Dove siamo, in quale tempo? Cosa sono queste panoramiche quasi in cinemascope di paesaggi western? Fin da subito, infatti, in Behemoth (Beixi Moshuo) di Zhao Liang – uno dei due documentari in concorso a Venezia – fa capolino la visione di un vasto paesaggio di colline grigio-blu, dalle ampie sfumature, un po’ come nei film cinesi in costume dove le montagne sono al crepuscolo o avvolte nella nebbia, o come accade nelle antiche pitture cinesi.
Paesaggio torturato e immobile rotto da un’esplosione al rallentì dove le rocce vanno in mille pezzi, evidente citazione di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni. Ma un prato di un verde psichedelico rompe in seguito analoghe inquadrature, tagliandole a metà, lungo la linea orizzontale, come fossero tagliate da uno specchio, uno specchio sul punto di spaccarsi in frammenti, seppur ampi. Piramidali.
La metafora dello specchio, nel quale sono riflesse, distorte, amplificate le nostre speranze, le nostre sofferenze, le nostre ambiguità e la nostra negatività, costella il film dal principio alla conclusione: non solo per il fatto che un viandante porta su di sé uno specchio dall’inizio alla fine, ma perché – come se lo specchio piccolo in movimento fosse un pantografo, cioè dal micro al macro – è più volte ripetuta un’inquadratura panoramica come spaccata in tre segmenti, dalla forma piramidale.
Siamo in Mongolia, dove distese di miniere di carbone si perdono quasi a vista d’occhio. Ma la perdita di punti di riferimento, di spaesamento, che il film suscita nello spettatore, è controbilanciata da una chiara intenzione descrittiva, in certi innesti di montaggio, sequenze, testo della voce narrante fuori campo. Nella prima parte, quasi troppo, ma forse volutamente accettata dal giovane regista, poiché si sente una grande urgenza di denuncia, se non di mobilitazione.
Al regista riesce un notevole innesto, o meglio ancora, ibrido riuscito, tra documentario d’autore (descrittivo, ma l'intento è anche quello di coniugare denuncia con pedagogia) e documentario di poesia, quest'ultimo volto a creare immagini di condensazione simbolica, spesso sofisticata, e immagini semplici, volte a trovare l’umano, a saper vedere nuovamente i volti (o a saperli vedere come nuovi): la loro verità, la loro sofferenza. Nella costruzione d’immagini poetiche raffinate e sofisticate, emerge una seconda ibridazione, quella con l’arte contemporanea, con le installazioni. Talvolta quella che ormai è una costante stilistica del cinema d'autore d'Estremo Oriente, si rivela forse un po’ stucchevole, poiché il confine tra estetica raffinata, ma densa di significato e d’interiorità, e immagine estetizzante, pretenziosa e vuota, è sottile, e forse lo è anche in questo caso specifico, ma nel complesso il regista non fa che scegliere con sapienza, e sapendoli fotografare con altrettanta sapienza, frammenti – ancora una volta – del reale. Aggiungendoci un piccolo tocco di costruzione, di messinscena, come nel caso del viandante, o del misterioso uomo nudo (in realtà il narratore), che vediamo più volte disteso nell’erba verde-psichedelica in una posizione fetale.
Qui sta uno degli aspetti più interessanti del film. Quanto filmato dal regista raggiunge infatti un tale grado di surrealtà nella realtà, che basta un piccolo ingrediente in più, un granello estraneo, per sottolineare questo gradiente, cioè quanto tutti possiamo cogliere nel reale di meraviglioso. O di inquietante. Due aspetti, il paradisiaco e l'infernale, che nel film paiono confondersi. Tutto è uno specchio. La meraviglia di un reale che diviene irreale per quanto è surreale, è speculare all’angoscia, ma è un’angoscia benigna perché foriera di consapevolezza: elemento base, la presa di coscienza, perché la cose possano cambiare.
