È facile odiare Hollywood. Lo è stato anche per me. Ma questo succedeva molti anni fa. Da allora nessuno dei due è invecchiato molto, credo; ma l'età incombe, e i nostri sentimenti reciproci sono un po' meno appassionati. Tanto per dirne una, non vivo più a Hollywood. Una volta, un'affermazione come questa sarebbe suonata puro snobismo; oggi è la realtà. Un tempo fingevo malinconicamente di essere di passaggio, con un'occupazione temporanea. Un autoinganno per nulla originale: nella colonia del cinema una buona metà della popolazione lavoratrice, compresi molti degli abitanti più vecchi, tengono vivo lo spirito con questa finzione. Comprano casa e per metà della propria vita ci abitano senza mai disfare le valige. Mi sembra rassicurante annunciare che sono uno di quelli che se ne sono andati. Ho scelto la libertà – e già da qualche tempo. Oggi, quando mi capita di attraversare la chromium curtain, non lo faccio mai senza avere con me un biglietto di ritorno per il “mondo di fuori”. E sto bene attento a non stare troppo seduto: in questo bizzarro clima, alzarsi in piedi diventa all'improvviso qualcosa che eccede le aspirazioni dell'individuo. A Hollywood, gli uomini più giovani sono pericolosamente indotti alla siesta. Rimandando il risveglio alle 16:30 non ne trarranno alcun giovamento. Con tutta probabilità, quando apriranno gli occhi avranno sessantacinque anni.
È stato Fred Allen a dire, con il suo caratteristico equilibrio, che «la California è un posto stupendo, se sei un'arancia». Immagino che Fred si riferisse alla regione di Los Angeles, la cosiddetta Greater Los Angeles (più grande di cosa?). Come tanti di noi, era la parte della California che conosceva meglio e che gli piaceva di meno. Comunque, come i coltivatori di agrumi sono i primi ad ammettere, con lo smog hanno perso il gusto di vivere anche le arance.
Quando parliamo di Hollywood ovviamente stiamo parlando anche degli studî cinematografici e televisivi nella San Fernando Valley; delle beach houses, delle ville e dei palazzi di Santa Monica e Malibu. Intendiamo la colonia cinematografica, così espansa e diluita, e l'industria stessa, anche se non domina più la scena come una volta. Fra le maestose abitazioni di Bel Air e Beverly Hills, i petrolieri sono numerosi quanto le star del cinema, e oggi gli studî più fortunati sono pieni di trivelle.
Stando alle carte, Hollywood è un distretto confinante ma non appartenente alla città di Los Angeles. Ma questo rilievo non è esatto: Los Angeles, per quanto ricca e popolosa, non ce l'ha mai fatta a diventare una città. Resta ancor oggi una approssimativa, disordinata confederazione di suburbi e centri commerciali. Il centro di Los Angeles poi, la sua downtown, è metropolitano più o meno quanto Des Moins o Schenectady.
Manca l'aria della metropoli. Né il teatro né i suoi artisti hanno mai dato il meglio in un sobborgo o in un campeggio di roulotte. Che lavorino di fronte a una macchina da presa o dietro alle luci della ribalta, gli attori sono, per loro natura, gente di città. Hollywood è più che altro una colonia. (Le colonie sono notoriamente tagliate fuori dalla realtà: insulari, scontrose, lobbistiche e snob – rilassate sotto il profilo della morale, ma attaccatissime alla forma). Una colonia dovrebbe essere l'avamposto di un impero. Hollywood è un avamposto della civilizzazione (termine che indica la “cultura cittadina”, dopotutto), ma è anche il cuore dell'impero del cinema: una capitale senza metropoli, mentre fra le sue colonie vi sono alcune fra le città più celebri al mondo.
In qualsiasi branca del teatro, ciò che vi è di meglio possiede sempre quel certo aroma di tradizione. La cara, vecchia, scalcagnata Times Square, per esempio, ha le sue radici nell'antica Roma e nel Medioevo. In fin dei conti, si trattava di una sorta di mercato, secondo l'antica tradizione. I locali e i bar nei dintorni di Broadway rimangono quel genere di posti in cui la gente di spettacolo si è sempre raccolta, da Atene a Madrid, a Londra, a Parigi, a Pechino. Ma Hollywood, che raccoglie la più numerosa popolazione d'attori che si sia mai concentrata in una singola località, è anche la prima città nella Storia senza pub o bistrot. In California, la tradizione della “Mermaid Tavern” ha aperto la strada ai country club. Una classe media rigorosa e ordinaria sta prendendo il posto del chiasso e delle abitudini circensi del recente passato.
E il famoso sole di Hollywood tramonta davvero? Di certo trapela un bagliore di crepuscolo dallo smog, e di recente sulla vecchia capitale del cinema è calata un'ombra di flanella grigia. La televisione si sta inesorabilmente spostando a Ovest. Svuota le sale dei cinema di tutto il Paese, e riempie gli studî cinematografici. Un'industria diversa sta costruendo una città affatto diversa; e già vediamo sorgere dalle sfarzose rovine di cinelandia una sottospecie nuova, tetra, goffamente solenne dell'antica assurdità.
