I tuoi primi tre film, The Passage, Low Tide e Stop the Pounding Heart costituiscono quella che hai definito la “trilogia del Texas”. Quest’ultimo lavoro, Louisiana (The Other Side), indaga e racconta luoghi e genti della Louisiana. Come sei entrato in contatto con queste comunità?
Sono arrivato in Louisiana attraverso Todd Trichell, il padre di Colby, il giovane protagonista di Stop the Pounding Heart. Todd è stato una guida, mi ha fatto conoscere luoghi, usi e costumi del sud degli Stati Uniti. Ha una storia difficile: è scappato dalla Louisiana povera e disastrata per approdare in Texas, terra fertile e ricca. Si è salvato, si è rifatto una vita in Texas, ed è l’unico della sua famiglia che ce l’ha fatta a uscire dal baratro. L’ho incontrato in Texas e ho raccontato la sua nuova vita. Dopo Stop the Pounding Heart, che chiude la trilogia del Texas, ho sentito la necessità di andare a scoprire il luogo da dove è partito Todd – West Monroe nella Louisiana del Nord – per conoscere meglio le radici della sua famiglia, indagare il passato per meglio capire il suo presente. Una volta arrivato in Louisiana ho scoperto un mondo e ci sono rimasto. Dovevo iniziare una nuova esplorazione. Quel che avevo immaginato come la tappa finale di un lungo ciclo, rappresentato dalla trilogia, si era trasformato in un nuovo inizio. Alcuni dei personaggi di Louisiana (The Other Side) sono imparentati con Todd, come Lisa, sua sorella, fidanzata di Mike, protagonista del film.
Che cosa hai trovato in Louisiana?
Nella Louisiana del Nord il 60 per cento delle persone è disoccupata, distrutta dall’anfetamina e dalla povertà. Questa è la condizione da cui è fuggito Todd e che affligge ancora i membri della sua famiglia d’origine. Pensavo, inizialmente, di raccontarli attraverso ritratti di storie intime e famigliari, un po’ come ho fatto nei miei film precedenti. Poi ho capito che quell’approccio non era sufficiente. C’era bisogno di rappresentare non solo la condizione di povertà e dipendenza dalle droghe, ma anche di indagare e comprendere il sentimento di rivalsa e di rabbia che tiene unita questa comunità di bianchi, dispersa nel profondo nord della Louisiana. La rabbia è nei confronti di tutti quelli che non sono come loro e nei confronti delle istituzioni che li hanno abbandonati. Il film da intimista ha iniziato a prendere una piega politica che ha assunto poi contorni ancor più netti quando ho scovato la comunità dei paramilitari presente nella seconda parte del film. Il raggio si è allargato, come l’ambizione di raccontare qualcosa di più grande e sconosciuto: il midwest alla deriva, senza lavoro, antigovernativo e antiliberista, un posto in cui il collegamento fra le politiche di governo e l’opinione pubblica si è perso, trasformandosi in un divario. Non si trattava di raccontare solo la storia della famiglia Trichell, ma di abbracciare vicende che fossero rappresentative di una zona importantissima dell’America, quella in cui si fa – per capire – il gioco delle presidenziali.
Perché hai deciso di soffermarti sulla vicenda di Mark e Lisa, dei loro congiunti e famigliari? In che modo la loro condizione era rappresentativa del più ampio contesto politico e sociale?
Sono arrivato a Mark e Lisa attraverso un processo graduale iniziato nell’estate del 2013, quando ho cominciato ad andare a West Monroe. Loro e le persone che ho incontrato lì mi hanno tirato subito dentro, rendendomi partecipe della loro vita, comunicando senza mezzi termini la voglia di essere ascoltati e visti. Ricordo bene il primo incontro con i futuri protagonisti del film in un diner. Mi hanno detto: “Noi non veniamo mai in posti come questo. Ci guardano tutti, i bianchi ricchi e i neri poveri. Non facciamo parte né degli uni, né degli altri perché siamo dei bianchi poveri che sono stati estromessi da questa società. Noi siamo in un limbo, siamo arrabbiati e non vogliamo rimanerci”. Tra l’ottobre e il dicembre del 2013 sono tornato per approfondire questa conoscenza e per verificare che la presenza della macchina da presa non alterasse la loro naturalezza: la voglia di urlare la loro presenza veniva fuori in modo genuino, puro, limpido anche davanti al mezzo filmico. La differenza rispetto ai film della trilogia texana è che sono stato portato con mano, talvolta trascinato con forza e vigore dentro questi ambienti. La scelta finale dei protagonisti è avvenuta quindi in modo naturale. I personaggi sono emersi per la voglia di essere ascoltati. E ognuno con il proprio modo di essere: alcuni gridando la propria sofferenza, altri mostrandosi per quello che sono come per la donna incinta o il ragazzo che sogna di essere soldato; le azioni o i corpi di questi personaggi silenziosi valgono più di mille parole.
