“È per questo che mi piace Phil. È… semplice. Se gratti la superficie sotto trovi altra superficie.”
Con queste parole Kat, l'adolescente protagonista di White Bird in a Blizzard, descrive il suo primo amore. È una boccata di liberatorio cinismo quello a cui ci ha abituati Gregg Araki, capace di parlare delle tempeste ormonali della pubertà in modo più che esplicito e allo stesso tempo scevro di qualsiasi prurigine, raggiungendo un livello di realismo di cui si sente la mancanza in moltissimi teen movie. Ma l'esplicita assenza di ogni traccia di “romance” in questo caso non è semplicemente legata alla programmatica sex-positiveness che da sempre contraddistingue il regista. In questa dichiarazione sta la chiave che ci consente di interpretare il film e spiegare da dove nasca l'idea, da molti giudicata inconsistente, di accostare una tematica da thriller ai toni della commedia adolescenziale sulla scoperta del sesso.
Protagonista del film è l'adolescente Kat, costretta a fare i conti con la scomparsa della madre: alle esperienze con gli amici e con il sesso si intrecciano i flashback sulla vita della genitrice. Una donna dispotica, isterica, quasi caricaturale nel suo ruolo di casalinga disperata ferma all'ideale anni '50 della moglie perfetta, nonostante il film sia ambientato a cavallo tra gli anni '80 e i '90 (epoca cara ad Araki e che gli permette di adoperare un'ottima colonna sonora new wave). L'insoddisfazione della donna è tanto penosa per la famiglia che la sua inspiegabile sparizione è accolta quasi con sollievo da padre e figlia. Soprattutto Kat prosegue nella propria vita con ostentato disinteresse per l'accaduto. Il film è chiaramente filtrato attraverso la sua esperienza, come testimonia anche la voice over di commento, e in questo senso si configura come un'anti-indagine.
La narrazione che segue l'esperienza di Kat, infatti, non è una ricerca di tracce o indizi, al contrario: è un tentativo di sottrarsi alle evidenze, un'anti-indagine, un tentativo costante di non vedere. In una struttura diametralmente opposta a Gone Girl di Fincher, cui si avvicina per la tematica di genere, in cui abbiamo un marito sospettato dal principio che poi si rivela essere (almeno in termini giuridici) innocente, qui il marito è assolutamente al di sopra di ogni sospetto, almeno agli occhi della figlia. Come osservava Erica Jong, “ogni figlia impara a criticare la madre e ad assolvere il padre”, e il giudizio lapidario sulla madre diventa sempre più evidente in ogni flashback, che ci mostra una donna instabile, che sfoga su sua figlia le proprie frustrazioni, la chiama Kat perché voleva un gatto (e non un figlio), le inculca le ossessioni per l'aspetto fisico curato e compete con lei nelle dinamiche di seduzione. Il padre, affettuoso e ammirato sul lavoro, sembra invece avere l'unico difetto di non dedicare alla moglie sufficienti attenzioni dal punto di vista erotico, ma Kat, che pure da piccola va alla ricerca dei segreti dei genitori (e scopre un manuale per raggiungere l'orgasmo della madre e le riviste porno del padre in cantina) non sembra farsi troppe domande, e anche allo spettatore viene da liquidare la questione come la constatazione che in certi paesini di provincia degli Stati Uniti la rivoluzione sessuale semplicemente non era ancora arrivata. E così prosegue questo thriller al contrario, in una serie di immagini potenzialmente rivelatrici che si dissolvono in lunghe pause di buio, cui fanno da contrasto gli incubi che costellano l'esistenza altrimenti pacificata di Kat, caratterizzati invece da un bianco accecante. Sono questi sogni “rivelatori” a spingere la ragazza a prendere le difese della madre e farle giustizia, sogni che sanciscono la scelta di solidarizzare (a posteriori) con la madre ma non la soluzione dell'enigma, che arriva solo dopo e per caso.
In questo senso, e quasi in modo opposto a quanto accadeva nel capolavoro di Araki Mysterious Skin, White Bird in a Blizzard è un film contro l'indagine psicanalitica, è quasi il manifesto del rifiuto dell'inconscio: lo scontro messo in scena non è tra i generi, che appaiono paritari (esemplare e inedito, in questo senso, la maniera in cui è tratteggiata la figura dell'investigatore quarantenne con cui Kat intreccia una relazione sessuale), ma puramente generazionale. Non tra una generazione di carnefici (gli adulti) e una di vittime (gli adolescenti, come capita spesso nei teen movie, almeno da John Hughes in poi). Bensì quello tra una generazione in cui tutti sono vittime come quella adulta (come rivelerà il finale), e una che ha scelto di smettere di subire, quella dei ragazzini. E per uscire dalla retorica del vittimismo ha semplicemente deciso che i segreti uccidono. È una generazione della sincerità, come dimostra il rapporto tra Kat e i suoi coetanei, in cui tutto è messo in piazza, dalla consapevolezza dell'amica sovrappeso di essere grassa, ai sospetti degli amici sul padre di Kat. Non esistono eufemismi, pudori, riserve. E non perché si sia andati a recuperare qualche nascosta e sepolta verità che non può più essere taciuta: tutto è superficie. Il conflitto che vediamo sullo schermo quindi non è solo quello tra due generazioni: è quello tra modernità e postmoderno, tra autenticità e sincerità – nella definizione di Lionel Trilling. Nell'approccio alla vita di Kat non c'è nessuna ricerca di autenticità intesa come fedeltà a se stessi o costruzione di un'identità forte, non c'è un'intimità che viene portata allo scoperto. C'è una semplice e onesta disposizione a dichiarare le cose per come stanno. È un distacco che alleggerisce, e che salva.
Qui, allora, trovano un senso tutti gli aspetti dissonanti di un film che potrebbe apparire altrimenti non riuscito: il contrasto tra la recitazione disincantata dell'ottima Shailene Woodley e quello melodrammatico di un'irriconoscibile Eva Green, quello tra una narrazione traumatica e l'utilizzo di colori saturi che trasfigurano il reale in un trip. Certo, la maturità concettuale e l'intento troppo apertamente pedagogico dell'opera, che sembra costituire un testamento morale, fa perdere buona parte della spontaneità e della violenza delle immagini a cui ci aveva abituato il regista della Teenage Apocalypse Trilogy. Ma se questo implichi una riduzione del suo effetto eversivo resta a discrezione dello spettatore.
White Bird in a Blizzard, regia di Gregg Araki, USA, 2014, 91'