Una sala cinematografica dove passa un film trash demenziale – in realtà solo il suo trailer – dal titolo The Iron Coffin Killer. L’inquadratura fissa di Apichatpong Weerasethakul contempla la porzione inferiore dello schermo cinematografico, sezionando così a metà per il lungo l’inquadratura del film nel film, e gli spettatori della sala. Questa potente scena di Cemetery of Splendour, sembra rielaborare e declinare in salsa thai apichatponghiana, le lunghe immagini fisse sul pubblico di Good Bye, Dragon Inn di Tsai Ming-liang, regista che, per tanti motivi, potrebbe porsi come punto di riferimento di Apichatpong: dalla presenza di un attrice feticcio, Jenjira Widner come Lee Kang-sheng, all'esplicita citazione del finale di Vive l’amour. Una scena, quella citata, che condensa la poetica del regista thailandese nella sublimazione tra cinema popolare e civile. Alla proiezione, infatti, non viene suonato l’inno al re, obbligatorio in Thailandia, trasformando la scena in uno sberleffo al potere. Il cinema popolare, i B-movie alla Corman sono sempre stati una passione mai nascosta di Apichatpong che, citando spesso anche Clark Kent e Superman in Cemetery of Splendour, racconta una storia di fantasmi e di fantascienza in assoluta spontaneità, tra naturalezza e realismo. Il film è incentrato su un gruppo di militari allettati, in coma, in un ospedale di fortuna ricavato da una scuola, vittime di una misteriosa malattia del sonno, in un territorio nelle cui viscere è ubicato un ancestrale cimitero dei re.
La cittadina natale di Apichatpong diventa il teatro di una stratificazione del regista tra i luoghi della propria vita e la mitologia, in una situazione di osmosi continua tra quotidiano e soprannaturale, realismo e fantascienza, scienza e mitologia, onirismo e animismo. Il regista torna nell’ambiente della sua infanzia, nel piccolo centro di Khon Kaen, teatro anche di un suo film precedente, anch'esso di ambientazione ospedaliera, Syndromes and a Century, e vi condensa i luoghi della sua vita, la scuola e l’ospedale dove lavoravano i suoi genitori, due medici. E questo teatro si trasforma nel nucleo di una concezione sincretica, della sintesi e della coesistenza tra il sapere occidentale positivista e la cultura tradizionale orientale, animista e della reincarnazione. In una cittadina in continua trasformazione, con le ruspe sempre in azione, destinata a ospitare edifici moderni, una gallina con i suoi pulcini passeggia e visita i vari ambienti del film. Una gallina che ricorda le sue vite precedenti, così come quel territorio conserva la memoria, nel sottosuolo, di un passato ancestrale e mitologico.
Il potere militare è dormiente, e giace sulle vestigia di un altro, più antico potere. Per indurre il risveglio dei militari si tenta la cura di un’esposizione luminosa. Una situazione fantascientifica ispirata – proprio come la malattia del sonno dei soldati riprende un fatto di cronaca relativo a un morbo sconosciuto cui risultarono affetti quaranta militari, poi posti in quarantena – agli esperimenti di un neuroscienziato del MIT, incentrati sulla manipolazione delle cellule cerebrali, ricostruendo la memoria attraverso la luce. E la variazione di intensità luminosa diventa, in quei momenti, una estrema variazione nella fotografia del film, come se il regista volesse influenzare anche il cervello degli spettatori, riportarli alla luce in luogo del buio rappresentato dal condizionamento del sistema di regime. La fantascienza convive con il fantastico, ma si tratta di un fantastico connaturato al quotidiano, che comprende la naturalezza del passaggio tra vita e morte e viceversa, di animato e inanimato: gli spiriti che abitano il mondo reale, le statue che hanno dei corrispettivi personaggi in carne e ossa. Per arrivare alla meravigliosa scena nel cielo sopra Khon Kaen: un paramecio, un comunissimo organismo unicellulare acquatico che può essere anche vettore di malattie, si squaderna tra le nubi e i raggi solari, irrompe nell’inquadratura come il monolito di 2001: Odissea nello spazio. Un’immagine che rappresenta l’apice del sincretismo di Apichatpong, raffigurazione di un universo primordiale, un brodo dove combaciano cielo, acqua e terra, dove il mondo microscopico dei protozoi si sovrappone a quello immenso del cielo e del cosmo.