Nel film si passa dalla comunità povera della Louisiana del nord, rappresentata da Mark e Lisa, a un gruppo di paramilitari, una specie di “militia” privata, una comunità chiusa e sovversiva che di solito non ama essere disturbata da “visitatori”. Come ci sei arrivato?
Dopo un anno di contatti, di scambio d’idee, di raccolta di materiale, i futuri protagonisti del film hanno fatto passi avanti nella scoperta di se stessi, hanno preso coraggio, hanno capito ancor di più di essere a loro modo dei sovversivi. La rabbia da cui sono partiti si è trasformata in necessità di insubordinazione. Non parliamo di insubordinazione armata, anche perché alcuni di loro, in quanto pregiudicati, non possono legalmente possedere armi, privazione che vivono come la negazione di un diritto costituzionale, pari alla perdita del diritto di voto. Senza armi, si sentono anche vulnerabili. Abbiamo parlato a lungo di questo tema con loro, e nei discorsi spesso veniva citata ed evocata la comunità di quelli che le armi ce l’hanno. In questa specie d’inchiesta sociologica nell’America profonda e dimenticata, ho voluto mettermi sulle tracce di questo “altro lato”, andando alla ricerca di questi “gruppi armati”. Concretamente l’accesso a questo mondo è stato ancora una volta possibile grazie all’aiuto dei Trichell. Mi hanno introdotto loro nell’ambiente dei paramilitari.
I paramilitari esprimono un’ideologia così forte ed estrema da sconfinare quasi nel fanatismo… Come ti sei relazionato con loro?
Il gruppo di paramilitari ha fatto scelte di vita radicali. Si è trasformato in una comunità insulare animata da ideali fortissimi. Il diventare l’altro lato, passare sull’altra sponda, il barricarsi, il separarsi dagli altri è per loro una questione di sopravvivenza che viene esplicitamente dichiarata nel film. Per questi guerriglieri la lotta non è né politica, né di classe, né sociale, né contro l’immigrazione, ma è unicamente per se stessi e per le loro famiglie: rappresenta l’ultimo baluardo, caduto il quale si è perso tutto. Per capire meglio le loro posizioni e che cosa le ha generate, bisogna risalire agli eventi dell’11 settembre, quando tutto è cambiato, a partire dal concetto di “sicurezza nazionale”. Il “National Security Strategy Plan” redatto da George Bush nel 2002 ha attribuito maggiori poteri al governo centrale, legittimando l’uso della forza nella risoluzione dei conflitti, anche in casi di conflitti interni, come la recente escalation della violenza da parte della polizia nei confronti dei cittadini di colore, oppure la questione della privacy del cittadino. Quest’ondata di controllo ha messo in crisi l’America come “paese unito” e ha evidenziato le differenze sociali, economiche e politiche tra i vari stati e regioni. Se si parte da questa premessa, la messa in crisi dei paradigmi su cui si è fondata la società americana, allora le invettive dei paramilitari perdono la durezza del fanatismo, perché esprimono un disagio, una reale preoccupazione per un Paese che si sta spaccando. Loro si sentono abbandonati dalle istituzioni e vedono calpestati i loro diritti ancestrali. I paramilitari (come i bianchi poveri della Louisiana rappresentati da Mark e Jim), sono dall’altra parte, in un’isola che si sta separando dal resto del Paese.
Girando Louisiana (The Other Side) ti sei trovato innanzi a situazioni estreme che pongono problemi etici per chi le gira e per chi le guarda. Come hai lavorato su questo aspetto?
Sono consapevole che il mio discorso non coincide con il girato (centinaia di ore), ma con la sintesi proposta dal montaggio (un’ora e mezza). Le immagini, anche quelle più forti, non possono chiarire tutti i dubbi, non possono raccontare tutto quello che c’è dietro. Spero che facciano riflettere, e non provocare. Mi auguro, comunque, che queste situazioni estreme facciano scatenare una discussione costruttiva del tipo: cosa c’è dietro queste immagini? Per me sono immagini vere e necessarie, sono indispensabili per la loro natura intrinseca. Mi riferisco a quelle sequenze che per la loro forza iconica diventano chiavi di lettura fondamentali per comprendere le storie che racconto nel film. Le sequenze più dure le voglio immaginare come scatti di momenti che ho condiviso con i personaggi, fotografie di situazioni drammatiche che i miei protagonisti volevano che io mostrassi. Ho avuto una formazione come reporter fotografico, volevo essere fotoreporter di guerra. Mi sono formato con David Turnley, fotografo vincitore del premio Pulitzer per il lavoro a Gaza e anche per i suoi sette anni passati a documentare Nelson Mandela. Voglio considerare quelle sequenze come un reportage “sul fronte” dove non c’è spazio per il sensazionalismo ma per la necessità del momento. E sono spesso i momenti “forti” che meglio rappresentano la drammaticità di certe situazioni.
