Dzhokhar Tsarnaev è stato condannato l'8 aprile di quest'anno per il ruolo svolto nell'attentato durante la maratona di Boston del 2013 che ha causato la morte di tre persone e il ferimento di un centinaio. Nonostante la giovane età (era adolescente quando ha progettato il brutale atto insieme al fratello maggiore Tamerlan), è giusto che Tsarnaev venga adeguatamente giudicato e punito, e il processo in corso rischia di condannarlo alla pena di morte. Una delle immagini chiave di cui si è servita l'accusa per convincere la giuria dell'intento premeditatamente terroristico di Tsarnaev è quella in cui il giovane, sotto custodia cautelare, solleva il dito medio all'indirizzo della camera di sorveglianza.
Si tratta di un'immagine di rabbia feroce, benché triviale. È fin troppo facile, vedendo il fermo immagine, pensare che il ragazzo che compie questo gesto osceno non abbia alcun rimorso per le azioni compiute. Che una persona si consideri o meno un patriota americano e sia a favore della pena capitale, o abbia una qualche relazione diretta con gli eventi di Boston e i giorni di terrore seguiti all'attentato, è quasi impossibile non leggere questo dito medio alzato come un gesto sprezzante di antagonismo sociale. In un mondo nel quale i droni sono in grado di eliminare "terroristi" che il pubblico non vedrà mai, si tratta di un'immagine dalla forte evidenza conflittuale, capace di riassumere il tumulto di ansie e reazioni collettive seguite al settembre 2001.
Come ha messo in evidenza Glenn Greenwald, però, l'immagine in questione non è che il singolo frame di un video di sorveglianza ripreso nel luglio 2013, nel quale Tsarnaev cammina avanti e indietro nella sua cella mettendo in mostra uno spettro di emozioni e stati d'animo comprensibili e difficilmente ascrivibili alla "rabbia". Passeggia, si sistema i capelli, si arrampica per mettersi davanti alla videocamera, esibisce un segno di pace e un sorriso sfrontato, infantile, per poi sollevare il dito medio e infine rimettersi seduto. In tale contesto, il fermo immagine di "rabbia senza rimorso" si rivela più simile a un gesto di irritabilità adolescenziale.
Comunque sia, l'immagine ha provocato un terremoto mediatico e si è trasformata nel punto focale del processo a Tsarnaev. Sembra, inoltre, che il video sia stato mostrato nella sua integralità solo dopo una giornata intera in cui a dominare era stato il fermo immagine. La narrazione che contribuisce a creare, di un Tsarnaev terrorista senza pietà e senza rimorso, può trasformarsi in un fattore rilevante nella decisione della giuria e far condannare il giovane all'ergastolo o alla pena di morte.
Mettendo da parte la complessa questione riguardo la giusta pena per il terribile atto criminoso commesso da Tsarnaev, riflettere sulla relazione che lega il singolo frame del dito alzato all'integralità del video da cui è tratto richiama alla mente una particolare tensione interna all'alfabetizzazione mediatica diventata di grande rilievo in quest'epoca di continua creazione/riproduzione dell'immagine. Che si tratti delle foto su Instagram di Trayvon Martin, vittima diciassettenne di una sparatoria, o del video del diciottenne Michael Brown, apparentemente intento a rubare sigari qualche ora prima di essere freddato a colpi di pistola da un poliziotto di Ferguson, Missouri, vittime e responsabili vengono trasformati allo stesso modo in personaggi unidimensionali in grado di nutrire il bisogno rapace di progressione narrativa dell'industria televisiva.
Diventa ancora più palese, in questo senso, quanto la semplificazione della realtà sia da sempre territorio prediletto dei notiziari televisivi. Non solo: trasformare i principali protagonisti di un processo in "buoni" e "cattivi" è sempre stato il modo in cui gli avvocati hanno impostato una forte difesa o una richiesta di condanna. Narrativizzare il caos che ci circonda è la maniera in cui cerchiamo di dare un senso al mondo e far sì che la società continui a funzionare. Infine, la recente esplosione di immagini prodotte da dispositivi ubiqui come le camere di sorveglianza e i telefonini, e la creazione di profili, o comunque rappresentazioni alterate, esagerate, del proprio sé in risposta all'onnipresenza di tali dispositivi di registrazione, hanno fatto sì che entrassimo in quella che potremmo considerare una nuova era della narrativizzazione di massa.
