto forma di movimento di macchina, dobbiamo ricordarci (ammesso che abbia importanza) che Mussolini ha copiato tutto da Bonaparte.
Questo genere di eroe – e tutti gli eroi, in realtà – viene messo in discussione dalla generazione che ci darà i nostri prossimi grandi registi. Con il tempo, poi, ci si potrà aspettare che l'ostilità nei confronti dell'eroe si esaurisca, essendo per gli uomini il bisogno di eroi ancor più universale, eterno e pressante del bisogno d'erba. Per quanto riguarda poi il cinema, un'Età dell'Oro deve esigere dai suoi eroi che stiano al loro posto: davanti alla macchina da presa.
In questo momento, quello di cui abbiamo bisogno dietro la macchina da presa è solo un po' di disciplina e molti meno orpelli. Quanto meno, dobbiamo togliere di mezzo il mito del Regista come Super Uomo dei Nostri Tempi. Il prestigio di quel mito, il vertiginoso senso di potere, la gloriosa solitudine napoleonica – tutto ciò non ha niente a che vedere con la realizzazione dei film. Se nessun altra forma artistica è oggi più potente del cinema, è perché esso – ed esso solo – rimane popolare. Appartiene ancora al pubblico. Il narcisismo che contamina oggi le arti è un'ovvia tentazione per un regista investito dei suoi pieni diritti. Lasciate che il nuovo regista ponga la sua nuova autorità al servizio del proprio film, e non del proprio ego. Lasciate che rimanga, nel senso migliore del termine, al servizio del proprio attore, senza mettersi in competizione con lui per attirare l'attenzione. Soprattutto, lasciate che badi alla propria storia.
È molto piacevole sganciarsi, almeno per un periodo di tempo, dalla meccanica stridente della trama pura e semplice. Chi ha bisogno di una trama? Ma chi può vivere senza storia? Il regista che voglia essere considerato anche l'autore del suo film non è soltanto responsabile della storia, è anche responsabile di fronte ad essa.
Se c'è dell'oro in questa nuova Età, il cineasta non lo troverà finché non amerà il cinema più di se stesso. Un quarto di secolo è passato da quando, solo e libero dalle costrizioni castranti dell'industria di Hollywood, sono riuscito a girare due film; il secondo di essi (The Magnificent Ambersons) mi è stato tolto di mano e penosamente massacrato dallo studio. Quel che è sorprendente è che sono durato fino a lavorazione ultimata. A quell'epoca, i capi nei loro uffici non avevano nessun motivo di supporre che la loro autorità non fosse completamente confermata dai gusti del pubblico. L'industria cinematografica fabbricava un prodotto che vendeva bene a una clientela borghese, di media intelligenza e di mezza età. Oggi, al contrario, i padroni si trovano in una situazione nella quale non possono pretendere di sapere la minima cosa sulla loro clientela, se non che essa è molto giovane. Non c'è che una soluzione: registi molto giovani che abbiano il controllo assoluto sul proprio lavoro.
Come una vecchia signora agitata, Hollywood ha improvvisamente paura del traffico. Ha bisogno di essere guidata da mani giovani, dando così prova di una fiducia abbastanza commovente, leggermente ridicola, ma ricca di speranze nel futuro del cinema americano.
(Articolo pubblicato su Look, 3 novembre 1970. Riprodotto in Paolo Mereghetti [a cura di], Il cinema secondo Orson Welles, Sindacato Nazionale Critici Cinematografici, 1977. Traduzione di Mirella Danesi Ravaglia. Revisione di Gabriele Gimmelli. Disponibile online su wellesnet.com )