Che Anton Corbijn provenga dal mondo del videoclip e della fotografia è palese sin dalle prime inquadrature di Life. Come nel caso di Control, il biopic dedicato a Ian Curtis dei Joy Division, si tratta ancora una volta di un film scultoreo, estetizzante e patinato che indaga, con l’occhio del regista “musicale”, il malessere esistenziale di un personaggio iconico, capace di sostenere l'intero film con la sola propria presenza. Ma se l’interesse ruota sempre attorno alla figura tormentata, anticonformista e, quindi, magnetica e affascinante, il limite più evidente dell’approccio filmico è, paradossalmente, proprio ciò che a Corbijn riesce meglio: la composizione dell'immagine, perfetta, statuaria, fotografica. La conseguenza diretta di tutto ciò che è che l’ambiente prende il sopravvento sull’icona, il simbolo, l’uomo trasformato in oggetto da mobilio: meravigliosamente illuminato e povero di emozione. E dire che a incarnare James Dean c’è uno straordinario Dane DeHaan, incapace di emergere nonostante l'intensità dello sguardo; così come Robert Pattinson, che dona incredibile umanità e vulnerabilità al personaggio di Dennis Stock. Due protagonisti potenzialmente indimenticabili; raggelati, però, da un’estetica fredda e ingombrante.
A differenza di Control, tuttavia, il controllo (si scusi il gioco di parole) maniacale dell’inquadratura pare giustificato dall’estrema rilevanza che il film dà all’atto del fotografare. Contrariamente a quanto ci si possa aspettare, infatti, non è tanto James Dean il fulcro principale del racconto, quanto l’amico fotografo Dennis Stock. Una figura, la sua, nella quale Corbijn si identifica e si riconosce: la vicenda alla base di Life diventa l’occasione per trattare in modo personale il rapporto che si viene a creare tra attore e regista/fotografo. Ed è questo l’aspetto più interessante. Se Stock viene mostrato in tutta la sua umanità e vulnerabilità, lo stesso non si può dire di Dean: i suoi drammi sono solo suggeriti: James Dean non è il "vero" James Dean, quanto il James Dean secondo l’occhio di Stock, ovvero l’icona controversa e ribelle, simbolo di una nuova “way of life”. Dennis Stock è, dunque, Anton Corbijn ripreso nell’atto di scavare dietro la maschera di un’icona, pura immagine. Ma, mentre il personaggio riesce a mostrare l’essenza del soggetto per mezzo dell'arte fotografica, il regista è come se fosse incantato dalla costruzione divistica. Pone una distanza di linguaggio e di stile che concede la possibilità di avvicinarsi al divo ma, al contempo, non supera mai il tentato d’approccio.
Uno spirito contraddittorio, all'interno del quale la perfezione stilistica sembra assumere un senso più definito: laddove la ricerca dello scatto perfetto è preponderante nella narrazione, la regia abbonda di simmetrie. Quando, invece, l’elemento fotografico passa in secondo piano e il dramma prende sporadicamente il sopravvento, ecco che un’occasionale camera a mano sembra dirci che il film è una riflessione sul conflitto tra immagine e dolore, tra individualismo e amicizia, tra realtà e costruzione della stessa. E sembra ricordarcelo anche il titolo: Life, come la vita vera, ma allo stesso tempo il nome di una rivista che donerà la gloria ai ritratti di Stock. Così, se di realtà del “divo” o di divinazione di un’icona si deve parlare, qui non c’è né l'una, né l’altra. E i due personaggi, realmente esistiti, un tempo vivi, si dissolvono nella perfezione estetizzante della messa in scena. Solo quando Corbijn riuscirà a superare questa barriera, la distanza che tiene il suo sguardo al riparo dal malessere profondo dei propri soggetti, riuscirà forse a offrirci un cinema sensibile, vivo.