Se tutto il mondo è un palcoscenico, e se non smettiamo mai di registrare noi stessi e gli altri su quel palco, allora possiamo dire di essere diventati tutti personaggi non-fittizi in una sorta di bizzarro, interminabile documentario performativo in diretta. Stando la complessità implicita nella messa in atto delle non-finzioni, il discorso si fa ancora più problematico quando i media e le istituzioni legali si infatuano eccessivamente – per non dire quando subentrano nel meccanismo di riproduzione – dello stato permanente di "realtà finzionalizzata" vigente. Ho già scritto riguardo la necessità che il pubblico dei documentari comprenda meglio la natura labile e intricata della performance di non-finzione ma, situata all'interno di un siffatto contesto "orwelliano", tale necessità potrebbe aver a che fare con qualcosa di ancora più preoccupante di una semplice questione estetica di fondo.
I documentari sono fatti di personaggi frutto di un'attività osservazionale compiuta su gente reale. Tali "interpretazioni" si basano sovente su sottili commistioni di identità reali e agite. Una maggiore comprensione di tale instabile relazione, può aiutarci a considerare con più cura altri tipi di performance, quali quelli proposti dai notiziari televisivi o nelle aule di tribunale. Direi che registi, critici e studiosi interessati a comprendere meglio le estetiche del documentario dovrebbero anche essere propensi a considerare l'impatto che ha il loro lavoro sulla più ampia alfabetizzazione mediatica. Se possiamo spingere il pubblico a una maggiore attenzione nei confronti delle complessità proprie della forma documentaria, forse possiamo anche spingerlo a una maggiore consapevolezza circa le narrazioni rigide e banali presentate quotidianamente dai notiziari televisivi.
Dare luogo a tale consapevolezza sembra essere uno dei propositi di Joshua Oppenheimer nell'uso della scena del talk-show all'interno di The Act of Killing. A quel punto del film abbiamo assistito a numerose situazioni in cui Anwar Congo e i suoi compari drammatizzano il motivo centrale del film (la psicologia degli assassini rimasti al potere), ma la scena in cui appaiono in TV e discutono allegramente dei loro atti è forse la più agghiacciante. L'esplorazione dei livelli di commistione di identità e rappresentazione, propria dello "spazio cinematografico" del resto del film, non può competere, per svariati motivi, con l'orrore di quelle medesime recite attoriali trasmesse in televisione di fronte al pubblico di uno studio, naturalmente propenso ad accettare ciò che vede.
Oggi, arrivati a questo punto della nostra storia di spettatori, la maggior parte della gente sa quanto la televisione può essere manipolatrice e sfruttatrice. L'idea che i notiziari diano luogo a caratterizzazioni semplicistiche e banalizzanti sorprende pochi. Ma nonostante la furia che si è scatenata intorno al presentatore dell'NBC Brian Williamson, reo di aver abbellito i propri reportage di guerra, crediamo ancora che, in qualche modo, la TV (e in genere i media di informazione) debbano dirci la verità. Come ci insegna il caso del dito medio alzato di Dzhokhar Tsarnaev, ciò che ci viene mostrato, bene che vada, è una verità parziale.
Contemporaneamente, ritengo che si stia diventando sempre più consapevoli della maniera in cui l'idea di "verità" viene elaborata all'interno del cinema documentario (si veda anche l'interessante articolo di AO Scott pubblicato qualche tempo fa sul New York Times). Approfondire tale consapevolezza, e aiutare gli altri a espandere la propria percezione circa la (quantomeno parziale) natura artefatta delle "realtà" presentate sullo schermo può avere importanti conseguenze sul modo in cui la nostra società funziona e elabora le proprie narrazioni. L'alfabetizzazione mediatica diventerà ancora più importante quando ci renderemo finalmente conto di essere tutti dei personaggi dentro un bizzarro, interminabile documentario performativo trasmesso in diretta.
(testo originariamente pubblicato su Sight & Sound; traduzione di Alessandro Stellino)