I miei film sono interconnessi, ci sono sempre personaggi in comune e questo non fa eccezione, perché Todd, il patriarca della famiglia dei bull rider, è di West Monroe, nella Louisiana del nord. A 14 anni si è tirato fuori da una situazione difficilissima: era un criminale, fabbricante e spacciatore di droga… Dopo una sparatoria scappò perché era braccato da una gang rivale, si rifugiò a Wacko, vicino a Dallas, e rimase latitante per circa quattro anni, per poi andarsene ancora più a sud, a Deer Park, una zona di estrazione petrolifera, per fare il manovale, l'operaio. Nel corso degli anni Todd è diventato un po’ il mio padre putativo texano, mi insegna a essere texano, a sparare – come cacciatore, non come cecchino! – e mi vorrebbe insegnare a nuotare con i coccodrilli… C’è un legame forte tra me, Todd e tutta la sua famiglia, ecco perché volevo scoprire le sue radici.
Per avviare il progetto, ho intrapreso una serie di viaggi verso la Louisiana del nord – parliamo di 7 ore di macchina da dove vivo io – e il primo contatto fu proprio la sorella di Todd, la fidanzata di Mark, il protagonista di Louisiana. Non avevo né un soggetto né una storia in mente, si trattava di fare un lavoro sul territorio come ho sempre fatto, un approccio che non è mai cambiato: incontrare e conoscere gente e luoghi per poi decidere come muovermi. I primi viaggi risalgono alla metà del 2013, circa sei mesi prima dell'inizio delle riprese. Come era accaduto per Stop the Pounding Heart, al momento di girare non mi era chiaro non solo quale storia raccontare – si tratta di qualcosa a cui arrivo alla fine del progetto, a volte persino in fase di montaggio – ma non sapevo neanche quali personaggi seguire. Inizialmente, in quel caso, ero partito con Lisa, che era il mio contatto. Poi nacque il legame con Mark, un legame primordiale e umano, per via delle cose che ci accomunano. La stessa cosa era accaduta con Sarah, la protagonista di Stop the Pounding Heart, con il bambino di Low Tide e con l’uomo dai capelli lunghi di The Passage. A eccezione di Sarah, quindi, tutte figure maschili, tutti uomini, giovani o fanciulli introversi e per certi versi impauriti.
La seconda comunità, quella dei paramilitari – una cellula paramilitare antigovernativa – la conoscevo da tempo, prima ancora di concepire il film. Uno dei figli di Todd è vicino al loro gruppo. Si tratta di un ragazzo perbene, un ragazzo dolce, lavoratore, ma rappresentativo di quella che in America è la conspiracy theory ("teoria della cospirazione") riguardo gli abusi di governo, la violazione della privacy, la contaminazione dell’acqua e così via. Da tempo mi inviava dei messaggi, dei video di chiamata alle armi. Ero stato anche invitato a una dimostrazione armata non autorizzata alla Casa Bianca – chiamato a documentare non a partecipare – cosa che in effetti avrei voluto fare anche se non ci sono riuscito… Nello stesso periodo seguivo con attenzione quello che stava succedendo nel 2013-14, gli scontri tra cittadini e governo nel Nevada e nel Texas, episodi molto gravi. Si tratta di cittadini che hanno reclamato la proprietà della terra posseduta dai loro antenati prima della costituzione degli Stati Uniti, ma poiché nessuno aveva mai pagato le tasse da decenni il governo aveva deciso di espropriarle e ci furono scontri armati. Alcuni membri di questa cellula paramilitare avevano partecipato agli scontri, quindi sapevo fin dall’inizio che avrei voluto lavorare con loro, seguirli, ritrarli, anche se non sapevo assolutamente come. La carne al fuoco era tanta: da una parte il discorso sulla metanfetamina, che in America è una droga politica, perché il governo Reagan bandì l’efedrina negli anni 80, che arrivava soprattutto dal Messico, quindi di fatto fece la guerra al Messico favorendo l’uso, per la fabbricazione, della pseudo-efedrina, un farmaco per la sinusite, favorendo così la produzione autoctona di metanfetamina. Dall'altra c'era la cellula paramilitare e, di conseguenza, era evidente che sarebbe stato un film politico.