È inevitabile che ci sia una forte presenza dell'assurdo in una fabbrica di sogni, ma adesso c'è anche meno da ridere, e anche meno da amare. La gaiezza febbrile se n'è andata, una certa sfrontata vitalità s'è esaurita. La TV, dopotutto è un ramo dell'industria pubblicitaria, e Hollywood si comporta sempre di più come una consociata di Madison Avenue.
La televisione – dal vivo, registrata su nastro o su pellicola – è ancora limitata dalla barriera linguistica, mentre per sua natura e per ragioni economiche il cinema è multilingue. Fare cinema è sempre stata un'operazione internazionale. I registi, gli scrittori, i produttori e soprattutto le star vengono a Hollywood da tutto il mondo, e i film sono rivolti a un pubblico mondiale. La nuova industria cittadina è una minaccia per il tradizionale cosmopolitismo di Hollywood, e gli sostituisce sapori strapaesani. Non potrebbe essere altrimenti, visto che la televisione esiste al solo scopo di vendere prodotti americani ai consumatori d'America.
E poi c'è la questione dei soldi. La televisione fattura milioni, ma nessuno show televisivo costa più d'un milione di dollari: i più sontuosi hanno spesso lo stesso budget di un film di serie B, mentre tutti gli altri sono realizzati a basso costo, spalmando una grossa somma lungo l'intera stagione. Il solo consistente spreco di risorse in questa nuova industria riguarda il talento. Un western televisivo di mezz'ora, moltiplicato per tre, dura quanto il primo programma di una sala cinematografica. Ma se considerate il costo totale di tutti e tre, risulterà che avrete meno della metà del budget minimo per un secondo spettacolo. Alcune star della TV con una serata a Las Vegas guadagnano più o meno la stessa cifra che la produzione spende per uno dei loro show televisivi – cifra che include l'intero cast e la troupe, script, scene, fotografia, pellicola, costumi, musica, incisione, missaggio, sviluppo, assicurazione – oltre al loro salario. Questa stritolante spilorceria va contro i più radicati istinti della città; ma adesso, con i maggiori studios cinematografici che stentano a completare progetti in economia con troupe ridotte all'osso, l'atmosfera da corsa all'oro, che un tempo faceva il fascino vertiginoso di Hollywood, è ormai solo un ricordo.
Nell'età d'oro di Hollywood – i primi anni del boom del cinema – l'atmosfera e i costumi erano davvero molto simili a quelli di una corsa all'oro. C'erano la frenesia e il tumulto piratesco di una California precedente: i grandi patrimoni fondati in un giorno e sperperati in una notte; la stessa allegra violenza, la stessa anarchia da tagliagole. A tutta quella turbolenza da western è stato messo un silenziatore, adesso; il fascino selvaggio è scomparso.
La fantasia architettonica è in declino, la gioviale volgarità dello sfarzo se n'è quasi andata, gli eccessi più sfacciati rasi al suolo o in rovina. Nei “migliori” quartieri residenziali e degli affari, ha preso il comando una specie di “buon gusto” ufficiale. Ne risulta una distinzione standardizzata, sterile e senza gioia, che però bene esprime l'ardente desiderio di rispettabilità che anima tutto l'ambiente.
Fino a oggi, per tutta una lunga storia, alla gente di spettacolo era stata impedita la rispettabilità. È significativo che la professione teatrale non avesse contatto (o contaminazione) con le classi medie. Infatti solo da pochissimo abbiamo cominciato a utilizzare il termine medioborghese di “professione”. Da quando nominare l'arte ha cominciato a metterci in imbarazzo abbiamo anche cominciato a cadere in disgrazia. All'improvviso, ci siamo messi ad aspirare al rango mediocre di signore e signori. Prima, come tutti gli artisti, di rango non ne avevamo affatto, e trovavamo la nostra dignità fuori da ogni protocollo.
Il malessere che attanaglia la nuova Hollywood – e i suoi film, e coloro che li fanno – si può far risalire, penso, a questa fatale ascesa verso la buona società. Ascesa che ebbe inizio un disastroso mattino del secolo scorso, quando Henry Irving, il grande attore tragico inglese, s'inginocchiò davanti alla regina Vittoria per accettare il primo encomio rivolto al teatro. A Irving il cavalierato sembrò un'uscita dal vecchio mondo degli zingari, una liberazione dal vagabondaggio; pensava avrebbe conferito dignità alla sua “professione”, santificandola tramite la rispettabilità. Non dobbiamo rimproveragli d'aver accettato quegli onori reali che avrebbero incommensurabilmente promosso di rango i teatranti. Parecchi dei suoi compatrioti sono tutt'ora d'accordo con lui. Per quanto mi riguarda, sono convinto che che questa famosa elevazione sia stata, viste le conseguenze, nient'altro che che un'abdicazione. Non penso che i signori del palcoscenico meritassero d'essere classificati fra la piccola nobiltà. Trovo che meritassero molto di più. Sir Henry, rizzatosi in piedi col titolo di cavaliere, ha portato tutti noi in un'altra dimensione – non superiore ma laterale, integrandoci perfettamente e una volta per tutte nella middle class.
