Da quando è stato presentato per la prima volta di fronte al pubblico di Cannes il 18 maggio 2015, Inside Out non ha smesso di raccogliere applausi commossi ed entusiastiche esegesi. Un film capace di catalizzare l’interesse di un pubblico così trasversale è merce sempre più rara in un’era di sale vuote e ogni interpretazione tardiva dovrebbe tenere in considerazione questi aspetti legati alla ricezione. In modo particolare per un film che parla di emozioni, dando forma e colore a cinque agenti primari (Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto) e trasformandoli nei protagonisti della vita interiore di una ragazzina di undici anni messa di fronte a grandi cambiamenti. Emotivo è anche il primo responso della maggior parte degli spettatori, felici di poter gridare al “ritorno della Pixar” e al felice ritrovamento di quello slancio verso la meraviglia universale cui ci aveva abituato fino a pochi anni fa. Ma è nella rappresentazione del funzionamento del nostro cervello che il film ha trovato maggior attenzione, stimolando critica e pubblico, giovani e adulti, accademici e commentatori seriali a improvvisarsi psicologi e neuroscienziati. Queste due reazioni al film (emotiva e razionale) e le relative interpretazioni (il “film meraviglioso” e il “film pensante”) costituiscono assieme la formula del successo e il nucleo della filosofia del quindicesimo lungometraggio della Pixar.
A ben guardare, non si tratta di un consenso unanime. Dallo stoccaggio di ricordi alla formazione di pilastri di affetti e competenze che determinano la nostra personalità e la nostra esistenza sociale, il cervello secondo la Pixar ha acceso un dibattito fra critici e fautori questa fantasiosa semplificazione. Fra chi, da una parte, elogia il progetto di Pete Docter e Ronnie Del Carmen per la sua vicinanza a un’immaginazione feconda e pedagogica non dissimile da quella della letteratura di Calvino e Borges, capace di raccontare qualcosa su noi stessi e dare un’interpretazione creativa e singolare alla nostra vita interiore; e chi, dall’altra, lo vede come una raffigurazione tecnocratica e reazionaria del pensiero umano, utile solo a giustificare la visione del mondo intero, emozioni umane comprese, come un infinito catalogo di big data stoccabili dove non c’è spazio per il libero arbitrio e l’elemento aleatorio. Quest'ultima è la versione di Anna Lauren Hoffmann e Luke Stark, che sulla Los Angeles Review of Books hanno scritto un articolo in cui accusano il consulente psicologico del film, Paul Ekman, di aver venduto a Hollywood una teoria che tende a ridurre le emozioni umane a un pattern errato e tutt'altro che universale.
Quella della non-universalità, oltre a essere il capo d’accusa comune a tutte le (poche, a dire il vero) recensioni negative (un’altra, ad esempio, lo accusa di concentrarsi sui falsi problemi di una ragazzina privilegiata), è un’obiezione che pesa, considerati i presupposti universalistici dell’intero mondo Pixar. Dare sensibilità e logica organizzativa ai soggetti meno adatti a essere raccontati in termini emotivi o produttivi è una delle sfide costanti dello studio d’animazione. L’originalità con cui sono riusciti di volta in volta a dotare di sentimenti e senso imprenditoriale giocattoli, insetti, mostri, macchine e robot è ormai una firma d'autore più che una strategia sentimentale che punta all’accettazione e all’unanimità. Il fatto che Inside Out giochi a dare un’immagine pseudo-industrializzata a concetti astratti e questioni di ambito timico-cognitivo (alzando quindi la posta rispetto alla celebre serie di cartoni animati francesi di fine anni Ottanta Esplorando il corpo umano) va preso in questo senso: come la summa di una poetica autoriale che tende a far convergere cuore e cervello, tecnologia e sentimento. Il modo in cui realizza questa simbiosi è un progetto esplicitamente narrativo, prima ancora che pedagogico o pseudo-scientifico. Inside Out dà alle emozioni di una preadolescente una struttura classica e lineare, ma posta in una forma indiretta, mediata. Il viaggio di Riley verso la malinconica presa di consapevolezza della fine dell’infanzia si realizza non tanto attraverso il tentativo di scappare di casa, quanto nel vero e proprio “viaggio dell’eroina” Joy attraverso i territori del cervello per far ritorno alla torre dei comandi. La sua rivelazione del ruolo e dell’importanza di Sadness nel mondo interiore è la trasposizione narrativa e fantasiosa della presa di coscienza di Riley in quello esterno. Non è certo la prima volta che la Pixar si serve delle regole auree dello storytelling classico, ma finora non se ne era mai servita all’interno di una mise en abyme, creando un romanzo di formazione di secondo grado in cui i due percorsi si svolgono in parallelo e mostrano continuamente le reciproche influenze (le reazioni nella “cabina di regia” agli stimoli esterni; le reazioni di Riley alle attività delle cinque emozioni). Il cinema contemporaneo ci ha abituato a vedere in questa nuova inclinazione per il complex storytelling e per gli intrecci di trame e sottotrame uno dei motivi che mettono d’accordo cuore e meningi, spettacolo e sciarada. Ma, al contrario dei costrutti barocchi e ardimentosi di Christopher Nolan o di Charlie Kaufman, Inside Out propone una versione leggera e accessibile di un’avventura cerebrale, avvicinandosi al metalinguaggio solo nel senso più epidermico: una storia sulle emozioni attraverso le emozioni. L’universalità del film sta proprio in questa soggettività eletta a oggetto di racconto: una mente e il suo sentimento guida protagoniste assolute (“tradite” soltanto sotto le mentite spoglie della gag con la visualizzazione delle plance di comando dei genitori e di vari personaggi umani o animali di San Francisco nel finale del film). Qualunque progetto non centrato su un unico personaggio o che coinvolgesse un’emozione in più avrebbe inevitabilmente appesantito questo equilibrio narrativo, come ha dichiarato in più occasioni lo stesso Pete Docter in conseguenza della scelta di incentrarsi su cinque caratteri.
Dopo quasi un lustro al ribasso, la Pixar è quindi tornata a produrre la sua merce d’eccellenza (la meraviglia) confezionata ad arte con il giusto collante emotivo (il nostalgismo). Che questa filiera rispecchi la logica della Silicon Valley e riesca a modulare i battiti cardiaci e gli slanci di commozione non rende tali emozioni meno reali. Anzi, è la riprova che anche gli affetti sono razionalizzabili e possono essere schematizzati con giovialità grazie ai motori narrativi. Che è in fondo la sintesi perfetta di tutti i motivi per cui non possiamo non definirci pixariani.