Ne L'orrore soprannaturale nella letteratura, saggio sulla letteratura dell’epoca gotica e successiva, H.P. Lovecraft costituiva la distinzione primaria ed essenziale: da un lato le opere che utilizzano narrativamente il terrore generato da un evento inspiegabile per poi ricondurlo a una spiegazione razionale degli eventi (come Il castello di Otranto di Horace Walpole), dall'altro quelle in cui la ragione di ciò che avviene non appartiene a questo mondo. Lovecraft preferiva le seconde, figlie dello slancio romantico, alle prime, con le loro pedanti giustificazioni razionali post-illuministe. Il cinema del fantastico e dell’orrorifico, fin dai suoi primi vagiti, ha avuto pochi dubbi in merito su quale fosse il modello più affascinante: prima i voli pindarici di Méliès e quindi i neri soverchianti di Il gabinetto del dottor Caligari e Nosferatu, erano accomunati dal chiaro intento di mostrare su uno schermo ciò che non era possibile osservare al di fuori dello stesso. Riservando a un atto di fede il compito di accettare ("Più mi negherai e più diverrò forte" è uno degli slogan di Mister Babadook) o rigettare quanto osservato. In senso letterale, talvolta, come nel vomito di inchiostro nero espulso da Amelia in una delle scene più emblematiche e destinate a durare nel tempo di The Babadook, debutto alla regia dell’australiana Jennifer Kent. Un nome che è quasi una crasi tra babau e book, un incubo di carta e matita, un demone di cinefilia assoluta. Una creatura di celluloide che ha il cilindro di Lon Chaney ne Il fantasma del castello, le mani di Max Schreck in Nosferatu e il pallore e i bianchi e neri espressionisti del Caligari di Wiene (che si riflettono nella tetra dimora dei protagonisti, svuotata di ogni tonalità cromatica che non sia tendente al grigio cenere).
Cinefilia, quella di Jennifer Kent – un passato di attrice e poi di assistente alla regia in Dogville di Lars Von Trier –, che prova comunque a elaborare una via personale all’orrore, camminando in bilico sul confine invisibile tra le due correnti di pensiero di cui sopra, razionale e irrazionale, reale e onirico, alla maniera de L’uomo della sabbia di Hoffman. La magia sfida l'ombra, il colore l’oscurità, il gioco di prestigio e l’inganno affrontano la negazione della vita e della nuda verità. Le livre magique di Georges Méliès (ancora una volta citato esplicitamente in un film recente) contrapposto a Murnau, in un ardito gioco di sovrapposizioni sullo schermo televisivo che bombarda e ottunde una madre e un figlio senza recar loro conforto. Kent costruisce a partire da queste contrapposizioni un mirabile e azzardato esempio di sincretismo della settima arte — buona parte della cui forza visiva deriva dalla matita di Alexander Juhasz — guidato dalla volontà di spaventare, ma soprattutto di far riflettere. I simboli e le proiezioni del pensiero sui luoghi circostanti sono semplici, nel film di Kent, persino elementari, ma per questo ancor più terrificanti. Nulla di nuovo sull’orrore in seno al nucleo familiare, naturalmente, e che in buona parte non sia stato già sviscerato dalle due K litigiose di King e Kubrick. Ma la regista mescola abilmente le carte, adattandole quel tanto che basta a una sensibilità contemporanea, in cui del pater familias resta solo il ricordo, vago e indistinto, sotto forma di senso di colpa, di dannazione. Così lacerante e impossibile da estirpare da divenire mostro invincibile. Jack Torrance è morto e sepolto, ma la sua anima perseguita in absentia ciò che resta della triade attorno al focolare: una madre e un figlio, che soffocano odio e paure reciproche in un patto di mutua sopravvivenza, finché non risulta impossibile contenere l’impeto del Babadook del nostro scontento. Il legame più forte e potenzialmente più malsano esistente in natura, quello tra genitrice e prole, composto da due unità inestricabili destinate ad amarsi e odiarsi in egual misura e con pari intensità. Ambedue cinematograficamente irriducibili a una trasformazione in villain e narrativamente impossibili da eliminare ricorrendo a mezzi violenti. Kent sceglie così la via più rischiosa e, per uscire indenne dal cul de sac, ricorre astutamente a un'estetica naïf, privilegiando il passo uno alla computer graphics. Quasi fosse influenzata dalla fervida immaginazione del suo piccolo protagonista, un sinistro e prodigioso incrocio tra il Danny di Shining e una maschera di Lon Chaney, che aiuti a costruire una morale elementare e insieme ancestrale. Gli amanti del body count fine a se stesso rimarranno forse delusi, ma The Babadook rappresenta un’anomalia e una coraggiosa spinta innovativa in un genere spesso incline a rispettare le convenzioni, al punto da meritare l’endorsement via Twitter di William Friedkin. Quale miglior garanzia di autentico terrore?