La tua società si chiama L’avventurosa e sembra rispecchiare perfettamente le complicate vicende creative, ma soprattutto produttive, di ogni tuo film. Quali sono state le tappe concrete che ti hanno portato alla decisione di lavorare in maniera indipendente?
Dopo diversi anni siamo tornati a produrre un film con la nostra società. Il primo, Il passaggio della linea, era stato prodotto da Indigo, con un budget molto basso, poche migliaia di euro che ci diede Nicola Giuliano e tutti lavorarono sulla base del mutuo appoggio. Poi il film, una volta montato, piacque e ci invitarono a Orizzonti a Venezia, così Indigo si impegnò a stampare una copia in 35mm, poi acquistata da Raitre. Chiusa quell’esperienza, i gesuiti mi invitarono a Genova per fare La bocca del lupo, mettendomi a disposizione trentamila euro e gli appartamenti in cui far stare la troupe. Quando il film fu pronto, dal momento che non avevamo soldi per fare la post-produzione, mi rimisi in contatto con Nicola Giuliano e il film si trasformò in una coproduzione con Indigo, perché entrò anche Rai Cinema – a film già fatto, sia chiaro. Lo dico perché nessuno ha mai creduto in me, sulla carta, sulla base di un’idea mia o di un progetto… I finanziamenti che ho trovato li ho sempre trovati a film concluso. Vi faccio qualche esempio di progetti proposti ai produttori: Il cardo di Simenon, Martin Eden di Jack London, Le armi, l’amore su Piasacane, da Tadini… In ogni caso, da La bocca del lupo non ho ottenuto niente, sul piano economico, ma ho vinto tanti premi, e con quelli ho campato.
E per Bella e perduta com’è andata?
Anche Bella e perduta dovevo farlo con Indigo, ma nemmeno quest’idea gli piaceva e allora mi son detto “basta”, così abbiamo messo in piedi L’avventurosa. Grazie a Mario Gallotti, un filantropo che figura come produttore associato del film, abbiamo trovato il budget che ci ha permesso di dare l’avvio al film e comprare le attrezzature necessarie. Altri soldi li abbiamo trovati attraverso Rolex (per il premio nuovi talenti che ha vinto Sara Fgaier, montatrice e produttrice del film) e infine abbiamo avuto la fortuna di incontrare Paola Malanga di Rai Cinema che ci ha seguito dall’inizio alla fine, contribuendo al film anche a livello economico in maniera rilevante.
Come doveva essere all’inizio il progetto di Bella e perduta e come hai lavorato alla sceneggiatura con Maurizio Braucci?
Inizialmente era stato pensato come un viaggio sulle tracce di Piovene che, negli anni ’50 fece per la Rai un’inchiesta che poi divenne un libro (Viaggio in Italia, ndr). Scelsi di partire dalla Campania perché era il territorio che conoscevamo meglio, e in particolare dalla Reggia di Carditello, in cui è avvenuta la mia formazione alla bellezza: uno dei tanti monumenti artistici che in Italia ci permettiamo di lasciare nell’abbandono più assoluto… Ci interessava capire quale fosse la temperatura del Paese, per così dire, una sorta di inchiesta – che è la maniera in cui io comincio quasi sempre, anche Il passaggio della linea è cominciato così, come inchiesta sociale, per poi trasformarsi in poema notturno. Poi Bella e perduta ha trovato da solo la sua strada, trasformandosi in qualcos’ altro rispetto a quello che era in origine. Con Braucci, che conosco da tantissimo tempo, siamo partiti da un semplice canovaccio, anche perché la morte di Tommaso ci ha messo di fronte a una situazione estremamente complicata, che poteva risolversi solo con l’intervento della fiaba. In questo senso, posso dire che la scuola del documentario per me è stata fondamentale, perché è con il documentario che ti fai le ossa, impari a lavorare con gli imprevisti, a montare in camera… Faccio sempre l’esempio di Ermanno Olmi, che ha esordito con i documentari per la Edison, perché se poi guardi un film come Il tempo si è fermato capisci in che modo il documentario può aiutarti ad affrontare la finzione in maniera più semplice, diretta.
Raccontaci dell’incontro con Tommaso, l’angelo di Carditello.
