DER NACHTMAHR

Fotografia stroboscopica à la Spring Breakers, paranoia a piene mani à la Repulsion, il lato oscuro dell'adolescenza à la It Follows, amicizia à la E.T., ambientazione da club un po' outdated, à la Berlin Calling. Der Nachtmahr ("L'incubo") sfoggia prodromi cinematografici già visti e stravisti, nonché tutti gli ingredienti più scontati del teen horror, dosati però in modo sapiente, cosa che potrebbe rendere questo pastiche un piccolo cult. Tina ha diciassette anni quando inizia a percepire la presenza di un grottesco esserino che dapprima sembra minaccioso ma che si rivela poi autolesionista e vulnerabile. Nessuno attorno a lei sembra crederle, lo spettatore invece lo vede con lei fin dal primo momento. Un disclaimer iniziale invita proiettare il film “loudly!”: è evidente che il regista tedesco AKIZ (al suo primo lungometraggio, ma già patrocinato da Banksy e David Lynch) non fa mistero di rivolgersi agli adolescenti, presupponendo una fruizione su PC più che in sala. C'è da augurargli che il suo pubblico d'elezione sia in grado di cogliere il perturbante dietro al rimasticato. Il rapporto che si instaura tra Tina e quello che sembra essere il frutto del suo inconscio fa soprattutto cenno all'accettazione faticosa del proprio lato oscuro e restio ad integrarsi nella società, o a crescere – e qui l'esortazione sembra non andare oltre all' “embrace your freakness!”. Seguendo la pista del body horror, però, e leggendo la relazione che lega i due come quella tra una madre e un figlio (non nato, forse), il film acquista una luce diversa: sebbene nemmeno il tema della gravidanza mostruosa sia niente di nuovo sotto il sole (da Alien a Possession), la prospettiva femminile offerta dal film è senz'altro convincente, e, questa sì, inedita. [Elisa Cuter]

DOM JUAN

Rispondendo alla proposta della Comédie Française di rivisitare un classico della tradizione per attirare un pubblico più giovane, Vincent Macagine, habitué del teatro e da qualche anno attore-simbolo della nuova generazione di cineasti francesi, volta egregiamente le spalle al reale. Il suo Dom Juan è un sacrilegio pop, tripudio accecante di led colorate, paillettes e hit commerciali. Le stanze dell’Hotel Lutetia e gli interni della limousine celebrano Juan (Loïc Corbery), il libertino disincantato e cinico, che si sposta assieme al valletto Sgaranelle (Serge Bagdassarian) in una Parigi notturna, scenario fantomatico di una serie di avventure rocambolesche, dall’estetica kitsch e audace. Il film, fedele all’opera di Molière nella struttura, rivela le potenzialità della mise en scène già nel primo dei cinque atti: dialoghi ridotti all’essenziale, un cenno all’elogio del tabacco, musica ad alto volume e una profusione di corpi, la cui nudità trasuda sensualità e lascivia. L’hotel è il palcoscenico ideale tanto per la recitazione declamatoria di Sgaranelle quanto per l’espressione grave di Juan; qualcosa di tragico e ineluttabile abita questi corpi, e la bravura del duo è nel farsi padroni di questa tragicità senza scadere nel ridicolo. Il cinema è il luogo del possibile, il luogo in cui dodici uomini incappucciati a cavallo inseguono una limousine fiammeggiante, è il luogo della commistione del passato e del presente: l’iphone che emette un’aria dell’opera omonima di Mozart. Ne risulta un’eccentricità obsoleta raggiunta attraverso una serie di incongruità e stonature che concorrono al fascino di quest’opera prima. [Giulia Longo]

ENTERTAINMENT

Il cerchio aperto con The Builder si chiude nella sofferenza psicotica di Entertainment: lontano dai riflettori di un panorama indie uniformato alla convenzione dell’anti-convenzionale, Rick Alverson prosegue sulla sua coraggiosa strada secondaria. Al centro ancora un uomo solo e ossessionato, incapace di introspezione e astrazione, prigioniero di un flusso di coscienza che sa di crescente discesa nell’abisso. Ma dove in The Builder il protagonista faceva dell’oggetto della sua ricerca un’ossessione perniciosa, il comico senza nome di Entertainment – ispirato nelle fattezze a Neil Hamburger, personaggio messo in scena da Gregg Turkington – si rifugia nella ripetitiva routine di stand-up comedian per mantenere fuoricampo l’irrisolto che lo opprime. Una maschera, quella di Turkington, che pare appartenere a una lunga genia di clown tristi e autolesionisti, ma che nasconde una riflessione più profonda sulla crisi dell’individuo negli Stati Uniti odierni. In particolare dell’americano medio e wasp (contrapposto alla semplicità dei “nuovi proletari” chicanos), intrappolato in un sistema di valori illusorio e sommerso da nozioni perlopiù inutili – le battute del comico non escono mai dalla cerchia delle celebrities, da Larry King a Courtney Love – che contribuiscono alla diversione, a sotterrare sotto un virtuale tappeto responsabilità e mancanze destinate a tornare a galla con inesorabile veemenza. La scelta di ambientare a Bakersfield lo sfortunato tour del protagonista e di sottolineare anche da un punto di vista fenotipico la discendenza da Cinque pezzi facili di Bob Rafelson esplicita, forse eccessivamente, l’amara riflessione di Alverson, che guarda a un’età dell’oro – anche cinematografica – per misurarne l'irraggiungibilità. [Emanuele Sacchi]

