In un romanzo di fine Ottocento molto noto agli studiosi di cinema, Eva futura, Villiers de l'Isle-Adam immaginò che, fra le varie invenzioni, Thomas Edison avesse creato anche una donna artificiale capace di prendere le forme di qualunque figura femminile e di superarne tutte le naturali mancanze e i difetti. Da Bazin, per provare come il cinema e la sua mitologia fossero nati ben prima del dispositivo tecnologico, fino ai numerosi tentativi di andare alla radice del concetto di simulacro, il testo è stato ampiamente utilizzato come supporto teorico nei 120 anni da quando il cinema ha fatto la sua comparsa. Anche Ex Machina, esordio alla regia dello scrittore/sceneggiatore britannico Alex Garland, si concede più di un rimando a Eva futura. Anzi, si può dire che, fra tanti riferimenti (da Frankenstein a Wittgenstein, da Kubrick a Kurzweil), quello con il testo di Villiers de l'Isle-Adam presenta qualcosa di più di un semplice punto di contatto e arriva a intrecciare una controversia alquanto simile che investe le due opere. Da una parte, l’esaltazione per una spiccata sensibilità verso l’avanguardia tecnologica. Dall’altra, l’accusa di insensibilità verso il punto di vista femminile. Su entrambe le questioni – tecnocrazia di domani e misoginia di oggi – tanto Eva futura quanto Ex Machina si interessano più a porre le giuste domande che a dare le giuste risposte.
È la stessa struttura del film, quasi un kammerspiel d’ambientazione high-tech, a prevedere un dialogo serrato e continuo fra domande profonde e risposte interrotte. Al centro del film c’è infatti un Test di Turing, la prova basata sul confronto dialogico fra uomo e macchina per valutare l’efficacia di un’intelligenza artificiale. Caleb è il giovane programmatore chiamato a interpretare il ruolo dell’esaminatore in questo test messo in piedi nella casa-laboratorio del suo boss Nathan, l’inventore del più grande motore di ricerca mondiale. Ava è invece l’androide dal volto e dalle forme femminili (anche se busto e gambe sono ancora un esoscheletro in carbonio a vista) che deve dimostrargli di essere una macchina pensante e senziente. La prima domanda posta dal film riguarda quindi il rapporto fra uomo e macchina. La risposta svia da subito la questione allargando insistentemente il ruolo di un terzo polo in questa dialettica. Ognuna delle sette sessioni che compongono il test nell’arco narrativo del film vengono introdotte, inframezzate e rilanciate dalle discussioni e le speculazioni di Nathan e Caleb sui dubbi e i risultati parziali del test. Non solo. Se anche non bastassero le citazioni su Prometeo o quelle tratte da Robert Oppenheimer, Garland fa di tutto per dare all’inventore Nathan l’aura del mostro sacro, del demiurgo geniale e oscuro (“Se la tua invenzione funziona, non verrai iscritto nella storia degli uomini, ma in quella degli dei” gli dice Caleb in piena ammirazione prima di inaugurare le sessioni con Ava). In questo senso, l’assenza di Deus dal titolo, che rimanda alla celebre dicitura della tragedia greca, finisce per rilanciare ulteriormente la presenza della divinità, dell’istanza creatrice. La questione da uomo/macchina diviene così dio/uomo/macchina e lascia subentrare una nuova domanda: chi dipende da chi? È la divinità a dover creare una macchina per poter essere definita come tale (deus ex machina) o la macchina che necessita un dio che le dà la vita (machina ex deo)?
Questa nuova domanda apre considerazioni più generali sul rapporto fra uomo e tecnologia. Garland introduce nella storia anche la questione dei big data, l’incredibile quantità di informazioni su di noi che in ogni momento offriamo ai motori di ricerca e alle aziende digitali, e costruisce il set come una casa del Grande Fratello dove tutto è visibile tramite finestre a vetro, pareti trasparenti e camere di sorveglianza poste ovunque. La sensazione di controllo dei dati sensibili viene quindi rilanciata dal design del luogo: una sorta di architettura organica con interni high tech tutta basata su vetri, trasparenze e porte ad apertura con microchip immersa in una natura sconfinata. Vedere tutto e sapere più cose dell’altro diviene alla fine il gioco anche fra i tre protagonisti. Un conflitto che si gioca a due a due e che, man mano che il film prende corpo, si incanala nell’archetipo del triangolo in cui due dei poli si alleano e cercano di cospirare ai danni del terzo. Ecco quindi che anche il secondo interrogativo del film parte dal centro del dibattito attualissimo sulla cosiddetta tirannia della trasparenza e sulla sovraesposizione delle identità e arriva a ricollocarsi in un escamotage da noir psicologico più che fanta-politico. La storia di Ex Machina ha, per capirsi, meno elementi in comune con 1984 o con il romanzo The Circle di Dave Eggers, e più con le dissimulazioni e le seduzioni di La fiamma del peccato.
L’elemento del noir introduce la figura della dark lady e pone infine un ultimo dubbio: l’intelligenza artificiale ha una coscienza anche della sessualità e dell’erotismo? È la domanda più sottile e stuzzicante, ma anche quella che viene posta nel modo più esplicito e che ha mosso le critiche più aperte al film, per il fatto che, dall’Eva futura di Villiers de l'Isle-Adam all’Ava di Ex Machina passando per il robot Maria di Metropolis, la replicante Rachael di Blade Runner o il sistema operativo Samantha di Her, non ci sono robot femmine che non siano anche oggetti sessuali. La risposta implicita a questo tipo di critiche (che trasportano sul terreno della science fiction un problema centrale dello sguardo che la Feminist Film Theory degli anni Settanta riportava su tutto il cinema americano classico) è ancora una volta una deviazione coerente più con il percorso drammaturgico che con il dibattito scientifico o filosofico. Garland svia la questione della sessualizzazione del robot vedendolo come un riflesso dell’eccessiva sessualizzazione dei due uomini. La tendenza dei film di fantascienza a far necessariamente convergere femminilità e seduzione diviene qui una caustica riflessione sul potere che l’uomo ritiene di avere nei confronti della donna: sia come creatore che come salvatore. L’intelligenza artificiale, da parte propria, comprende questo meccanismo e il potere dei sensi solo stando a guardare e studiando il comportamento umano al di là di un vetro.
Basta guardare ai lavori di scrittura firmati da Garland prima di questo per trovare una giustificazione a questa non-risposta. Se l’adattamento di Non lasciarmi cercava un’identificazione ancor più cupa e glaciale con lo sguardo del clone femminile protagonista del romanzo di Ishiguro, gli altri scritti, dal romanzo The Beach agli script di 28 giorni dopo e Sunshine, guardano sempre alla natura ostile e superba degli uomini. La fantascienza per lui non è materia distopica per le masse del futuro, ma per l’uomo del presente. Le armi di distruzione possono essere varie: una pandemia inspiegabile, il congelamento globale o, perché no, una sessualità strumentale. Ma i protagonisti sono sempre individui che, nel cercare di salvare il mondo, condannano solo se stessi.