I'm living with war in my heart, everyday
(N. Young)
We take care of our own
(B. Springsteen)
Si chiude su immagini dai toni crepuscolari, l'ultimo film documentario di Roberto Minervini. La carcassa di un'auto che è stata appena fatta saltare in aria giace in mezzo a un campo, il crepitare di fiamme sommesso nell'abitacolo, sullo sfondo di un tramonto infuocato. La stessa luce sanguigna del finale impazzito di The Texas Chainsaw Massacre. Al posto dello stridore dilaniante della sega elettrica un silenzio sommesso, di pace finalmente raggiunta, ma nell'aria ancora l'eco degli spari. Allineati sull'erba, qualcuno accovacciato, uno a pancia in giù, gli altri in piedi, tutti con fucili e mitra piantati sulla spalla, in otto hanno appena deflagrato una miriade di colpi contro la vettura, fino a farla esplodere con un colpo di bazooka. Poi ancora calci, urla, portiere divelte, come a infierire su un cadavere. Dell'auto rimane ben poco: ridotta in cenere la maschera del presidente infilata sulla testiera di un sedile, scomparsa la scritta sulla fiancata: "Obama sucks ass".
Tanto diversi l'horror di Tobe Hooper e il film del regista italiano, eppure accomunati nel raccontare un sud statunitense quasi primordiale, l'isolamento di una comunità che si scrive da sé le proprie leggi, all'interno della quale la famiglia è il fortino da difendere, luogo di malessere e sollievo allo stesso tempo, microrganismo di un corpo sociale malato su cui si stende l'ombra di guerre combattute o in corso. Manca l'intrusione dall'esterno, in The Other Side, il sopraggiungere dei malaugurati hippie che finivano tra le grinfie di Leatherface e parenti ma, come sentenzia uno dei protagonisti del film, "Sta per succedere… Non scherzo. Tra un paio di mesi l'ONU arriverà qui, ne parlano su Fox News e MSNBC, le reti di Obama e dei suoi. Stanno arrivando. Dicono che è per via dei profughi, che arriveranno qui e troveranno una soluzione migliore. Questo è il loro pretesto. Finiranno per dichiarare la legge marziale, preparatevi". Non arriveranno su un furgoncino Volkswagen, e una sega elettrica non sarà sufficiente.
Nelle loro tute mimetiche, i componenti della cellula paramilitare texana sono armati fino ai denti, pronti ad accogliere gli ospiti. Come fantasmi si aggirano per il bosco, nascosti dietro un tronco, oltre i cespugli, sfilano veloci da un albero all'altro. Lo stesso bosco dove altri prima di loro si sono persi, vagando nudi, sfiniti, in cerca di pace dalla guerra della vita.
I guerrieri della palude silenziosa
Inevitabile leggere l'intero film di Minervini a partire dall'ultima mezz'ora. Quella più esplicitamente politica, quella che alcuni hanno definito più "distante", per altri solo abbozzata. Inevitabile partire da qui per comprendere il senso complessivo di un'opera che segna invece un'ulteriore soglia di ricerca e sperimentazione, un nuovo grado di maturità e lucidità di sguardo nel percorso del regista marchigiano. Poco sensato anche accostare il film al precedente Stop the Pounding Heart, valutarlo in rapporto ad esso, se non per il legame che unisce i protagonisti di entrambi, il trait d'union concretamente umano che ha condotto il regista da uno all'altro. Una modalità operativa peraltro in uso fin dagli esordi, tanto che non si può che considerare The Other Side come il tassello finale di un lavoro cominciato nel 2011 con The Passage, proseguito l'anno dopo con Low Tide e culminato, prima che qui, nell'altrettanto bello e riuscito Stop the Pounding Heart.
Stavolta non solo c'è l'apertura del racconto a una coralità di personaggi, già messa in atto nel film precedente, l'abilità di tessere una trama filmica di relazioni per mezzo di rapidi accenni, minimi eventi tratti dalla quotidianità straordinaria del loro vissuto, ma anche la capacità di elaborare un discorso critico a sfondo sociale che prende corpo proprio nella suddivisione in due parti del racconto, nel contrappunto creato dai due ambienti, solo all'apparenza distanti e invece necessari l'uno all'altro, capaci di dialogare reciprocamente per produrre una chiara funzionalità di senso.