Non mi era chiaro come sarebbe stato possibile tenere insieme queste due realtà, ma per me è importante non saperlo fin dall’inizio, non lavorare con una storia predefinita. Parlando di cinema del reale, predefinire una storia significa limitarne i confini e quindi limitarne le potenzialità. Quello che mi interessava era studiare i due ambienti e cercare dei punti di convergenza, così come avevo fatto per Stop the Pounding Heart. Speravo, comunque, di trovare dei personaggi in comune, qualcuno nel giro della metanfetamina che magari volesse arruolarsi… Una convergenza narrativa che mi avrebbe aiutato a unire le due storie, qualcosa che speravo si verificasse ma che comunque non avrei forzato, perché sapevo di lavorare con tossicodipendenti, disperati e veterani. Questa convergenza non ha avuto luogo, nella realtà, ma conservavo la convinzione che le due parti dovessero dialogare, pur in assenza di un raccordo narrativo. In questo modo è nata la struttura attuale del film, in sede di montaggio. Si tratta di una decisione a posteriori, quindi, e sono convinto che qualora avessi pensato al film in questo modo fin dall'inizio sarebbe stato un problema, perché a causa del mio modus operandi avrei probabilmente concepito tutto in modo separato, ragionando per capitoli, e sarebbe stato un errore.
La divisione in due parti è una complicazione, ma io mi complico sempre la vita, quando faccio film. Ritengo sia necessario aver paura di non portarlo a termine, piangere, voler abbandonare il progetto… Sono tutte emozioni necessarie, perché la paura è un reality check, una presa di coscienza fondamentale, come il sentirsi piccolo di fronte al progetto e a quello che si sta vivendo. Sapevo che le difficoltà le avremmo risolte in fase di montaggio, anche se a differenza di Stop the Pounding Heart, dove la mia intenzione era di perdermi completamente, non sapere che tipo di girato avevo in mano, lasciarmi guidare dai personaggi, questa volta il livello di paura era talmente alto che non sono ho voluto perdermi del tutto. Ogni notte valutavo, facevo un consuntivo, un’analisi delle storie a cui stavo lavorando, quantomeno per capire quali direzioni prendere, trattandosi di un progetto impazzito: personaggi che andavano e venivano, gente che spariva… Il lavoro, dunque, non presentava solo la complessità di esser diviso in due parti ma anche quelle proprie di ogni singola parte. Evitavo di vedere il girato, comunque. L'ho fatto una volta e non ci ho dormito la notte perché pensavo che Mark stesse assumendo troppo le sembianze di un personaggio di un film di finzione, con i suoi occhi sgranati, le palpebre immobili… Le sue espressioni erano "perfette", quasi da attore, e d'altra parte la fotogenia era una delle ragioni per cui l’avevo scelto. Sono un perfezionista, attratto dal bello, dalla performance, tutte cose che possono essere deleterie quando si punta a raccontare il reale.
È fondamentale conoscere i propri limiti. Sono io lo strumento principale per realizzare il film, ancora prima della macchina da presa, e io posso essere un coltello a doppio manico, posso fare o disfare il film, posso anche distruggerlo, e ne sono ben consapevole. Nella mia mancanza di metodo sono molto metodico, conosco perfettamente i miei limiti e i miei pregi. Sono un people pleaser, vorrei fare tutti contenti, e questo è un grossissimo limite per qualunque regista, specie per un documentarista, mettersi dalla parte dell’audience, aver paura del fallimento e del rifiuto, l'idea che quello che faccio non piaccia o possa mettere i soggetti interessati in difficoltà. Ecco perché per me è necessario non vedere il materiale, altrimenti mi do la zappa sui piedi, mi faccio del male e faccio del male al film. Allo stesso tempo era importante tenere le fila del racconto: seguivo moltissimi personaggi che andavano e venivano, dovevo capire quali storie seguire e quali abbandonare e il tempo a disposizione è sempre un grosso limite, più ancora dei soldi. Avevo già girato a ottobre e dicembre 2013, poi ho girato nuovamente da maggio ad agosto 2014 e sapevo che a inizi agosto avrei dovuto ultimare le riprese, bisognava fare delle scelte.