Quel che caratterizza il tuo modo di girare è la prossimità, quasi intimità, con le persone che filmi. Anche davanti a situazioni dure riesci a mantenere uno sguardo amorevole, come nel caso di Mark e Lisa, oppure guardingo ma partecipe come nel caso dei paramilitari. Come raggiungi questa prossimità?
Rispetto e fiducia nascono e crescono immagine dopo immagine. Io giro il 20 per cento del tempo, il restante costruisco con i personaggi un rapporto d’amore laico, senza promesse né giuramenti. Ovviamente, un rapporto così non si costruisce nel giro di pochi giorni, si va formando momento per momento. Conosco la famiglia Trichell dal 2011, abbiamo lavorato insieme a tre film. Sono stato presentato alla famiglia allargata in Louisiana come persona di estrema fiducia. Poi, quando sono iniziate le riprese, io e la mia troupe abbiamo passato intere giornate e nottate insieme ai personaggi dei film, condividendo situazioni molto intime e personali durante le quali ci siamo messi in gioco, dichiarando apertamente i nostri intenti. Sono fermamente convinto del fatto che senza questa trasparenza iniziale, da parte mia e di tutte le persone coinvolte nel progetto, la verità e l’umanità proprie dei personaggi non sarebbero emerse.
Vorrei che tu dicessi qualcosa sulla questione della “finzione nel documentario”. Persone reali in contesti reali che si trasformano in personaggi. Come funziona questo meccanismo?
Non ho una formazione ortodossa da cineasta. Ho fatto studi documentaristici, ma non sono un “maestro” del linguaggio documentaristico. Non lo sono neanche del linguaggio di fiction. Conosco bene il linguaggio della fotografia e del reportage. Quando dico che riprendo quello che vedo, mi riferisco anche a questo. Nei miei film la recitazione non esiste. Esistono delle rappresentazioni del reale scelte di comune accordo fra me e le persone che filmo. Non sono immagini in movimento, sono immagini statiche che io metto in sequenza. Il mio occhio è fotografico. Penso che questa sequenza di fotogrammi abbia qualcosa dei ritmi del film di finzione, da una parte, e dei contenuti del cinema del reale, dall’altra. Si colloca a cavallo fra i due.
Potresti esporre un breve decalogo del tuo metodo di fare cinema?
Penso che l’elemento essenziale del mio modo di fare cinema sia il farsi da parte. Farsi da parte innanzitutto significa far sì che noi, come equipe, acquistiamo le sembianze di una “non-equipe”, diventando parte integrante dell’ambiente. La macchina da presa è scorporata di tutti gli accessori. Utilizzo una lente sola e il monitor deve essere uno solo, di dimensioni ridotte, che poi condividiamo tutti. Pochi altri oggetti, pochi cavi a vista, possibilmente camera senza microfono. Questo avviene proprio perché dobbiamo assumere le sembianze di cineasti amatoriali, come se stessimo realizzando un home movie. Ciò mi permette di farmi da parte come autore, come cineasta onnisciente. Questa è la cosa più importante. L’altro elemento importante del farsi da parte è l’utilizzo di ciak estremamente lunghi: si gira ininterrottamente per almeno venti minuti e normalmente in condizione di assoluto silenzio, proprio perché quando si lavora con dei ciak così lunghi, la relazione tra me e i personaggi passa dall’essere quasi esclusivamente visiva e auditiva all’essere, mi verrebbe da dire, olfattiva. La macchina da presa passa in secondo piano e si finisce per essere invisibili. Alla fine il farsi da parte implica anche la perdita di controllo sull’esito delle riprese, si tratta di un passaggio del testimone quasi totale da parte mia ai soggetti del film. Il suono, fino ad ora, l’ho sempre fatto con il boom, non ho mai utilizzato i wireless, proprio per questa necessità di non interferire con il flusso e l’organicità delle riprese. Per questo nuovo film la situazione è leggermente diversa, forse mi sono spinto oltre… Alcuni personaggi sono diventati parte integrante del processo creativo, le scene le costruisco insieme a loro, diventano per certi versi anche loro autori, cineasti, registi.