Una tensione tra due luoghi, due disposizioni ad esistere, estremamente sofferta, complessa, tanto nelle modalità di ripresa che nell'articolazione della struttura generale, in grado di rendere The Other Side opera unica, dolorosa e struggente quanto acuminata, tagliente. Ed è evidente che, nonostante le trite considerazioni sull'etica dello sguardo del regista si siano soffermate sui primi due terzi di film, il vero banco di prova era costituito non dai tossicodipendenti della Louisiana ma dalla comunità texana di paramilitari che poneva Minervini in una condizione di minor vicinanza nei confronti dei soggetti filmati, costringendolo dunque a rinunciare a quell'intimità così profonda raggiunta nell'ora precedente. Come si filma qualcosa che non si condivide del tutto? Un'ideale le cui motivazioni sono in parte comprensibili e in parte discutibili? Da che parte ci si mette, da quale distanza si guarda?
To shoot: filmare. To shoot: sparare. To shoot: iniettare in vena.
Uno stesso termine per tre atti differenti. Ma filmare qualcuno che spara non è la stessa cosa di filmare qualcuno che si fa. Lo sparo di un fucile necessità di campi lunghi, il vedere contemporaneamente il mirino e il bersaglio. La frontalità è esclusa, pena la morte. Riprendere qualcuno che si droga ha diverse implicazioni, ma l'inquadratura non può che essere ravvicinata, perché nullo è lo spazio che separa l'ago dalla vena. Più complesso è descrivere la traiettoria che la sostanza compie dentro il corpo, fino al cuore, nell'anima. Come il proiettile, non si vede, schizza veloce, e va cercata altrove, in tutto ciò che ne è conseguenza o premessa. Nel desiderio che ad essa conduce o nell'annichilimento che essa produce. E lo sparo? Il colpo di fucile? La raffica di mitra? Tutto si esaurisce nell'istante del boato. Dove scorgere la tensione che porta la mano a premere il grilletto? Come raccontarla? Dove inizia e a cosa conduce? Questa la vera sfida, nella consapevolezza che la guerra degli uomini è sempre e comunque guerra contro loro stessi.
Si dirà che la grandezza del lavoro svolto da Minervini sta nella capacità di entrare in simbiosi con Mark, il derelitto protagonista della prima parte, nell'abilità stupefacente di mostrarci la sua vita, le sue paure e le sue poche, piccole o grandi gioie. E si dirà, come si è detto, che proprio quel ritratto ricade nei luoghi comuni di un immaginario della tossicodipendenza che tanto cinema ha già raccontato. Niente di più facile da confutare, in realtà. Ma cosa dire, piuttosto, di Ray, grande e grosso, il guerriero che "ha combattuto sia nel deserto che nella giungla", bandana in fronte, alto, muscoloso, tatuato? Cosa dire del tremore nella sua voce, delle lacrime il giorno dell'indipendenza? Lui che la vita ha portato da tutt'altra parte rispetto a Mark, confinato in una roulotte, sul margine delle paludi.
Il senso profondo del film sta proprio nella prossimità filmica di due uomini, così diversi, quasi agli antipodi nel loro essere mascolini, eppure entrambi capaci di piangere, e nella lotta che entrambi combattono, con o senza le armi, contro un nemico invisibile, inafferrabile, fantasmatico, un altro da sé che in realtà si portano dentro e si sforzano di scovare, rivelare, nonostante il dolore. La stessa lotta combattuta dal regista, anche lui impegnato in un'opera di messa a nudo del sé, di proiezione e rispecchiamento nelle vite altrui, vite che potrebbero essere la sua, e allo stesso tempo in uno scontro impari: la concezione e messa in atto di un'ipotesi di cinema come patto tra pari, modalità di incontro e scoperta, e contemporaneamente strumento di riscatto, salvezza, da parte di un uomo per sé e per altri uomini.
Il coraggio e la sfida
Indagare la mascolinità dei giovani bull rider texani era stato lo spunto di partenza di Stop the Pounding Heart, poi accantonato a seguito dell'incontro con l'eterea e tormentata adolescente Sarah, colta nell'attimo di una trasformazione interiore: l'abbandono degli insegnamenti materni – la religione, il matrimonio, la sottomissione all'uomo – alla ricerca di una personale liberta del sé. Una fuga ancora solo interiore, agognata, forse impossibile. Come impossibile è la fuga di Mark in The Other Side, l'allontanarsi dalla comunità che gli dà nutrimento, nel bene e nel male, chiusa e protettiva, ossessivamente ripiegata su se stessa; una comunità cui dovrà fare ritorno, anche dopo i mesi di carcere che lo attendono, visti come una potenziale liberazione in una delle scene più toccanti del film. Steccati, recinzioni di filo spinato tutt'intorno a Sarah; un labirinto di alberi intorno a Mark, una foresta dantesca dentro la quale si entra spogliati di ogni indumento, per presentarsi nudi al cospetto delle proprie paure.