Ovviamente il piccolo ingrediente rivelatore, come detto, da parte del regista è inserito in un lungo, lunghissimo lavoro preparatorio di costruzione della messa in scena documentaria. Le miniere filmate dall’interno e la sofferente umanità o la corte dei miracoli di esseri umani sofferenti e malati dimenticati da tutti, diventano quindi gli squarci, i tagli nello specchio di cui abbiamo detto in apertura, squarci improvvisi di realtà umana in quest'ambiente che ha perso l’umano. Il sentire umano e forse anche la ragione umana. Ancora la duplicità, la specularità.
Squarci, tagli che ci riportano moralmente al reale, a quanto è essenziale. L’inumanità prossima e ventura è ormai qui. Il mondo demoniaco, quello di certi film di genere degli ultimi anni (come Hellboy o Costantine per esempio), ha fatto irruzione nel mondo terreno. È qui. La fantascienza prossima e ventura è già qui. L'arcaico e il (post)moderno sono qui. Assieme. Ancora la dualità.
È il liberismo ad uccidere l'empatia tra gli esseri umani, a creare questa dualità, questa schizofrenia, questa sfasamenti nello spazio e nel tempo. Il clou della surrealtà immessa nella realtà, ovviamente, è la sequenza finale nella metropoli nuova di zecca, dai palazzoni giganteschi, ma vuota. Pulita e perfetta, è una città fantasma. Fatto salvo per gli impiegati della nettezza urbana.
Non è l’unico film cinese ad aver fatto uso di una sorta di cinemascope, e a richiamare una sensibilità alla John Ford (tra i cineasti favoriti di Antonioni) nel filmare i paesaggi desertici della Cina: è il caso di The Ditch di Wang Bing (in Concorso al festival di Venezia nel 2010), un vero capolavoro rimasto purtroppo inedito da noi. Tra i più grandi cineasti viventi, il documentarista – in quel caso al suo primo film di finzione – denunciava un grande ma poco noto crimine del regime maoista, quello di dissidenti spediti nel deserto di Gobi e rinchiusi in grotte-catacombe di terra, e abbandonati a consumarsi, a morire di stenti e solitudine.
Zhao Liang in qualche modo prosegue idealmente quel film geniale. Del resto il giovane cineasta è da sempre dietro a situazioni umanamente disperate quanto rivelatorie dello stato del suo paese. Petition era il suo lavoro finora più importante, presentato a Cannes nel 2009: girato nell’arco di vari anni, dal 1996 al 2008, e intervallato con altre opere, è un’immersione in un’altra corte dei miracoli, quella dei parenti dei condannati a loro volta condannati a eterne petizioni, ai loro iter dai procedimenti senza fine.
Abbiamo detto corte dei miracoli per l’umanità dolente di Petition, ma avremmo potuto dire gironi danteschi infernali, proprio come per questo Behemoth, dove la metafora di matrice occidentale, dall’opera di Dante Alighieri fino al libro di Giobbe, non impedisce una metafora più sottile, quella che siamo tutti parte dello specchio dell’umanità, siamo tutti (una) parte, anzi frammenti, del tutto e della sua immensità, in sintonia con le filosofie orientali. Vogliamo sottolinearlo ancora una volta? Tutto è speculare.
Poiché Behemoth siamo tutti noi, come ha anche dichiarato il regista, siamo anche noi che ci auto-derubiamo del futuro, e non soltanto l’assurdo potere cinese (un potere a volte visibile, a volte invisibile, ma sempre pesante come una montagna). Ma quelli di Behemoth sono anche i frammenti di una società cinese sempre più frammentata, distorta, scissa: nelle relazioni umane, interiormente, per il fatto di seguire ciecamente modelli occidentali imposti dall’alto. La citazione iniziale di Antonioni, certamente il regista occidentale di maggior influenza sul cinema d’autore dell’estremo oriente, assume così tutto il suo significato, poiché Zabriskie Point è certamente il film-manifesto dell’uomo ormai esploso, scisso, privo di unità, disperso in mille frammenti. L’uomo postmoderno. La specularità permane, anche se finalmente si tratta di un’influenza occidentale positiva.
Lo specchio, insomma, riflette all’infinito. Essendo però un specchio fissurato, oltre a rovesciare distorce all'infinito.
(il testo è una rielaborazione di quello pubblicato sulle pagine web di Internazionale)