Quel ch'era inattaccabile nella nostra posizione era che non ne avevamo nessuna. Fino a quando non abbiamo avuto un posto fisso – né a capotavola, né in cucina – un attore è sempre stato libero di sedere dovunque fosse ben accolto; spesso, molto vicino al re. (Si rilevi che tra i nostri distinti cugini del teatro britannico e i personaggi regali non c'è più la naturale intimità d'un tempo). La mia tesi è che davamo di più alla nostra arte e al nostro pubblico quando eravamo i buffoni del re, drappeggiati nel nostro tipo di porpora imperiale. La nostra corona era di latta, ma era una corona, e la portavamo a modo nostro, fra diademi simili, anche se d'oro. Per decenni dopo Irving, la nuova nobiltà del palcoscenico, su entrambe le sponde dell'Atlantico, ha dato la massima importanza alle imitazioni private e alle pubbliche rappresentazioni dei borghesi. Poi è arrivato il cinema.
Da principio, il cinema era un'istituzione alla quale gli attori “seri” potevano guardare dall'alto in basso, con tutto il disprezzo spocchioso che un tempo la rispettabilità borghese riversava sul teatro stesso. La parola Hollywood entrò nel linguaggio, e in questo strano avamposto – senza legami, senza classifiche, e in buona parte senza la minima prudenza o riguardo – una ciurma arlecchinesca di gente di spettacolo, con lo spirito più vicino al circo, alla rivista o alla commedia dell'arte che al teatro inamidato di quegli anni, produceva allegramente una nuova forma d'arte, e nel frattempo celebrava un breve ma eccitante rinascimento della vecchia follia e della vecchia gloria regale. Quella gloria s'era spenta via via che il teatro si riduceva a una professione qualsiasi. Adesso – da quando la produzione di film è organizzata come un'industria qualsiasi – la gloria comincia a oscurarsi anche a Hollywood.
Quanto c'è di valido sulle scene e sugli schermi non è mai una mera prestazione professionale, e certo non un prodotto industriale. Qualunque cosa abbia valore dovrà essere, in ultima analisi, un'opera d'arte. Non ci dovrebbe essere bisogno di ripetere che l'originalità è uno dei requisiti essenziali di ogni opera d'arte, e che ogni artista è un individuo. È altrettanto ovvio che nel sistema industriale, per sua natura, non c'è posto per l'originalità. Una persona autentica è una seccatura bella e buona, in una fabbrica. C'è del metodo in questa follia.
C'era una volta il cosiddetto “influsso di Hollywood”. Cosa notevole, oggi è il resto dell'America che influenza Hollywood. Come sempre, buona parte del divertimento la forniscono i sex symbol del momento, ma Jayne e Elvis sono troppo evidentemente creature degli esperti pubblicitari – copie carbone sfocate dei vecchi e liberi originali, le vamp e gli sceicchi che inventarono se stessi e vissero all'altezza della loro leggenda. L'ultima infornata del “Metodo” e i rappresentanti ufficiali del dell'elettorato beatnik hanno uno stile di vita personale un po' troppo imbronciato per dare colore a questo pallido scenario. Il chiasso più forte che gli riesce di fare è quello dei loro bonghi, e le loro azioni di protesta non sono meno convenzionali di quei modelli che fingono di rifiutare. Hanno il loro conformismo, questi boy scout dell'Actors' Studio. Non c'è alcuna follia nel loro metodo.
Degli autentici indipendenti, i più giovani, i Mitchum e i Sinatra, sono sulla quarantina. Di tanto in tanto il Rock 'n' Roll getta in campo qualche personaggio imprevisto, ma tipi come quelli sono cool nell'accezione letterale del termine. Il loro tipo di egotismo si scatena senza esuberanza, in una strana monotonia. Sono lo specchio della loro generazione. È così anche per i loro fratelli maggiori della comunità cinematografica, questi abitanti di uno pseudo-suburbio borghese. I due gruppi, quello in maglietta e quello in giacca sportiva , rispecchiano un'immagine più precisa dell'America contemporanea dei coloratissimi pionieri che conquistarono di slancio le frontiere di cinelandia.
Uno dei nostri produttori, per spiegarmi la scuola neorealistica italiana, mi ha detto che là al posto degli attori usano la gente. Nel bene e nel male, è certo che la città è piena di personaggi che sono ottime riproduzioni della gente di oggigiorno. È un pensiero solenne, ma forse è proprio questo che non va, a Hollywood.
(Articolo pubblicato su Esquire nel marzo 1959. Parzialmente riprodotto in in Orson Welles, Peter Bogdanovich, Io, Orson Welles, Milano, Baldini e Castoldi, 1996. Traduzione di Roberto Buffagni. Revisione e aggiunte di Gabriele Gimmelli. Testo originale disponibile online su wellesnet.com)