"Oggi il discorso su Glauber Rocha resta aperto. Oggi il regista occupa un posto di rilievo nella cinematografia internazionale". L'oggi di cui si parla è il 1974. Così si concludeva uno dei pochi studi critici italiani dedicati all'opera di Rocha, il volume di Cinzia Bellumori per il Castoro cinema. Parole esatte, ma poco profetiche sull'interesse futuro per un regista all'epoca molto apprezzato nel nostro paese, grazie all'azione di critici come Lino Micciché, ma rapidamente dimenticato e confinato all'ambito universitario. Rocha, del resto, fa parte di quella lunga schiera di cineasti noti, ma poco conosciuti, soprattutto da chi di cinema se ne occupa a tempo pieno, per passione o professione. Ben venga dunque una maggior visibiltà delle sue opere grazie all'uscita di 4 dvd, con i titoli Barravento, Il Dio Nero e il Diavolo Biondo, Terra em transe, Antonio das Mortes, corrispondenti ai suoi film più famosi, forse i più riusciti, senz'altro i più accessibili al pubblico occidentale. "I più accessibili" non significa che si tratti di film di facile comprensione, tutt'altro. Non sono sicuramente stati fatti, né tantomeno pensati, per esser proiettati dopo un pranzo di gala, in modo da assecondare una riposante digestione. Si tratta, invece, di opere lontane da una concezione naturalista e spettacolare del racconto, che esibiscono una scrittura dissonante, eccessiva, in alcuni momenti delirante (si è spesso parlato, forse a sproposito, di barocco) che rimescola e dialettizza epica e tradizione popolare brasiliana con le punte più mature della sperimentazione artistica europea, da cui Rocha attinge senza restarne prigioniero. Questi primi film segnano la nascita di un autore e con lui di una cinematografia, quella brasiliana, confinata fino ad allora ai margini del panorama mondiale, e in particolare di una scuola, il Cinema nôvo, che esplode sul piano internazionale con forza rivoluzionaria, riuscendo a occupare i primi posti nel dibattito critico, in un decennio, i sessanta, già ricco di altre nouvelles vagues nazionali (polacca, cecoslovacca, giapponese…). Regista e teorico, leader indiscusso del nuovo cinema brasiliano, Rocha professa un'estetica della fame basata su una violenta critica politica di forma, contenuto e modalità distributive dei film. Nel suo testo – manifesto del 1965, Uma Estetica da Fome, afferma: "Soltanto una cultura della fame, minando le sue stesse strutture, può superarsi qualitativamente: e la più nobile manifestazione culturale della fame è la violenza… Un'estetica della violenza, prima di essere primitiva è rivoluzionaria, ed è qui il punto di partenza per far capire al colonizzatore l'esistenza del colonizzato". Questa lotta doveva calarsi simbolicamente sul piano della forma espressiva e della materia affrontata nei soggetti, ma anche essere diretta contro il mercato internazionale dell'industria cinematografica, che schiaccia e annienta sul nascere la produzione nazionale. Rocha infatti non vuole isolarsi dal grande mercato, restando in un ghetto elitario "per puri ed incontaminati", come gradirebbe la stessa grande distribuzione, ma intende invadere il suo stesso terreno, forzare la gabbia d'acciaio della produzione hollywoodiana e imporre un nuovo cinema brasiliano all'attenzione del suo popolo. Secondo lui bisogna soprattutto "capire che, nel cinema come in campi ben maggiori, il momento dell'emancipazione economica nazionale è la condizione prima dell'emancipazione politica".
Il primo film, Barravento (1962), splendido e grezzo come un diamante appena estratto, non fu del tutto compreso alla sua uscita. Fu scambiato come un tentativo, solo parzialmente riuscito, di critica dell'alienazione religiosa nel contesto di una comunità di pescatori. Bellumori parla, infatti, di un'opera di "chiara lettura", ovvero di un'evidente critica della superstizione e dell'ignoranza del popolo, ancora legato alle tradizioni rituali, che impediscono di "uscire dalla condizione di arretratezza sociale ed economica" e dunque di crescere "in senso evolutivo". Ovviamente non è cosi, Rocha non è autore della sinistra progressista e paternalista. Il film prima di tutto non sceglie tra le due posizioni, quella "progressista" incarnata dal giovane Firmino, rientrato dalla città per convincere i pescatori a ribellarsi al Maestro, il capo del villaggio, e al giovane Aruan, vergine e per questo protetto dalle forze della natura, e quella "reazionaria" della comunità, che vive gioiosamente la propria cultura, malgrado le numerose sofferenze e le prove che deve subire (anche per causa di Firmino, che lacera la rete che tutto il villaggio usa per pescare). E poi mostra i canti e le manifestazioni rituali non in maniera folcloristica e contemplativa (sempre secondo Bellumori), ma come esplosioni di felicità, espressioni "di una tale coesione interna e di armonia con la natura, al punto da farci sospendere il giudizio" critico che riserviamo in quanto spettatori/cittadini – come sottolinea il massimo esperto di Rocha, il critico universitario Ismail Xavier. Invece di fornire un punto di vista unico, il film opta per una dialettica inesausta tra identità culturale, basata sulla conciliazione e la stabilità, e la coscienza di classe come necessità del conflitto e della liberazione dalle condizioni di sfruttamento. Spiega infatti Xavier che dall'ottica della comunità è Firmino (e poi Aruan, che lo imita) ad alienarsi accettando il tempo e le sue trasformazioni, fuggendo il Mito ed entrando cosi nella Storia, che appartiene per definizione all'Altro, cioè ai bianchi, proprietari dei mezzi di produzione; mentre dal nostro punto di vista di "lucidi" occidentali è il popolo che è alienato nella religione e nel Mito.
