Se è vero che la fantascienza trasfigura le ansie, i timori e le nevrosi della contemporaneità in veste allegorica, è indubbio che gli orizzonti del sottogenere “post-atomico” siano legati a un’epoca in cui l’olocausto nucleare era il grande spauracchio del cittadino medio e i rifugi antiatomici si vendevano in dotazione a ogni villetta suburbana. Anche la saga di Mad Max è inevitabilmente legata al suo tempo, ma George Miller non cede al feticismo di un recupero acritico e pedissequo, com’è accaduto con molti franchise hollywoodiani degli anni Settanta e Ottanta; al contrario, rinnova il modello originale in una prospettiva che si divide tra corse furibonde e lampi metafisici, facendone l’emblema di un neo-cinema delle attrazioni che non può fermarsi mai.
La prima mezzora di Mad Max: Fury Road lo mette subito in chiaro: Miller non ha alcuna intenzione di trattenersi, ma radicalizza gli spunti grotteschi dei capitoli precedenti fino a raggiungere il parossismo. Inoltre, confeziona un universo dove la follia è intrinseca al modus vivendi dei personaggi, nutrendosi di valori distorti e mitologie che, divelte dal loro contesto originario, si fanno strumento di controllo e manipolazione del prossimo. Questa poetica dell’eccesso non può prescindere dalla reificazione dei corpi: mentre le donne vengono sfruttate come incubatrici e distillerie di latte, gli uomini sono impiegati come riserve di sangue o come schiavi combattenti, abbagliati da promesse di immortalità ultraterrena e terrorizzati dall’infamia della mediocrità. Ognuno di essi riporta su di sé le tracce vive dell’orrore quotidiano, poiché l’epica di Mad Max si consuma in una galleria di corpi mutilati, deformi e martoriati dalle radiazioni: che siano le parole tatuate sulla schiena di Max, il braccio amputato di Furiosa o i tumori sulla pelle di Immortan Joe, ogni segno è inciso a fondo nella carne di questi derelitti, e le uniche figure ancora intatte sono quelle delle giovani concubine del tiranno. Ma poco importa se i corpi appaiono freschi e attraenti, o anziani e corrosi dal tempo: è nel femminile che il regista individua il motore della rivoluzione, innescata da un gruppo di donne che reclamano a gran voce il diritto alla propria individualità.
In questo Medioevo prossimo venturo, Miller coglie inattesi scorci di lirismo apocalittico, e costruisce inquadrature di grande raffinatezza formale: i personaggi e l’ambiente si amalgamano nella splendida fotografia di John Seale, che infiamma il deserto con le tonalità sfumate del bruno, del rosso e del giallo. Tale ricerca visiva si ripercuote anche sull’azione, dove il regista trova la sintesi estrema del suo sguardo: impartendo una lezione ai colleghi hollywoodiani (spesso molto più giovani di lui), Miller imposta il film come un unico, lungo inseguimento scandito da preziosi intervalli meditativi, quando il racconto si fa più rarefatto, e il mormorio incerto di Tom Hardy apre vaghi spiragli sul tormento del protagonista. Max è un eroe seriale che non mette radici, taciturno e introverso, eppure così disperatamente umano nella sua fragilità relazionale, nella sua incapacità di stabilire legami duraturi che superino lo spazio circoscritto dell’avventura: una volta compiuto il suo dovere, volta le spalle e riprende il cammino, perenne straniero in terra straniera.
È un ritorno al principio, laddove tutto è cominciato: se gli emuli di Mad Max hanno colonizzato ogni medium narrativo (cinema, fumetti, anime, videogiochi), George Miller non fa che restituire a questa saga il posto che merita nell’immaginario collettivo, mettendo le nuove tecnologie al servizio di un’opera potente e viscerale, rinnovata nell’estetica ma fedele alle sue origini. Ormai assuefatti da un intrattenimento sin troppo edulcorato, subiamo l’impatto salutare di una narrazione impetuosa, soprattutto davanti a una catena di inseguimenti che scorrono come un fiume in piena tra esplosioni, acrobazie, maschere grottesche e notevoli finezze coreografiche. Siamo ben oltre la vecchia regola hollywoodiana che impone una scena d’azione ogni dieci pagine di sceneggiatura: Miller ribalta le proporzioni, l’adrenalina pompa dal prologo fino all’epilogo, ma le immagini hanno una tale forza “materica” da far risaltare, per contrasto, ogni singola parola pronunciata a fior di labbra. E allora, senza bisogno di ulteriori cerimonie, ci troviamo di fronte a uno dei migliori action del nuovo millennio.
Mad Max: Fury Road, regia di George Miller, Australia, USA 2015, 120’