“Cosa c’è sotto l’immagine?” è una domanda un po’ fastidiosa, perché quando lo spettatore si è stancato di interpretare ciò che rimane è proprio l’immagine. Anteporre un’arida profondità alla fertile superficie, dalla quale la prima trae la sua linfa, è un’ingiunzione a rimanere al proprio posto. Un’immagine dà sempre vita a un’altra immagine lasciandone intatta la geologia e smarginalizzando i bordi della superficie esplorabile. Se invece si è occupati a scavare si rimarrà bloccati al centro, in attesa di dissotterrare i ciottoli di senso che segneranno la fine dei lavori.
Durante la visione di Leviafan (Leviathan il titolo internazionale), quarto lungometraggio di Andrey Zvjagintsev, troppo spesso viene voglia di scavare per individuare i tratti del Leviatano, il mostro biblico di Giobbe in salsa hobbesiana. La pesante struttura, intellettuale e disseminata di simboli, soffoca e/o disciplina tutto quello che non la riguarda. Ecco quindi che il suggestivo paesaggio nel quale prende vita il film (la penisola di Kola, battuta dal Mar di Barents), i virtuosismi della regia o i volti induriti dei personaggi chiudono tutti nel medesimo punto di fuga: i fatti, o i ciottoli appunto.
Il film alterna momenti d’ironia (durante un tiro a bersaglio vengono scelti come obiettivo ritratti di leader dell’Urss – per sparare a quelli dei leader contemporanei bisognerà attendere una maggiore prospettiva storica) ad altri di grave tensione (poco dopo Kolia scopre l’amico e la moglie insieme e per poco non uccide entrambi – tutto fuoricampo), ma nel complesso soffre di un male narrativo. Tutti sono vittime degli eventi: Kolia non riesce a difendere la casa dagli assalti del sindaco corrotto Vadim Cheleviat, viene tradito dalla moglie Lylia e condannato per il suo omicidio a causa di un complotto ai piani alti. L’avvocato-amico Dmitriy, a parte fare sesso con Lylia, non può fare molto per lui e finisce con l’essere pestato e minacciato di morte dalla gang parastatale del sindaco. Lylia sopraffatta dagli stenti, dai rimorsi e dal senso di colpa si toglie la vita. Il figlio di Kolia, infine, viene affidato a una coppia che crede nella colpevolezza del padre (vittime anche loro?).
I fatti sono i soli ai quali Dmitriy crede in quanto avvocato, e ai fatti si affida per incastrare il sindaco Cheleviat (come finirà lo si è accennato poco sopra). Zvjagintsev avvocato non è, eppure anch’egli si affida agli snodi narrativi, lasciando lungo il rettilineo icone russe a suggerire i nemici reali, per realizzare il proprio quadro personale sulla Russia contemporanea. Eppure le fortune del regista russo sono cominciate con il lodevole Vozvraščenje (Leone d’Oro a Venezia nel 2003), che nella sospensione degli interrogativi trovava lo spazio per liberare uno sguardo, un pianto piuttosto che un silenzio.
Nell’opera di Hobbes il Leviatano simboleggia lo Stato assoluto e i sudditi/cittadini compongono la sua enorme mole. Questi si spogliano di una porzione della propria libertà individuale barattandola col mantenimento dell’ordine e della pace. Leviafan di Zvjagintsev si comporta esattamente allo stesso modo: le immagini sono ordinatamente sistemate all’interno della narrazione e sottomesse alla sua legislazione, in cambio di una visione scorrevole. Il film rinuncia colpevolmente alla prismaticità dell’immagine, che permetterebbe allo spettatore di uscire dalla fossa/poltrona e iniziare a scivolare liberamente lungo la superficie dello schermo.