Eravamo curiosi di vedere questo luogo, la Reggia abbandonata, e quando siamo arrivati al cancello lui ci è venuto incontro per capire cosa volevamo, pensando che fossimo zingari! Ho capito che era lui “l’angelo di Carditello” di cui si parlava e gli ho chiesto se volesse venire a mangiare una pizza con noi. A lui questo deve aver fatto molto piacere, perché nessuno gli aveva mai chiesto una cosa del genere e, anche se quella volta non poteva, ci ha dato appuntamento alle 8 della mattina dopo. Si è fidato subito di noi. Tommaso è un eroe del nostro tempo, un uomo semplice, un pastore cresciuto nelle campagne, affascinato da tutta questa bellezza che gli stava intorno, anche se non sapeva come prendersene cura, una sorta di “poeta che non sa scrivere, come Kaspar Hauser, che conosce la storia ma non la può raccontare. Il paradosso di Tommaso era che un posto come quello, con affreschi di Hackert, fosse finito in mano a un pastore, a fronte di uno Stato totalmente assente – perché l’altro, grande paradosso è che a pochi passi dalla Reggia c’è un’enorme discarica… E dove lo Stato è assente, ci sono il Bene e il Male, la resistenza e “l’uomo in rivolta” di Camus, l’Angelo insieme al Diavolo. E Tommaso era questo, “l’uomo in rivolta”, molto scettico nei confronti della società civile… anche se confidava molto nell’ex ministro dei Beni Culturali, Bray, che si presentò da lui in bicicletta e gli promise di occuparsi della Reggia quando non interessava a nessuno. Era stata depredata in ogni modo, nei decenni precedenti: sono state portate via le scale, i camini e i comignoli, tutto quello che si poteva portare via è stato portato via… La cassa del Mezzogiorno realizzò all’interno un Museo agricolo e pure quello fu completamente depredato… c’è gente che ci ha fatto dentro la latitanza…
Con l’improvvisa morte di Tommaso siete stati costretti a ripensare il film, però…
Tenete presente che io ho incontrato Tommaso anche il giorno prima che morisse, la vigilia di Natale, e quello che successe non ve lo posso raccontare, perché per me ha un senso troppo intimo, privato… Lo vidi, e dodici ore dopo morì… Esattamente quando il ministro Bray aveva fatto passare la legge per acquisire la reggia, tra l’altro… A quel punto sentivo un enorme senso di responsabilità nei confronti del film, della storia che dovevamo raccontare, di Tommaso. Avevamo il bufalo che era rimasto da solo e abbiamo pensato che sarebbe stato lui a compiere questo viaggio attraverso l’Italia. E siccome non sono in tanti a poter portare in giro un bufalo di cento chili ho subito pensato al mio amico Sergio Vitolo per il ruolo di Pulcinella. Sergio fa il fabbro ma ha pure girato un film da regista, in cui ho fatto da aiuto quando avevo 24 anni: Il ladro, in cui mentre scorrono le immagini di Pickpocket di Bresson lui racconta com’è cambiato il mestiere del borseggiatore… Anche Sergio è stato fondamentale per il film: c’è un momento in cui si toglie la maschera e prende consapevolezza di quello che stiamo facendo. Si tratta di un momento dal forte valore simbolico ma dove, davvero, ha capito qual era il senso del film e del suo ruolo. Capita spesso, nei miei film, che i personaggi compiano un percorso individuale che li porta a scoprire qualcosa di sé. Penso a La bocca del lupo dove, dopo sei mesi che lavoravamo insieme, sono riuscito a ottenere quella testimonianza fondamentale per la riuscita del film.
Il film ha un inizio molto forte incentrata sul mondo dei Pulcinella.
Quella è la parte più costruita, e mi crea qualche problema, quando la rivedo. Ma si tratta di un mio problema, lo so. La stessa cosa vale per La bocca del lupo: tutti mi parlano sempre della scena del bar, che è quella che io amo di meno. Il finale, invece, è la parte che preferisco, perché lo trovo estremamente naturale, come se il film mi avesse portato lì da solo. Bella e perduta ha seguito una vera e propria cronologia, e la scena finale, nella quale il bufalo va a morire, è l’ultima che ho girato. Tenete presente che io monto già mentre giro, non sono uno di quelli che gira ore e ore di materiale per poi fare il film al montaggio. I film devono possedere una loro energia alchemica, un loro dramma interiore che li salva dai possibili difetti, perché c’è un punto di vista etico, morale che li sostiene. Questa consapevolezza è alla base di ogni mio gesto cinematografico: prima di arrivare a fare un primo piano, ad esempio, ci metto del tempo perché lo considero un momento estremamente importante, in cui si deve restituire dignità al soggetto filmato, non è una cosa che riesco a prendere alla leggera… Infatti, se rivedete i miei film precedenti di primi piani stretti ne ho sempre fatti pochissimi.
Le soggettive del bufalo come le avete ideate, invece?
Quelle sono state girate a manovella. Ho trovato una vecchia macchina a manovella che era in grado di dare la giusta scansione del tempo e ho messo insieme un grandangolo “aberrato”, per così dire. Dentro di me mi chiedevo “Come guarda il bufalo?” e così ho fornito una mia libera interpretazione dello sguardo di Sarchiapone. Ci siamo molto divertiti a farlo – non pensiate che io m’incazzi soltanto, sul set, mi diverto anche!
La voce di Sarchiapone, un canto dagli echi Leopardiani, è affidata a Elio Germano. Come è nata questa relazione?
Avevamo bisogno di una voce che desse profondità al testo che avevamo scritto. Germano ci è sembrato l’attore in grado di entrare in relazione con il film. Quello che decisamente non volevo fare era il “Bambi parlante”, cercavo una voce interiore in grado di fare dell’animale un personaggio vero e proprio, così come lo era stato Tommaso… Si tratta di un’animale che scappa da una morte prematura, anche il bufalo è un eroe! All’inizio pensavo di concentrare il film sulla figura di Tommaso, che ha salvato questo bufalotto dalla morte. Poi le circostanze mi hanno fatto cambiare direzione: la notte di Natale Tommaso è venuto a mancare, allora Sarchiapone ha preso il suo posto. L’animale è una vittima del nostro sistema: un tempo i bufali trainavano i trattori ed erano amici dell’uomo, oggi sopravvivono solo le femmine per produrre latte. Così Sarchiapone è il simbolo di un’alleanza perduta con il declino del mondo contadino e la sua voce può essere sentita da Pulcinella, una maschera che collega il mondo dei vivi e quello dei morti, anche se solo per il tempo di una fiaba.
Locarno, 12 agosto 2014