A un certo punto la ragazzina che si vede nel film, una adolescente di 12 anni, sembrava essere diventata uno dei personaggi principali… pensavo persino che il film vertesse su di lei, raccontasse la sua storia, che si trattasse del personaggio attraverso il quale avrei potuto capire gli adulti. Poi mi sono reso conto che questa ragazzina possedeva una carica sessuale molto forte e che se volevo raccontare la sua storia avrei dovuto raccontare la storia della sua famiglia, del suo padre abusivo e violento e forse avrei dovuto scavare in aree e meandri che non mi sentivo di voler raggiungere… E, d'altra parte, lei a un certo punto non volle continuare a lavorare, perché probabilmente si era infatuata di un ragazzo che lavorava con noi, tanto che abbiamo dovuto porre rimedio alla situazione e come personaggio è scomparso, nonostante fosse molto forte. Dentro di me lei rappresentava la speranza, il sogno di tirarsene fuori, toccava tematiche molto importanti come l’istruzione in Amaerica, il sogno di andare a Yale, che costa 50 mila dollari all’anno… c’erano implicazioni pazzesche. L’ho ritratta anche mentre disegnava moda, organizzava piccole sfilate, tutte scene molto belle, d’appeal persino superiore rispetto a quella in cui la donna incinta si droga, per fare un esempio. Alcune scelte devono necessariamente essere immediate. C’è bisogno di un’apertura totale, e il letting go, il lasciar andare, perdere il controllo, significa anche questo: capire i limiti, le difficoltà di una storia e fare dei sacrifici. Altra ragione per cui non riguardo il girato, perché c'è il rischio di innamorarsi del proprio materiale, di concepirlo come un figlio. La spogliarellista incinta è un altro esempio. Voleva fortemente essere parte della storia, ed era la persona più violenta del film, in senso fisico. Ho testimoniato l’arresto del marito dopo uno scontro tra i due nel quale il marito ha avuto la peggio, malmenato dalla moglie, anche se alla fine in galera c'è andato lui… Non era per niente semplice lavorare con una persona del genere, come anche l’altra spogliarellista, che ha fatto la guerra in Afghanistan, drogata fino al collo, incontrollabile, tanto che si spogliava nuda nelle lobby degli hotel, ecco… il raccontare quelle storie poneva dei problemi logistici, mettevano a rischio l'intero film. E parlo di personaggi con un appeal fortissimo, difficili da accantonare in un momento in cui non sapevo che Mark sarebbe diventato il personaggio principale. Scegliere di non raccontare una storia è importate tanto quanto scegliere di raccontarne altre.