La paura di non essere abbastanza uomini scorre sottotraccia in un film che sembra parlare di tutt'altro. La tossicodipendenza, la devastante diffusione della metanfetamina, l'urgenza di ricorrere alle armi per la difesa privata, sono argomentazioni secondarie: a dominare è il confronto con la morte, una morte temuta, cercata, inseguita, sfuggita, misura di tutto il resto. La morte acquattata tra gli alberi, cui danno la caccia i paramilitari, invisibile quanto quella che si propaga nelle vene di Mark; la morte che consuma i corpi, corpi che le si oppongono, resistono, altri che le si consegnano, la agognano. "Voglio andare a dormire, e non essere disturbato", come dice Mark alla tenera nonna. Legalize freedom. Lo striscione trasportato in mezzo al cielo dall'aereo sul finire del film inneggia a una libertà ultima, evidentemente: la libertà di uccidere, la libertà di morire.
Non comprendere questo e soffermarsi sui momenti apparentemente più estremi, come quelli in cui Mark e Lisa fanno sesso o si drogano, significa essere ciechi di fronte alla maestria e all'articolata tessitura di una narrazione in grado di tenere insieme personaggi che pur comparendo una volta soltanto hanno lo stesso peso dei "protagonisti", e nella quale si sfiorano appena eventi estremamente drammatici (la morte del fratello di Mark prima, poi quella della madre) e assumono drammaticità momenti minimali. Il ballo della nonna, subito dopo la struggente camminata al fianco del nipote ("Non voglio che i cuccioli si avvicinino allo stagno"), la folgorante apparizione della nipote adolescente di Mark, altra anima irrequieta e predisposta alla fuga o all'autodistruzione. Barlumi di salvezza in mezzo allo sfacelo. Carezze, abbracci, scambi di tenerezze forse sfuggiti a chi ha preferito vedere solo la pena, la violenza, il dolore.
Raramente la marginalità è stata trattata con altrettanta, commossa empatia, grazie a un'esporre che non è esibire ma proteggere, sottrarre all'oblio, alla rimozione, per infine farsi indietro, lasciare che ciascuno prosegua per la sua strada, dopo il tratto percorso insieme. La medesima apertura concessa allo spettatore, libero di perdersi a sua volta, di accompagnare, o solo osservare, ma in ogni caso di trovare la propria posizione di fronte a ciò che vede. L'abilità di Minervini nel rendere trasparente la presenza della macchina da presa, già emersa in Stop the Pounding Heart, raggiunge qui un'evidenza magistrale (ben espressa dal breve prologo "mimetico" appena prima del titolo) che lascerà perplessi, dubbiosi o stupefatti molti spettatori o chi resta abbarbicato a concezioni superate dell'arte documentaria, e considera diktat le note considerazioni baziniane sull'irrapresentabilità del sesso e della morte. Tutto è stato già mostrato, ogni tabù infranto e una volta varcata la soglia solcare lo stesso terreno, un tempo proibito, è ancora più difficile, più rischioso. Minervini ne è consapevole e gioca a carte scoperte, mette in campo la propria fragilità per far emergere quella degli altri, esibisce il proprio coraggio per non subire troppo quello altrui. Perché solo in questo modo, esponendo se stesso così come fa con gli altri – in un gesto implicito di partecipazione totale – la sfida può aver senso, e il film farsi carne, cinema la vita vissuta; e l'occhio di chi guarda, né al riparo né complice, ma accolto, coinvolto, chiamato a partecipare e condividere. Qui sta lo scarto più grande dell'opera: la capacità di servirsi del cinema per giungere dall'altra parte, dove non oseremmo mai andare, per farci ritrovare noi stessi, esseri umani fragili e coraggiosi, impauriti ma non soli.
To all those who feel alone, you are never alone.
To all those that feel wothless, you're worth the world to me.
To all those that feel like nobody cares, I care.