HAPPY HOUR

Tanto contemporaneo a livello produttivo, come frutto virtuoso del crowdfunding, quanto inattuale nella sua forma, che con le sue cinque ore e un quarto di racconto ininterrotto sfida la segmentazione della serialità televisiva e le logiche distributive convenzionali, Happy Hour rappresenta uno dei film più interessanti passati in concorso a Locarno 68. Difficile pensare a una fruizione frammentata: significherebbe eliderne le ali, interrompere un decollo che avviene quasi in maniera impercettibile, e che trova nelle scene madri – una su tutte, il divorzio che diviene ignobile processo ai danni di una delle protagoniste – il suo slancio più forte. L’opera di Hamaguchi Ryûsuke entra in punta di piedi nella vita di quattro amiche della piccola borghesia giapponese, per raccontare la graduale presa di coscienza delle gabbie che ancora costringono il femminile entro ruoli prestabiliti, mentre gli uomini manifestano un’inerzia verso le tradizioni più retrograde che spesso arriva a ferire al pari della violenza fisica. Happy Hour è soprattutto un’opera monumentale sul racconto e sulla nostra (in)capacità di rimanere a distanza dai destini altrui: la sceneggiatura, premiata al festival insieme alle quattro interpreti, è infatti costruita come un continuo confronto tra un testimone che si fa narratore di quanto ha assistito, e un altro personaggio che rimane in ascolto. Il punto di vista è estremamente dinamico e danzante, al contrario di una regia che impone i tempi estesi del quotidiano, filtrandolo attraverso lievi immagini desaturate. In un universo che pure diviene piacevole da abitare, si è così attraversati dall’inquietudine di veder sfumare i confini tra visione e ottenebramento, tra egoismo ed empatia, e tra molteplici verità. [Francesca Monti]

KAILI BLUES

Dove finisce il cinema e dove inizia la poesia? Dove finisce lo spazio e dove comincia il tempo? Con il suo film d'esordio, Bi Gan costruisce un road movie che parte da Kaili, provincia di Guizhou – sua città natale – seguendo il viaggio di un medico alla ricerca del bambino abbandonato dal fratello. I tempi narrativi non sono convenzionali: il titolo del film appare dopo mezz’ora; lunghi piani sequenza seguono o precedono personaggi in viaggio; orologi appaiono in mille forme, reali e non, magiche proiezioni sul finestrino del treno, disegni di un bambino sul muro. Il tragitto del film arriva a sospendersi in una lunga stasi narrativa. Il protagonista si ferma nel villaggio di Dangmai, abitato dalla gente dell’antica etnia miao, o hmong, una cultura ancestrale, sopravvissuta al tempo o dimenticata dal tempo, preesistente alla dinastia Qin. La prima popolazione a essersi insediata nel territorio dell’attuale Cina. E qui, parentesi nella parentesi, un lunghissimo piano sequenza di 41 minuti, senza uno stacco. Ancora il tempo e lo spazio coincidono mentre l'incedere narrativo è sospeso. La macchina da presa fluttua nel piccolo borgo, galleggia nei suoi viottoli, esplora il territorio. Bi Gan svela di aver assimilato e fatto propri, nobilitandoli, quei tipici movimenti di macchina dei filmati amatoriali, quelli che anche lui utilizzava quando da studente filmava i matrimoni, vagando, galleggiando da un tavolo all’altro del banchetto nuziale. E così è ora il suo cinema, un vagare, un galleggiare, una deriva nelle pieghe del tempo e dello spazio. [Giampiero Raganelli]

PARADISE

Variamente descritto come “studio di carattere dai tratti implicitamente femministi e neorealisti”, Paradise, l'esordio registico di Sina Ataeian Dena, iraniano, classe 1983, è un esercizio complesso e a tratti contraddittorio. Il film, prodotto in parte dal fratello di Jafar Panahi, si offre come tranche de vie, seguendo gli spostamenti e le vicissitudini quotidiane di una giovane coreografa, Hanieh, e i suoi tentativi di ottenere un trasferimento a Teheran dalla remota scuola elementare di provincia dove ogni giorno lavora. In parallelo, la trama sviluppa blandamente una sorta di intreccio thriller, con la sparizione di due bambine dalla scuola, e i sospetti che progressivamente si addensano su un giovane uomo apparentemente ossessionato da Hanieh. Realizzato senza permessi, con sequenze rubate e personaggi ignari di essere ripresi, Paradise mescola sembianze da documentario sociologico a una spinta simbolico-narrativa. Il tutto ruota intorno ai temi della repressione e del controllo sociale, filtrati da una messa in quadro intimista, quasi amniotica. La scelta di un approccio in sottrazione si nota soprattutto nell'interpretazione della protagonista, pervasa da una sorta di passività annoiata che rende difficile capire dove si attesti, da ultimo, il punto di vista del film. Al di là di certi facili simbolismi (le adunate mattutine della scuola come rovescio ironico della coreografia, l'uccello in gabbia, etc), infatti, Paradise mantiene un registro antiretorico, perfino ambiguo. Il ruolo che Hanieh – seppure involontariamente – gioca nell'innescare la possibile conclusione violenta della sottotrama thriller sembra suggerire una indecidibilità etica di fondo, la quale spingerebbe il film lontano da un certo coté di denuncia alla Satrapi, e lo porterebbe piuttosto verso territori da "Neue Sachlichkeit" (Nuova oggettività). Più che all'oppressione della sua protagonista, Ataeian Dena sembra interessato al controllo come sistema sociale e spaziale, nel quale la violenza trova spazio allorché gli orizzonti morali dell'individuo si restringono. Ma il film è solo il primo di una progettata trilogia: ne terremo d'occhio gli sviluppi. [Pasquale Cicchetti]