Le potenzialità di Mark sono emerse qualche giorno dopo. Lavoravo con Lisa, e lei adora la telecamera, è innamorata della perfomance ma non c’era molto feeling per lei, tant’è che l’ho ridotta a un personaggio marginale. Contemporaneamente, mi sono accorto di quello che Mark poteva portare al progetto e ciò ha comportato non poche difficoltà, perché è scappato tantissime volte, per poi ritornare, sempre, fino alla fine. Tanto che le riprese si concludono con lui che scappa e non torna più… Ha dettato le regole del gioco e sapevo fin dall’inizio che sarebbe stato impossibile prendere accordi definitivi, persino sulla sua partecipazione al progetto. Anche perché era in balia del ciclo della droga, dell’anfetamina: lunedì trovavo una persona disponibile, poi si andava in caduta libera fino al giovedì, infine la sparizione del venerdì, poi sabato richiesta di perdono e il lunedì mattina tutto daccapo, così per cicli costanti. È una persona introversa ed era importante parlarci chiaro, giocare a carte scoperte. Sia con lui che con gli altri ho giocato a carte scoperte: ho messo in chiaro fin dall’inizio che avrei voluto raccontare la sua storia di tossicodipendente, di aspirante marito, di uomo virile, forte, di figlio che si accingeva a diventare orfano, la sua storia di nipote fragile. Dopo due settimane di riprese gli chiesi: "qual è il tuo mondo al maschile, non l'ho ancora visto… ti vedo circondato da donne, la tua fidanzata, così materna e di quindici anni più vecchia, poi le tue nipotine (la ragazzina e la spogliarellista incinta), ma come interagisci con gli uomini? Voglio vederlo… intuisco che c’è un rapporto di incontro/scontro, come sono gli uomini della tua vita?". Mark mi rispose: "ci devo pensare" e sparì per 4 giorni. Lisa mi disse: "Mark ha abbandonato il progetto, il film è finito", tant’è che iniziai a fare altre ricerche, sul rapporto tra Lisa e le sue sorelle, Lisa e le sue figlie, finché Mark non ritornò e mi disse: "hai toccato una nota dolente, scusami se sono scappato ma te lo dico subito: io non piangerò di fronte agli uomini, non succederà mai". Giocare a carte scoperte, in questo caso, aveva aperto una voragine: la paura che qualche uomo gli facesse male. Allo stesso tempo mi concedeva un'apertura: è venuto fuori il ragazzo di 32 anni che non vede i figli dalla nascita, che non aveva più incontrato suo fratello, ad esempio, ed ogni apertura portava a nuove storie. Giocare a carte scoperte rende giustizia al progetto, e se il progetto deve morire perché si gioca a carte scoperte, allora ben venga la morte del progetto. Ma è l'unico modo per creare un'intimità: aprirsi, rendersi vulnerabili, altrimenti è solo un gioco. E questo vale tanto nella vita quanto nel fare i film, per quanto mi riguarda.
Alla base di tutto c'è il lavoro che autore e personaggi fanno insieme – penso al percorso di Jean Rouch che aveva abbandonato l'etnografia per abbracciare l’antropologia condivisa. Altri parlano di restored behaviour, "ripristino del comportamento": come autore si può favorire l’accadere di alcune situazioni. Io faccio la guida ai personaggi nella loro storia, ascoltandoli li aiuto e li metto in condizione di raccontare le loro storie. Ho fatto l'esempio dell'incontro tra Mark e suo fratello, ma ce ne sono altri. La storia della mamma, che sapevo morente di cancro. Chiesi di incontrarla e proposi a Mark di fare la stessa cosa. Le dissi che volevo raccontare la sua morte, fui chiaro fin dall'inizio, e lei disse che dovevano farlo perché se io avessi raccontato la sua morte questo l'avrebbe forse riavvicinata al figlio. Questa è una situazione che non appartiene sicuramente al cinema etnografico di pura osservazione. C’è un mio intervento chiarissimo, e non è l’unico. Si tratta di un intervento di cui mi assumo la responsabilità come autore, naturalmente, ma per me un intervento del genere è appannaggio della verità. In questo senso, ripristinare un comportamento è fondamentale per raccontare una storia che esiste ma non sarebbe emersa. Ho favorito le condizioni per il compiersi di una storia che esisteva già, ma non ne ho deciso la genesi. C'è poi quella che immagino sembri a tutti una scena di pura finzione: la proposta di matrimonio che Mark fa a Lisa, di pari passo con la sua volontà di andare in galera a ripulirsi, dopo la morte della madre. Sono due momenti che partono dal rapporto tra me a Mark piuttosto che da quello tra Mark e Lisa – intendo dire che quello che emerge del rapporto tra loro due in realtà ha luogo grazie al rapporto tra me e lui. Parlavamo del suo futuro con Lisa e lui mi fece delle rivelazioni, mi disse "io non sono sicuro, perché a volte lei mi spinge verso la droga… la amo, si prende cura di me ma lo fa in tutti i sensi, mi droga, e con lei non riesco a liberarmi della droga… allo stesso tempo, senza di lei morirei…". Così, parlandone con lui mettevo sul piatto mie situazioni personali, i miei fallimenti in certe relazioni e lui disse che parlandone con me aveva riflettuto e aveva deciso di sposarla. "Se dobbiamo morire vale la pena morire insieme" mi disse – sono entrambi malati di epatite c. Ci siamo accordati su quando e dove voleva fidanzarsi, e mi disse che potevo girare la cosa. Parliamo anche qui di una scena che non è di fiction: la genesi appartiene a Mark, il terreno fertile l’ho creato io. Farsi da parte non significa scomparire. Implica una certa fiducia: farsi da parte e creare terreno fertile sono due cose assolutamente compatibili, anche perché, personalmente, ricevere il materiale e documentare con distacco è un approccio non mi interessa affatto.
