La storia a cui si ispira il film in questione è quella di Cheryl Strayed: il suo diario personale Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail viene romanzato e sceneggiato da Nick Hornby e diretto da Jean Marc Vallée. La storia vera, a differenza del film, non è di quelle ordinarie: Cheryl ha un’infanzia difficile, il padre è violento e alcolizzato, il suo unico punto di riferimento è la fragile madre. Dopo la scomparsa della donna, le sue poche certezze si dissolvono: entra in crisi col marito, si isola dalle amiche, diventa ninfomane e consumatrice di eroina. La Pacific Crest Trail diventa, all’improvviso e inspiegabilmente (Cheryl Strayed resta fulminata da una guida in un negozio), un’occasione indispensabile per poter ritornare sulla retta via.
Wild è un tipico film americano usa e getta, autoreferenziale e privo di qualsiasi spessore. Di selvaggio, a parte la regia e la sceneggiatura (e non nelle migliori accezioni del termine), non c’è assolutamente nulla. Nonostante l’ormai ventennale esperienza, il regista Jean Marc Vallée, divenuto famoso grazie al sopravvalutato C.R.A.Z.Y. e confermatosi con Dallas Buyers Club, cade nella realizzazione di un film che oltre ad essere acerbo e immaturo, è a tratti imbarazzante. Che la Pacific Crest Trail per la vera Cheryl Strayed sia stata un’improvvisazione, un’irresponsabile rito apotropaico e catartico, una dostoevskijana ricerca del castigo, qui conta ben poco. Valleè e Hornby trasformano una duplice e tremenda discesa negli inferi (il naufragio umano prima, la wilderness della Pacific Crest dopo) in un salottino stereotipato e ridicolmente simbolico. Pars pro toto ne sia il pericolosissimo passaggio sulla gelida Sierra Nevada ridotto ad una ciaspolata ansimante, o quello che dovrebbe essere il passaggio più impegnativo dell’intero film che consiste semplicemente nel superamento di un lastrone di pietra.
Tutto è ben chiaro fin dalla prima, esemplare sequenza: la prima inquadratura è un tipico paesaggio da cartolina (la cosa ovviamente si ripeterà a iosa), fuori campo l’ambiguo gemito (selvaggio?) di una donna. Ci si accorge ben presto che il gemito femminile è di sofferenza: gli scarponi della giovane escursionista inesperta, ora seduta sul bordo di un burrone (metafora?) sono troppo stretti (se castigo deve essere che almeno lo sia fino in fondo!) e le hanno rovinato le unghie dei piedi. Inquadratura sul volto, sempre gemente, seguita da una nuova inquadratura (doverosa) quindi sul particolare dell’unghia, che ormai si è letteralmente staccata, pertanto non resta altro che toglierla definitivamente dal dito. In seguito a questo movimento lo scarpone che la fanciulla si era tolta cade nel burrone, lei disperata (e sempre rumorosamente ansimante) afferra l’altro scarpone e lo scaglia nella stessa scarpata, accompagnandolo con un sonorissimo insulto. Stacco su di una serie repentina di inquadrature: una volpe posticcia, l’occhio di un cavallo, il volto della protagonista con una goccia di sangue, una bambina in un supermercato, il volto tumefatto di una donna e, ovviamente immancabile, la scena di un amplesso.
La pochezza registica lascia sempre un vuoto che deve in qualche modo essere nascosto, colmato o surrogato da altro, un altro che catturi l’attenzione dello spettatore e la anestetizzi. In questa cinematografia anestetizzata l’esplicita immagine-sesso ovviamente la fa sempre da padrone: che si tratti di lei che si concede a turno a due avventori di un bar nel retro del locale, in una delle sue tante avventure sessuali, o che si tratti semplicemente del fragoroso ansimare e il gemere di cui sopra: il richiamo è sempre all’istinto di base. Se non c’è il sesso c’è comunque l’immagine-forte, la scorciatoia emozionale: ed ecco l’unghia insanguinata prima descritta, esplicitamente esposta come una delle primissime immagini. Seguiranno poi: laccio emostatico con siringa, la rissa col padre ubriaco davanti ai bambini, ecc. E ovviamente non poteva mancare l’immagine a compendio di tutto: la scena patinata di sesso, con tanto di lividi in mostra insieme all’intimo nero, col ragazzo appena conosciuto al concerto. Da sempre, ciò che nel cinema sta alla base del montaggio (e quindi della configurazione del film) serve a costruire; le scorciatoie emozionali invece servono semplicemente a giustapporre: occupano spazio-tempo ma non ne creano. La sceneggiatura di Wild che si esibisce in continui e ripetuti flashback ne è un ulteriore esempio evidente: riempimenti senza forma, senza pertinenze estetiche.
All’interno di tale insieme si possono collocare almeno altri due aspetti caratteristici di questo film. Intanto, da un lato, le strampalate apparizioni simboliche o surreali: penso alla volpe posticcia, al lama e al bambino (malato) che lo cerca e che si esibisce cantando Red River Valley. Dall’altro le citazioni, che si sommano alla petulante voce narrante, lasciate dalla protagonista nei vari quaderni di passaggio. Citazioni di cui non si riesce a comprendere fino in fondo il nesso (di Emily Dickinson: “If your Nerve, deny you / Go above your Nerve”; oppure versi di rabbia scritti di proprio pugno: “Dio è un bastardo senza cuore!”) se non nel tentativo furbetto di voler nobilitare un percorso attraverso una plusvalenza di significato, che chiaramente tale percorso non ha. Pseudo bildungsroman quindi fatto di cliché e stereotipi cinematografici.
Come spesso accade in questi casi la parte più vitale del film è costituita dalle immagini della vera Cheryl Strayed durante il suo viaggio, poste in coda del film. È questa l’unica nota positiva, per il resto tutto troppo semplice e piatto, esattamente come la citazione finale: “La vera sfida è vivere!” .