“Ma è soprattutto come a profondi giacimenti del mio sottosuolo mentale, come ai terreni resistenti che ancora mi sostegono, ch'io devo pensare alla parte di Méséglise e alla parte di Guermantes. Mentre percorrevo quegli itinerari, credevo alle cose, agli esseri, ed è per questo che le cose e gli esseri che vi ho conosciuti sono i soli che io prenda ancora sul serio e che mi diano ancora della gioia. O perchè la fede che crea si è inaridita in me, o perchè la realtà non si forma che nella memoria, i fiori che qualcuno mi mostra oggi per la prima volta non mi sembrano fiori veri”.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto
All'inizio di tutto c'è l'immagine di un ruscello. Non è generato dall'acqua di una brocca, come succede nel dipinto di Poussin, Pastori d'Arcadia, dal quale prendono il via le lezioni di Françoise, storica d'arte che – dopo una lunga parentesi parigina – ritorna nell'università di Rennes, dove fu studentessa e compì i primi passi per lasciarsi alle spalle un'infanzia in Bretagna. Sulla tela uno dei pastori, accovacciato a terra e voltando le spalle a un'enigmatica scritta (“Et in arcadia ego”), sta versando l'acqua di una brocca a terra, dando vita a un rivolo che ha le sembianze di una sorgente. Il dettaglio, che suggerisce lo stesso gesto della creazione, è alla base di Suite Armoricaine di Pascale Breton (regista che ha esordito con Illumination nel 2004), un film sinuoso e avvolgente che prende i ritmi di una ballata bretone per muoversi libero attorno ai grandi temi della memoria e dell'identità.
Se come annuncia l'epitaffio anche nell'arcadia c'è il segno della fuggevolezza del tempo, e quindi lo spettro della morte, la scrittura indica nelle parole di Françoise la possibilità dell'esistenza in ognuno di noi dell'arcadia. Ed è proprio quello stato interiore di infinitezza, ben rappresentato dall'età post-adolescenziale, che Françoise ha bisogno di recuperare in questo tempo tutto per sé, lontano da un compagno psicanalista e da una vita che ha dimenticato le proprie origini. In questo tempo, che si apre simbolicamente con un campo/controcampo di uno schermo e di una platea vuota (che si dovrà riempire di ragazzi prima che Françoise esca dal suo stato di amnesia), lo spazio si popola di fantasmi, bibliotecari ingrigiti, punkettone scoppiate e musicisti malinconici hanno in sè solo una vaga somiglianza con l'energia prorompente dei loro vent'anni. Scolpiti nei forti contrasti di una vecchia foto in bianco e nero o infuocati dalla grana sfatta di un video amatoriale riemergono nel loro fulgore giovanile, gli sguardi accesi dalla passione per la musica e dagli amori che forse non andranno mai come si desidera.
Epifanie di un passato che irrompono nella quotidianità ingessata della vita accademica, accompagnata dal controcampo della vita di quei giovani che oggi stanno provando a immaginare il loro futuro. Ma il passato pesa sul presente: i ragazzi si dicono orfani perchè non accettano madri che si sentono ancora figlie, come nel caso di Ion cresciuto in affido e sballottato dai servizi sociali mentre la madre Moon tentava una disintossicazione impossibile, sono ragazzi nati dopo la fine della tradizione (di una storia e di una lingua) che ha segnato i destini delle loro famiglie e che possono soltanto recuperare in forma astratta, di studio, nei laboratori universitari sul bretone e sulle usanze del territorio, sono ragazzi ormai privi della possibilità di vedere – come Lydie la ragazza cieca di cui si innamora Ion – ma non per questo di trovare un loro posto nel mondo, di scoprire un altro linguaggio e di continuare ad amare.
I giovani non hanno più coordinate entro cui muoversi, ma sembrano essere loro i padroni di un tempo (quello della narrazione) di cui possono disporre a loro piacimento. Se infatti il film si apre con Françoise bambina di fronte allo specchio, che già allude all'infinitezza delle sue sembianze quando proverà a ritornare al passato, è Ion – bambino abbandonato, ora giovane che deve riconciliarsi con la figura materna – ad essere quel tramite tra presente e passato, che con i suoi svenimenti e i suoi sobbalzi crea un ponte temporale in cui si realizza la leggera sfasatura tra la dimensione spettatoriale e quella di Françoise.
È da questa fessura che riemerge l'unico fantasma del passato che vive con la stessa urgenza e veemenza l'oggi: Moon, ragazza madre ora figlia di suo figlio, a cui sa soltanto chiedere (ospitalità, soldi, affetto) vivendo fuori da quella società di cui Ion vuole far parte. Ultima degli ultimi, ruggente emblema di una giovinezza non riconciliata, che con il suo passaggio ferisce e abbandona ma in un solo lampo riconnette con quell'io dimenticato e sepolto, risvegliato da un riconoscersi fuori dal tempo e dalle sembianze del presente.
Sta in quell'incontro l'arcadia perduta, quel fiume sotterraneo della memoria che porta a galla il pianto di un bambino e di una madre-bambina che lo tiene in braccio, un'immagine molto lontana dalla maternità scolpita nella luce di De La Tour (La Maddalena con la candela), che Ion guarda incantato nel museo, un'immagine che invece dialoga con il lato buio delle nostre esistenze e con una lingua arcaica, il bretone, in cui ancora le parole possiedono il loro risvolto magico e taumaturgico.