In primis cerco di stabilire un'empatia, sono mosso dalla voglia di raccontare una data storia con amore, di creare un rapporto quasi amoroso tra me e le persone che filmo. Non so se debba valere per tutti, sarebbe interessante vedere i risultati di un rapporto che nasce dall’odio e dall’astio… Resta fondamentale, dal mio punto di vista, giocare a carte scoperte, perché l’empatia da sola non basta. Si impara, bisogna conoscersi come autori, capire quali scelte è necessario fare e avere coraggio, un coraggio che viene dall'esperienza. Io sono arrivato a trovare un modello di lavoro dopo vari tentativi, spesso falliti. Parallelamente, è chiaro, c'è un discorso prettamente tecnico, anch'esso frutto di una lunga esperienza diretta: il ciak singolo che dura per il totale della scheda digitale o della bobina (prima 8 minuti ora 30); il silenzio assoluto durante il ciak, tra un ciak e l’altro – parlo del silenzio assoluto tra la troupe; l’assenza totale – e qui arrivo ai limiti dell’intolleranza – del gergo tecnico sul set, che crea una distanza con i personaggi, una gerarchia tra me e loro, perché è un linguaggio speciale, quasi dittatoriale che nessun altro è in grado di comprendere; la priorità assoluta di movimento ai personaggi; non interrompo mai il ciak anche in caso di problemi tecnici (non funzionasse fuoco o suono, ad esempio); la macchina sempre a spalla; la copertura degli angoli in movimento, quindi un occhio al montaggio – e questo spetta a me perché sono io a dirigere la macchina da presa e perché ho imparato che il montaggio diventa difficile quando non c’è copertura degli angoli, dal momento che il mio montaggio è pulito, quasi di finzione… Che altro? Pochi cavi a vista, solo macchina da presa e boom, anche se per Louisiana, a volte, abbiamo utilizzato radiomicrofoni. Poi limitare al massimo il numero di collaboratori sul set, di norma un massimo di 4: io, l'operatore, fuoco e fonico. In casi estremi, quando c’è bisogno di ridurre il numero di persone sul set non esito a farmi da parte, esco io se è necessario – si torna dunque al concetto della perdita di controllo: permetto e favorisco la genesi del film ma le scene vanno avanti anche senza di me.
Ma, ripeto, tutto questo l'ho imparato con gli anni e con l'esperienza. Ho una formazione tecnica da fotografo, da fotoreporter, e al cinema sono arrivato in maniera spontanea con The Passage, un film a me molto caro che è stato un vero casino… Il non sapere cosa si stesse facendo era qualcosa di esilarante ma anche drammatico, però ne è venuto fuori un film, e ciò mi ha dato fiducia. Se siamo riusciti a fare un film quando non eravamo neanche in grado di capire a che frequenze si dovesse registrare il suono, è evidente che si poteva solo migliorare! Prima avevo girato alcuni cortometraggi, senza alcuna velleità, perché sapevo che era fondamentale fare esperienza, tentare, senza pensare al risultato, e fallire, eventualmente. Credo che a molti registi, a ogni livello, manchi la disponibilità a fallire clamorosamente, a vivere il disastro, arrivare ai limiti e voler quasi abbandonare la professione, riuscire a sopportare l’urto e l’impatto del fallimento totale.
(Milano, giugno 2015; dichiarazioni raccolte da Alessandro Stellino, con la collaborazione di Perla Sardella)