Rocha però non chiude a favore di una parte tale discorso, anzi lo lascia aperto, riprendendolo nel film successivo, quello della consacrazione critica, Deus e o Diablo na terra do sol (1964), anch'esso fondato sul principio dialettico della lotta di classe. Questa volta con una finalità tanto dichiarata quanto metaforica: la rivoluzione arriverà quando il sertao (la zona desertica nel Nord-est del Brasile) diventerà mare, e il mare diventerà sertao. La storia di Manuel, che si ribella al suo padrone uccidendolo, ma che poi non riesce a far altro che legarsi a due figure, il "santo" Sebastiano (un mistico che la chiesa ufficiale vuole eliminare e per questo assolda Antonio das Mortes) e il cagançeiro Corisco (un bandito ribelle), non è che l'allegoria di un paese che non riesce a uscire dalle proprie contraddizioni. Queste due figure del resto non sono che le incarnazioni di una irrazionale e di fatto impotente lotta contro il potere. È il film stesso che, con un colpo di magia ottenuto alla moviola, realizza quello che i personaggi hanno cercato di ottenere invano: nel finale, Manuel corre furiosamente per centinaia di metri, cercando una liberazione che non è riuscito mai a trovare, ma con un "salto" operato dal montaggio, un vero salto qualitativo, la sua immagine sparisce cosi come quella del deserto, e appare il mare, ripreso dall'alto, che ha invaso la terre e trasformato, infine, la realtà. La rivoluzione non è dunque rappresentata nel racconto, ma resta possibile e viene evocata dalle forme (ahimè solo simboliche) del cinema.
Dopo la negazione autocritica del ruolo degli intellettuali di sinistra nel movimento rivoluzionario rappresentata dal film Terra em Transe (1967), Rocha riprende il discorso sulla dialettica trasformatrice insita nel conflitto tra religione popolare e prassi politica, Mito e Storia, con il film O Dragao da Maldade contra o Santo Guerreiro (1968) in cui si ritrova Antonio das Mortes, l'uccisore di cagançeiros presente già nel Dio Nero, anche se questa volta sarà lui a incarnare il riscatto di un popolo, acquisendo una coscienza rivoluzionaria. In un film che assomiglia a un western carnevalesco, colorato e grottesco, il protagonista Antonio, in precedenza al soldo del padronato, si riscatta grazie alla conversione effettuata dalla Donna Santa (letta dalla critica come l'allegoria della borghesia nazionale) capace di rovesciare dialetticamente il negativo in positivo.
I film di Rocha assumono quindi fin da subito lo statuto di cinema politico, dotati come sono di una forte coscienza (auto) critica e di riferimenti diretti al pensiero marxista, affrontando costantemente temi legati allo sfruttamento e all'alienazione delle classi subordinate, ma non si limitano però a rifletterne l'ideologia, semplicemente raddoppiandola, come invece molti film dell'epoca, da quelli commerciali alla Petri ai totalmente settari e sganciati da ogni contatto popolare di Godard-Gorin, in solidarietà antitetico-polare coi primi (solo che il gruppo Dziga Vertov, invece dell'ideologia ufficiale, rifletteva quella ''marginale'' althusseriana). Non si tratta pertanto di film che fanno dell'immediatezza spettacolare il mezzo per convincere il grande pubblico, né fanno parte di quelli che cercano di convincere i già convinti, tramite un discorso autoreferenziale e volutamente antinomico (vedi il falso movimento dialettico di Lotte in Italia, poiché realizzato come sotto una campana di vetro, in laboratorio).
Le opere di Rocha cercano invece di rielaborare la cultura popolare in chiave rivoluzionaria, sottolineandone, nello stesso tempo, gli aspetti positivi, come il carattere emancipativo delle tradizioni nazionali se rivendicate contro l'imperialismo straniero, e gli aspetti negativi, alienanti, quando le stesse tradizioni servono a mantenere immutabili i rapporti tra le classi sociali interne al paese. Come ribadisce Xavier, per Rocha "la cultura degli oppressi e i suoi miti sono la fonte d'energia che li spinge all'azione: il ruolo storico dei popoli oppressi si compie in conformità con la tradizione, non come la sua negazione. La questione principale, di conseguenza, non è il superamento del mito ma la sua reinterpretazione, fatta dalla comunità, in termini di progetto di liberazione". In questi film il pathos rivoluzionario e l'estasi religiosa si uniscono, coesistono (come nell'opera di Ejzenstejn), in una sintesi infiammata continuamente alimentata da una fame inestinguibile di giustizia. Il cinema non fa di certo la rivoluzione, ma quello di Rocha ci dà gli strumenti per pensarla, anche nei suoi aspetti negativi di impasse e di impotenza, il ché non è poco.